Anche se a noi può sembrare strano, il mondo del terrorismo islamico ha una dimensione “politica” interna, basata su accordi e scontri di potere, con dinamiche non dissimili da quelle di un “normale” sistema politico pluripartitico.
Questi ultimi anni sono stati caratterizzati dall’incontro-scontro fra due “narrazioni” che, pur concordando sul fine ultimo – la fondazione di una società “integralmente” islamica – divergono sulle modalità per raggiungerlo.
Da un lato il modello al-Qaeda basato su una struttura a network. I militanti sono programmati a colpire sia nei paesi musulmani, per abbattere i governanti corrotti che si fanno scudo dell’islam per perpetuare i propri privilegi, sia nei paesi occidentali, per convincerli a togliere il loro sostegno ai predetti governanti.
Dall’altro il modello ISIS/Daesh che è nato da una costola dissidente di al-Qaeda facente capo ad Abu Musab al-Zarqawi. Secondo al-Zarqawi, occorreva conquistare prima un piccolo territorio in cui instaurare la perfezione del governo islamico in tutte le sue declinazioni, anche giuridico-amministrative. Sarebbe stato l’esempio di questo nuovo “califfato” ad attirare le truppe per la conquista del mondo e far cadere il resto del potere in mano ai jihadisti.
Questa disputa non ci è affatto estranea perché si combatte, per attirare dalla propria parte l’opinione pubblica musulmana, a colpi di attentati: vince chi fa più male agli avversari crociati (cioè noi).
Il primo decennio del XXI secolo ha visto la prevalenza del modello al-Qaeda. L’11 settembre ha conferito a Bin Laden la leadership del terrorismo. Nel 2014 la situazione, però, è cambiata radicalmente: al-Qaeda è in crisi – si calcola che nei sei anni precedenti sia stato eliminato il 70 % della sua dirigenza – e in una landa ai confini tra Siria ed Iraq uno sconosciuto Abu Bakr al-Baghdadi proclama la rinascita del “califfato”.
Comincia per al-Qaeda la “traversata del deserto” che sembra destinata a terminare in questo 2017: il sedicente califfato cede terreno e perde sostenitori. Un’occasione per ricompattare le forze.
Uno dei teatri più importanti e meno conosciuti di questo scontro è il Sahel dove si confrontano AQMI (al-Qaeda nel Maghreb Islamico), e Boko Haram. La foto che apre questo post è stata diffusa lo scorso marzo in occasione della fondazione di una nuova coalizione di jihadisti saheliani: Jamaat Nasr al Islam wa al Mouminin (Gruppo per la Vittoria dell’Islam e dei Fedeli).
I personaggi raffigurati sono i rappresentanti delle quattro organizzazioni terroriste che si sono riunite per rafforzare il network al-qaedista nel Sahel: Ansar Eddine, al-Mourabitoun, Katiba Macina e AQIM. A capo è stato nominato Iyad Ag Ghali (al centro nella foto), già esponente di spicco delle ribellioni Tuareg degli anni ’90, considerato l’astro nascente del jihadismo regionale. Questa aggregazione sembra in grado di raccogliere anche alcuni pezzi lasciati orfani dal crollo del sedicente califfato.
In gioco non c’è solo la leadership militante ma anche il controllo dei lucrosi traffici che scorrono dalle coste atlantiche fino alla regione del Lago Ciad per poi dirigersi a nord verso il Mediterraneo. Dalla cocaina sud-americana al traffico di migranti fino alle sigarette di contrabbando, prima di giungere in Europa, tutto passa da qui e paga dazio a chi controlla il territorio. A fianco di Iyad Ag Ghali è raffigurato Mokhtar Belmokhtar signore di al-Mourabitoun, conosciuto nell’ambiente con il soprannome di Mr. Malboro.
Questo piccolo racconto ci dice che il terrorismo è in grado di adattarsi per resistere: tecnicamente si definisce capacità di resilienza. Quando si pensa di averlo sconfitto si è tagliata solo una delle tante teste del drago. Avremo a che fare con questa minaccia ancora per molti anni e quindi conviene attrezzarsi, soprattutto caratterialmente, per non cedere al panico che ne sancirebbe la vera vittoria.
Valter Maccantelli