Ermanno Pavesi, Cristianità n. 167-168 (1989)
Heinrich Schipperges nasce il 17 marzo 1918 a Kleinenbroich, nella Renania Settentrionale, una delle regioni nord-occidentali della Germania; dopo aver interrotto gli studi dal 1937 al 1945 per prestare servizio militare, nel 1951 si laurea in medicina e nel 1952 in filosofia. Quindi svolge per alcuni anni attività clinica, poi, nel 1959, diventa professore incaricato di Storia della Medicina e di Storia della Cultura Araba Medioevale all’Università di Kiel. Nel 1961 viene chiamato alla cattedra – appena istituita – di Storia della Medicina all’Università di Heidelberg e alla direzione dell’annesso Istituto di Storia della Medicina, cariche che ricopre fino al 1986, quando lascia l’insegnamento.
Il contributo di Heinrich Schipperges alla storia della medicina si esprime in oltre seicento pubblicazioni e si può definire indubbiamente importante e originale. Caratteristiche della sua imponente produzione sono lo sforzo di considerare la medicina come un fenomeno culturale non autonomo, ma strettamente collegato agli altri aspetti della cultura, e un’analisi storica sempre sensibile alla dimensione etica, che non si limita all’esame della medicina del passato, ma che prende spesso in considerazione anche quella contemporanea, e addirittura si proietta verso il futuro nel tentativo di identificare tendenze e possibili sviluppi a partire dalla situazione attuale: in questa prospettiva l’attività scientifica di Heinrich Schipperges sulle fonti della medicina del passato acquista una sorprendente puntualità e può spiegare il grande interesse che anche i non specialisti mostrano per la sua opera, interesse testimoniato dal successo editoriale dei suoi circa quaranta volumi.
Fra i suoi testi più significativi si possono ricordare Lebendige Heilkunst (“Arte medica vivente”, Walter, Olten 1962), Die Assimilation der arabischen Medizin durch das lateinische Mittelalter (“L’assimilazione della medicina araba da parte del Medioevo latino”, Steiner, Wiesbaden 1964), Utopien der Medizin (“Utopie della medicina”, Müller, Salisburgo 1968), Moderne Medizin im Spiegel der Geschichte (“Medicina moderna allo specchio della storia”, Thieme, Stoccarda 1970), Die Medizin in der Welt von morgen (“La medicina nel mondo di domani”, Econ, Düsseldorf e Vienna 1976), Medizin und Umwelt (“Medicina e ambiente”, Hütig, Heidelberg 1978), Die Welt des Auges (“Il mondo dell’occhio”, Herder, Friburgo in Brisgovia 1978), Wege zur neuen Heilkunst (“Vie per una nuova arte medica”, Haug, Heidelberg 1978), Hildegard von Bingen (“Ildegarda di Bingen”, Walter, Olten 1978), Kosmos Anthropos (Klett, Stoccarda 1981), Der Arzt von morgen (“Il medico di domani”, Severin und Sidler, Berlino 1982), Historische Konzepte einer theoretischen Pathologie (“Concetti storici di una patologia teoretica”, Springer, Heidelberg 1983), Die Vernunft des Leibes (“La ragione del corpo”, Styria, Graz 1984), Homo patiens (Piper, Monaco di Baviera 1985), e Die Technik der Medizin und die Ethik des Arztes (“La tecnica della medicina e l’etica del medico”, Knecht, Francoforte sul Meno 1988). Una bibliografia completa e aggiornata fino al 1986 si trova nel fascicolo commemorativo del 25° anniversario della fondazione dell’Istituto di Storia della Medicina dell’Università di Heidelberg, 25 Jahre Heidelberger Institut für Geschichte der Medizin. Eine Dokumentation. 1961-1986, alle pp. 69-117.
Il giardino della salute: la medicina nel medioevo (Der Garten der Gesundheit: Medizin im Mittelalter, Artemis, Monaco di Baviera e Zurigo 1985) è il primo volume di Heinrich Schipperges pubblicato in lingua italiana, ne rappresenta adeguatamente l’opera ed è di grande utilità non soltanto per accostare la medicina medioevale, ma pure – o soprattutto – per meglio comprendere la condizione umana – con la sua fragilità e le sue infermità, ma anche con la sua forza e con le sue virtù – in quella “età di mezzo” che va dalla caduta seguente il peccato originale al giudizio universale.
Nella Prefazione (pp. 7-8) l’autore fa rilevanti enunciazioni metodologiche relative tanto all’accezione del termine “medicina medievale” (p. 7) quanto al rapporto della medicina con la cultura in genere: “[…] quando, nella presente opera, parliamo del mondo dell’uomo medievale, ci riferiamo in prima istanza alla condizione dell’uomo sofferente, che non è possibile afferrare senza considerare la visione del mondo che sta alle sue spalle. La medicina medievale […] non dev’essere intesa nella moderna accezione del termine, ma non va neanche confusa con le tecniche empiriche di una medicina popolare antiquata: ci troviamo infatti di fronte a un sistema organico che abbraccia tutti gli aspetti dell’uomo sano, malato e da guarire” (ibidem).
Lo studioso tedesco riprende questi concetti nel primo capitolo, un’Introduzione (pp. 9-12): dopo aver preso atto che “proprio in questi ultimi anni la nostra visione della cultura del medioevo europeo si è straordinariamente arricchita e precisata grazie alle ricerche effettuate nei campi della storia, della letteratura, dell’arte e delle religioni” (p. 9); e che “la storia delle scienze tecniche, economiche e sociali ha aperto inoltre prospettive inattese, dando nuovi impulsi alla medievalistica tradizionale” (ibidem), Heinrich Schipperges constata che la storia della medicina è in ritardo rispetto ad altri settori, ma che i risultati ottenuti lasciano intravedere “un’insospettata ricchezza” (p. 7). Infatti, solo riconoscendo tutta la portata storica della civiltà cristiana medioevale è possibile apprezzare il ruolo in essa avuto dalla medicina: “Per noi, oggi, il medioevo non è più né un’epoca di regresso né un ponte gettato fra l’antichità e l’era moderna, ma piuttosto un unico, grandioso processo creativo tuttora in corso che getta luce sul mondo presente e futuro, in tutta la sua ricchezza e le sue contraddizioni, le sue radici e, non da ultimo, nel suo sradicamento” (pp. 9-10). Anche la medicina è stata partecipe di questo “processo creativo” e fra le grandi conquiste medico-sociali che il nostro mondo ha ereditato dalla civiltà cristiana medioevale l’autore cita “1. la concezione della medicina come servizio sanitario pubblico, come assistenza, formazione e politica sanitarie destinate alla collettività; 2. l’evoluzione del vecchio “ospizio” in un moderno complesso ospedaliero che non sarebbe più pensabile cancellare dalla nostra realtà sociale; 3. l’assimilazione di questa scienza medica nell’università, nell’ambiente accademico – circostanza, questa, per nulla ovvia “ (p. 10).
“Non acquisteremo familiarità con l’universo dell’uomo medievale finché non avremo perscrutato la visione del mondo che lo sorregge” (p. 13): con questa tesi Heinrich Schipperges apre nel secondo capitolo – dedicato a Immagine del mondo e mondo di immagini meravigliose (pp. 13-27) – il discorso sulla medicina medioevale partendo dalla corrispondente visione del mondo, che comprende teologia, antropologia e cosmologia, e allo scopo si serve particolarmente delle opere di santa Ildegarda di Bingen, una delle figure femminili di maggior spicco dell’Alto Medioevo non solo in quanto mistica, ma anche in quanto esperta nel campo della medicina. Lo studioso tedesco commenta tre tavole che illustrano il manoscritto del Liber divinorum operum, “Il libro delle opere divine”, conservato nella Biblioteca Governativa di Lucca. Nella prima tavola, che rappresenta la condizione primordiale, è raffigurato l’uomo nel suo mondo, un universo retto dalle mani della Trinità: “Al centro dell’edificio cosmico […] campeggia in proporzioni gigantesche l’uomo; egli deborda dai netti confini della terra e si colloca nella ruota del cosmo a capo eretto e a braccia aperte. Egli governa gli elementi cosmici sia con lo sguardo sia con le mani, come un uomo che regga e muova con la mano una rete da pesca” (pp. 15-16); ma questa armonia fra Trinità, uomo e natura è stata sconvolta dal peccato originale e la seconda tavola mostra l’uomo che “[…] si è staccato dalle mani della santa Trinità e ora – insieme a tutto il creato – si trova da solo nell’universo. La ruota del cosmo incomincia a girare e, trascinato nel vortice di questo movimento, si compie il destino del mondo.
“Con la sua caduta l’uomo ha distrutto definitivamente l’ordine armonioso del cosmo e ha gettato scompiglio negli elementi” (pp. 18-20). La terza tavola mostra l’uomo “caduto”, in posizione orizzontale, quasi supina, e di proporzioni ridimensionate nei confronti della natura rispetto alle tavole precedenti: opponendosi all’ordine universale l’uomo diventa homo rebellis, uomo rivoluzionario, e si trova ora fuori posto rispetto al creato: “[…] egli non è in sintonia col creato e in un certo qual modo spezza l’unità della natura nella molteplicità delle creature, provocando inoltre un nefasto scompiglio negli elementi del suo sistema umorale” (p. 20). Malattie e disfunzioni dell’organismo sono quindi conseguenze dell’atto di ribellione all’ordine di Dio: “Il fatto getta però luce sul senso di qualsiasi stato patologico: la malattia è difetto e fallimento, è una mancanza di essenza, una deformazione e degenerazione, un che di insufficiente o di sbagliato; in ogni caso si tratta sempre di una condizione caratterizzabile per difetto (modus deficiens), non di un processo morboso quale si aspetterebbe la moderna patologia medica, ma piuttosto dell’esatto contrario di qualsiasi tipo di processo” (ibidem). Ma le malattie non servono soltanto a ricordarci la nostra condizione primordiale di “benessere” (p. 22), ma anche la nostra destinazione ultima, la salute, e – in ultima analisi – la salvezza. Con la caduta l’uomo originario, l’homo constitutus, è divenuto “[…] gracile (homo destitutus), cagionevole di salute, malato e sottomesso alla morte. La sua smania di autonomia (superbia) ha nociuto al naturale rapporto con la natura; l’uomo è diventato il ribelle (homo rebellis) che ora deve portare il suo dissidio interiore anche nella storia. In questo contesto, la malattia è l’espressione emblematica di tale destituzione e deformazione esistenziale racchiusa nel concetto-chiave di bile nera (melancolia). In quanto simbolo della malattia, questa malinconia è perennemente contrastata dalla forza vitale della natura (viriditas), cosicché, accanto ai possibili rischi, dovremo sempre considerare anche gli elementi rigeneratori che conducono l’uomo alla salvezza (homo restitutus)“ (pp. 22-23).
Nel terzo capitolo, Nascita, maturazione e morte (pp. 28-56), Heinrich Schipperges constata le difficoltà dell’uomo e della medicina moderna di fronte ai fenomeni della nascita e della morte: “La morte è stata bandita già da tempo dalla società umana; la nascita è diventata un caso clinico” (p. 28). Talora si è imputata alla civiltà cristiana medioevale una scarsa sensibilità nei confronti dell’infanzia, “ma le fonti mostrano una realtà ben diversa: sia nella letteratura sia nell’iconografia, troviamo tutti gli stadi dell’infanzia e della giovinezza, dal lattante al bambino in fasce, una dietetica per bambini, giocattoli per i più piccoli e testi che si occupano dell’educazione e della disciplina del fanciullo” (pp. 28-29). Il mondo cristiano medioevale non conosce ancora una separazione netta fra abitazione, ambiente di lavoro e spazio per il tempo libero, per cui anche l’educazione dei bambini è inserita nella vita di tutti i giorni: “[…] i bambini crescono direttamente nel mondo degli adulti, in modo da imparare a vivere a contatto con la vita reale e non sulla base dei modelli didattici dei pedagoghi; è un mondo in cui non basta essere un buon artigiano se non si è anche un buon vicino di casa e in cui l’abilità (virtus) non è mai disgiunta dai vincoli sociali” (p. 36).
Anche il problema della sessualità nella civiltà cristiana medioevale deve essere riconsiderato: “Malgrado parecchie nuove ricerche, i nostri manuali e libri di testo sono ancora viziati da strani pregiudizi per quanto concerne la funzione della sessualità o la posizione della donna nel medioevo” (pp. 39-40). Indubbiamente anche nel Medioevo sono presenti correnti sessuofobe, ma “[…] la demonizzazione della donna, che viene attribuita indiscriminatamente a tutto il periodo, è frutto di epoche posteriori” (p. 40). Per esempio, secondo santa Ildegarda la sessualità non può essere staccata da una visione completa dell’uomo: “Innanzitutto l’essere umano è opus Dei, creato, divenuto e gettato nel mondo, e perciò dipendente, non autonomo né autarchico. Secondariamente esso è opus alterum per alterum, da non intendersi come “essere umano” in quanto tale, ma sempre e solo come uomo o donna, in un rapporto in cui ciascuno dei due si realizza per mezzo dell’altro e insieme all’altro. […]
“Ildegarda di Bingen descrive in termini molto concreti questa opus alterum per alterum: la sessualità rientra nelle condizioni originarie, nella constitutio prima o genitura mystica. All’inizio, uomo e donna furono creati “in tutta onestà”, l’uno per l’altra. Così, fin da principio, tutto andava bene” (p. 41).
Proprio l’analisi dell’atteggiamento verso la sessualità nel corso dei secoli mostra l’inconsistenza di certi pregiudizi che danno per scontata “[…] quella linea evolutiva ascendente sulla quale si pretende raggiungere, attraverso il rinascimento e la Riforma, l’umanesimo o l’illuminismo, quell’apice della cultura su cui oggi presumiamo di trovarci. A titolo di esempio particolarmente lampante si pensi ai processi contro le streghe, che con le loro mostruosità sessuofobe gravano ancor oggi sull’immagine del medioevo come “epoca buia”, mentre in ordine di tempo – visto che il loro culmine si colloca fra il XV e il XVIII secolo – essi cadono nell’epoca dell’umanesimo e dell’illuminismo” (p. 47).
Nel corso dei secoli muta anche l’atteggiamento nei confronti della morte; durante tutto il Medioevo questo è influenzato dalla fede nella risurrezione, e soltanto “con l’avvento dell’età moderna fanno la loro prima apparizione tutte le raffigurazioni culturali della morte: l’immagine dell’uomo con la falce, lo scheletro umano, la Parca che recide il filo della vita, l’ospite indesiderato sulla scena della vita. Solo nell’autunno del medioevo la morte compare con tutto il suo pathos: la morte come cavaliere, falciatore, cacciatore, suonatore e danzatore della macabra danza; come cavaliere dell’Apocalisse, scheletro con falce e clessidra, megera dalle ali di pipistrello e spettro del cimitero. Solo a questo punto l’arte di vivere si converte in arte di morire e il morire diventa un motivo stilistico della famosa ars moriendi barocca” (p. 52). Il rapporto con la morte rimanda alla concezione dell’esistenza terrena, ma soprattutto a quella della vita dopo la morte, dell’aldilà: “Dallo studio della letteratura dell’ars moriendi si apprende però anche che, verso la fine del medioevo, l’ “aldilà” si trasforma sempre più da luogo di beatitudine in un luogo terrificante, che non ha più alcun conforto da offrire” (p. 56).
Nel quarto capitolo, Il panorama delle malattie (pp. 57-89), l’autore sviluppa il tema dell’esistenza umana come fase intermedia fra la constitutio, la condizione di armonia primordiale, e il fine ultimo della restitutio, della restaurazione finale: “Nel corso del suo pellegrinaggio verso la vita eterna, l’uomo – un homo in statu viatoris – vive sempre e solo la categoria intermedia, le esperienze primordiali della sua fragilità e debolezza sotto forma di pena e dolore, tribolazione e colpa, incessante danneggiamento del suo benessere, perdita di equilibrio, bisogno e ricerca d’aiuto” (p. 58). Salute e malattie non sono categorie a sé stanti, ma poli estremi che abbracciano e delimitano la grande area intermedia della neutralitas, e il compito della medicina è quello di “[…] interpretare e coltivare l’ambito della neutralitas, il terreno a maggese fra “sano” e “malato”, fra “fisiologia” e “patologia”. In quanto medicina preventiva, la scienza medica delle grandi culture del passato più remoto includeva anche il sapere come condurre una vita sana e come istituire un sano regime di vita” (pp. 59-60). Questo comporta una concezione della salute diversa da quella moderna: la salute non è “qualcosa” che, normalmente, ci si può attendere dall’esterno in modo passivo, dal momento che “[…] l’esser malati non è tanto un processo quanto un danneggiamento, un modus deficiens, un dis-ordine, qualcosa che ci ostacola, ma non come un sasso che si possa rimuovere dal nostro sentiero, bensì come un buco nella strada che occorre riparare per poter proseguire. Questa l’opinione di Tommaso d’Aquino. Allo stesso modo, anche l’esser sani non si presenta come condizione o possesso; la salute non è una categoria, ma piuttosto un atteggiamento e un’aspettativa, una “frequentazione con qualcosa”, un habitus. La salute è un sentiero che si forma nel momento in cui lo si percorre” (p. 61). A un’esposizione dei princìpi generali della patologia medioevale, fondata essenzialmente sulla dottrina dei quattro umori, segue una descrizione delle grandi epidemie, della lebbra, della peste, del fuoco di Sant’Antonio e del ballo di San Vito. E di non poco interesse si rivela la risposta che la civiltà cristiana medioevale ha saputo dare ai problemi posti dalle epidemie con l’istituzione di ordini religiosi votati alla cura di questi ammalati, come per esempio l’Ordine di San Lazzaro.
La pratica terapeutica – questo il titolo del quinto capitolo (pp. 90-124) – non era prerogativa della classe medica, ma veniva esercitata da numerose professioni, dai chirurghi barbieri, barbitonsores, rasores, al personale dei bagni pubblici, balneatores; soprattutto nei conventi si delineano mansioni precise: l’infermiere, l’addetto ai salassi, l’erborista e il farmacista. Il livello tecnico non è paragonabile a quello della medicina moderna, anche se venivano praticati interventi di una certa difficoltà quali l’operazione alla cateratta e la trapanazione del cranio; vi era comunque una farmacopea differenziata che utilizzava le proprietà terapeutiche di minerali, di vegetali e di animali, e a proposito della quale, “contrariamente a quanto affermano i nostri manuali e libri di testo, occorre […] sottolineare la scarsità di elementi magici, taumaturgici o demonologici all’interno della letteratura medievale” (p. 95).
L’edificio della medicina – titolo e argomento del sesto capitolo (pp. 125-149) – è costruito sul rapporto medico-paziente, rapporto molto più articolato che non nella medicina moderna: infatti, la prassi medica deve assolvere due “[…] funzioni: tuitio (tutela della salute, previdenza, profilassi, prevenzione primaria) e restauratio (ristabilimento, cura, terapia e riabilitazione). Oggi l’abbiamo dimenticato, ma a quei tempi la tutela della salute prevaleva sulla cura dei malati, essendo la funzione difensiva più importante della curativa“ (p. 128). Alla scuola di Ippocrate già il primo Medioevo articolava la medicina in dietetica, farmacologia e chirurgia: “La dietetica si occupa dei sani e serve a impostare un regime di vita. Suo compito è quello di preservare la salute del corpo e garantire l’osservanza delle leggi vitali attraverso una vita regolata. Per contro, la farmacologia costituisce un tipo di terapia in senso più stretto, uno strumento di medicazione interna e una catalogazione dei diversi farmaci. La chirurgia, infine, si serve dell’intervento radicale praticato con la mano e uno strumento” (pp. 129-130). E la dietetica assume un’importanza primaria come scienza che insegna a condurre una vita regolata, come arte di vivere e di impostare un corretto regime di vita: “L’antica diaita – e qui occorre risalire al periodo delle origini – ha a che vedere con le regole di vita dell’uomo nella sua totalità. A tale scopo, la diaita si serve della physis, il naturale crescere e prosperare, raggiungendo così il nomos, la giusta misura e la regola, la cultura di una vita regolata. La cosa non è possibile senza paideia, senza istruzione e guida, senza arete, la virtù, e sophrosyne, il discernimento, senza educazione in quell’ambiente organico che gli antichi chiamavano cosmo, il meraviglioso ordine di un universo armonico.
“Una volta compreso tutto ciò, ci accorgiamo anche con costernazione di quanti fondamentali valori abbia perso la medicina e ci chiediamo come fare a ricuperarli” (pp. 145-146).
Nel settimo capitolo Heinrich Schipperges descrive La formazione del medico (pp. 150-187), che conosce una lenta evoluzione non unicamente dipendente da quella degli istituti di insegnamento in genere – con il passaggio dalla schola alla universitas –, ma anche dal mutamento della dignità dell’arte medica, per secoli accostata alle arti liberali senza però essere mai considerata un’arte a pieno titolo. Solo nel tardo Medioevo si afferma il principio, tanto semplice quanto convincente, espresso da sant’Isidoro di Siviglia nelle sue Etymologiae, principio secondo cui la medicina non faceva parte delle arti in quanto “quelle abbracciano, ciascuna per sé, argomenti settoriali, questa, invece, il tutto” (p. 160). In questo modo essa viene paragonata alla filosofia “[…] perché, se la filosofia presiede alla cura dello spirito umano, la medicina che assiste e guarisce il corpo abbraccia l’uomo nella sua totalità” (ibidem).
La formazione del medico deve quindi comprendere tanto le arti del Trivio quanto quelle del Quadrivio: “La grammatica diventò la disciplina logica fondamentale, ma anche una specie di fenomenologia da cui un medico non poteva mai osare prescindere” (p. 161); con la retorica il medico deve rispondere in modo credibile della propria teoria, difendendola e applicandola, rendendola praticabile e plausibile; “a un medico non deve poi mancare la dimestichezza con la dialettica, per poter ricercare sapientemente e curare razionalmente le cause delle malattie” (p. 162). L’aritmetica consente un esame quantitativo delle malattie e dei loro ritmi; la geometria rende conto delle relazioni fra malattie e ambiente; in quanto esperto in fatto di proporzioni e di sproporzioni il medico ha un rapporto particolare con la musica, “[…] e la sua vera arte consiste nella facoltà di armonizzare e stemperare nei modi più svariati le discordanze” (pp. 166-167); infine, con l’aiuto dell’astronomia egli impara ad “[…] avere dimestichezza con questa armonia cosmica che sembra esplicarsi nella corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo” (p. 168).
Lo studioso tedesco dedica l’ottavo capitolo ai Sistemi di assistenza sanitaria (pp. 188-220): essi sono stati influenzati in modo determinante dal cristianesimo, che fin dagli inizi ha messo in stretta relazione salute e salvezza e ha considerato l’assistenza ai sofferenti come un aspetto prioritario dell’amore verso il prossimo: “Cristo stesso è insignito ben presto del titolo onorifico di therapeutes” (p. 188), i Padri greci lo qualificano come medico, iatros, santa Ildegarda lo chiama magnus medicus. Al concetto fondamentale della medicina come servizio “[…] si aggiunge ora, nel primo medioevo, l’ hospitalitas, la servizievole ospitalità di cui è rimasta solo una pallida eco nei nostri “ospizi” e “ospedali”. Come si può leggere nel Codice 9 di Bamberga del IX secolo, la funzione della medicina (medicina humana) non è altro che una funzione religiosa compiuta sull’essere umano” (p. 190). Questo sviluppo è stato influenzato in maniera decisiva dalla Regola di san Benedetto, che ha esposto in modo magistrale i fondamenti dell’assistenza ai malati, “ed è impossibile sopravvalutare l’importanza di questa regola, che nella sua chiarezza e nella sua sobrietà sarebbe stata d’esempio per l’imponente sistema assistenziale dell’intero medioevo” (p. 194). Nel mondo occidentale, formato dal messaggio cristiano e che ne accettava l’influenza, era impensabile un convento senza una casa, per quanto piccola, per i malati, un luogo dove questi potessero trovare assistenza. Solo a partire dai secoli XI e XII, con il fiorire delle città e con gli spostamenti di grandi masse – dovuti alle crociate, ai pellegrinaggi e ai commerci – il sistema assistenziale conventuale “[…] sarebbe stato ampliato e arricchito, superato ma anche integrato dai movimenti secolari dell’alto medioevo” (p. 202) con la creazione di ospizi e di ospedali nelle città e lungo le grandi vie di comunicazione. Nei secoli successivi si osserva un ulteriore sviluppo: infatti, “se gli ospedali di antica data servivano più a scopi di sussistenza che di vere e proprie cure ospedaliere, a partire dal XIII e XIV secolo si manifesta già una spiccata tendenza alla specializzazione in senso terapeutico” (p. 213).
L’arte di vivere razionalmente – così Heinrich Schipperges intitola il nono capitolo (pp. 221-256) – costituisce il fondamento della medicina, in quanto è l’uso della ragione che consente di riconoscere l’ordine della natura e del cosmo a cui si deve orientare lo stile di vita: infatti, “il mondo sarebbe caotico, senza un tale principio ordinatore, un tale aliquod regitivum che guida e regola la nostra esistenza, che scandisce il nostro ritmo quotidiano. Simili regole di vita prendono forma soprattutto in piccole comunità quali la famiglia, il vicinato, il comune, le corporazioni e il ceto sociale, e inoltre anche nella Chiesa e nello stato” (p. 222). La medicina classica definisce l’insieme di tali regole diaita, “dieta”, che quindi non si riduce, come nell’accezione moderna del termine, a semplice restrizione del regime alimentare, ma interessa gli aspetti essenziali della vita, che necessitano della cultura codificata nelle sex res non naturales, nelle “sei realtà non naturali”: la prima, aer, non riguarda soltanto l’aria, ma tutto l’ambiente, naturale e sociale, in cui viviamo; la seconda, cibus et potus, s’interessa della cultura del mangiare e del bere; la terza, motus et quies, regola il giusto rapporto fra il movimento e la quiete, fra il lavoro e il riposo, fra la vita attiva e quella contemplativa; la quarta, somnus et vigilia, dice relazione con l’equilibrio fra il sonno e la veglia; la quinta, excreta et secreta, s’interessa dell’equilibrio ormonale e dell’eliminazione delle scorie; infine, la sesta, affectus animi, riguarda il controllo delle passioni, delle emozioni e dei sentimenti.
Mentre gli animali sono dotati di istinto, secondo san Tommaso d’Aquino “l’uomo, al contrario, ha per sua natura solo una vaga nozione di che cosa sia essenziale alla propria sopravvivenza; la ragione gli permette però, partendo da principi generali, di riconoscere alla fine, nei particolari, quanto è indispensabile alla sua vita di uomo” (p. 249). Né la conoscenza né la guida di un medico sono sufficienti, ma è necessaria quella “[…] forza naturale primordiale che gli antichi chiamavano virtus e che consiste nella moderazione” (p. 251), e che è in ciascuno di noi. Sempre secondo san Tommaso d’Aquino “[…] l’uomo è stato plasmato a somiglianza del suo creatore, ad imaginem Dei, e di conseguenza destinato ad similitudinem Dei. E la virtus consiste nell’aderire a questa sua destinazione; tale obiettivo rappresenta la massima impresa – non in senso morale, ma ontologico – del vir. Il principio di questa “virtù” risiede nella nostra naturale inclinazione, ma il cammino verso la perfezione si realizza secondo schemi razionali” (p. 253). La virtù diventa un fattore di stabilità e quindi dotato anche di proprietà terapeutiche: “Virtus est ordo amoris, scrive sant’Agostino nella sua eccezionale formulazione di un vero amor ordinatus, di un ordine di vita inteso come ordine dell’amore e che poi dovrebbe trasformarsi in ars recte vivendi, arte di vivere rettamente. La virtù è l’atteggiamento spirituale di uno stato d’animo equilibrato, è un habitus che permette di vivere in modo sensato” (ibidem).
Dunque, nella ricerca e nell’esposizione di Heinrich Schipperges la storia della medicina fornisce non soltanto un quadro inaspettato della medicina medioevale e delle sue implicazioni filosofiche e teologiche, ma aiuta anche a comprendere la concezione medioevale dell’uomo con la sua vocazione trascendente. E nelle Conclusioni – decimo e ultimo capitolo (pp. 257-259), seguito da una Tavola cronologica (pp. 263-267), dalla Bibliografia (pp. 269-273) e dalle Fonti delle illustrazioni (p. 275), che numerose impreziosiscono il volume – lo studioso tedesco riporta il pensiero del catalano Arnaldo di Villanova, medico e teologo laico vissuto a cavallo fra i secoli XIII e XIV, secondo cui “[…] Dio onnipotente ha creato la medicina come una scienza globale che deve servire all’uomo nella sua totalità. Essa non è quindi solo un mezzo per conservare la salute, ma anche uno strumento per perfezionare la propria vita. I rimedi, di conseguenza, non sono solo al servizio dei bisogni del corpo, ma anche della formazione spirituale. Tutto viene in soccorso dell’infermità, sia fisica sia psichica. E così la medicina terrena diventa una via verso il cielo” (p. 257); perciò, grazie alla consapevolezza del suo ruolo all’interno del creato, “in questo mondo medievale l’uomo non è mai raffigurato come il signore della natura, ma piuttosto come un pastore dell’essere, come un giardiniere e contadino che coltiva il campo e custodisce i pascoli, come colui cui è stato affidato il giardino che deve procurare gioia agli occhi del Signore” (p. 259).
Ermanno Pavesi