ALBERTO CATURELLI, Cristianità n. 307 (2001)
1. La sofistica attuale e i doveri e i diritti dell’uomo
Un noto sofista «postmoderno», che rappresenta adeguatamente l’abisso nel quale è giunto il mondo contemporaneo, sostiene che, posto il «disincanto»** come punto di partenza e d’arrivo del pensiero moderno, diventa impossibile «il discorso giusnaturalista»: «Non c’è un fondamento per sottomettersi a un ordine obiettivo dato, che ci trascenda; e nemmeno per sottomettersi a qualcuno, che potrebbe domandare la nostra obbedienza solo in nome di quell’ordine»***. E, in verità, da questo terribile «disincanto» deriva «un indebolimento interminabile dell’essere»****, superamento della metafisica «come un ricordarsi dell’oblio»*****. Tentare di uscirne costituisce una delle trappole o mascheramenti della metafisica. Nichilismo a partire dal quale diventa ormai impossibile non solo trovare una soluzione ma anche impostare il tema dei diritti dell’uomo, fondati su un ordine oggettivo (negato). Quindi niente. Niente di niente.
Tuttavia, il punto estremo al quale è giunto questo «pensiero» nichilista ha un aspetto positivo, in quanto proclama il ricordo dell’oblio (dell’essere). Ammette che il retto pensare, inevitabilmente «forte» e virile, non possa non affermare che ogni «oblio» è impensabile come «oblio» se non è oblio di qualcosa; senza questo qualcosa sarebbe impossibile il ricordo dell’oblio. E così, malgrado il nostro sofista, questo qualcosa si fa presente come l’ultima realtà che si sottrae a ogni «disincanto» e a ogni «oblio». Questo qualcosa è, almeno, non-nulla ed è quanto il pensiero (inevitabilmente «forte») chiama essere. Quindi il pensare non costruisce assolutamente trappole e non si deve «mascherare»: semplicemente non può non affermare che l’essere è e perciò può accusare l’ermeneutica postmoderna di «mascherare» (questa volta sì) i propri discorsi sulla (impossibile) negazione dell’essere. Non vi è altra strada che dire che l’essere rende possibile la propria negazione perché dietro ogni negazione si afferma che ogni ente «ha» essere. Tale affermazione equivale a dire non solo che ogni ente è per l’essere, ma che l’essere è dono, atto gratuito che si s-vela nell’ente. Questa affermazione non è una «maschera» autoritaria, ma l’evidenza prima del buon senso quotidiano, attraverso la quale so che l’atto d’essere (atto di tutti gli atti) si partecipa in ogni ente, di modo che l’ente esiste per modo di partecipazione; perciò sappiamo che ogni ente che esiste per partecipazione è totalmente causato nel suo essere. Ne deriva implicitamente la nozione di creazione, se con essa s’intende produrre l’essere stesso dell’effetto; cioè dell’ente. Così, la partecipazione dell’atto dell’essere nell’ente pone l’intelligenza nell’orizzonte dello stesso Essere Sussistente, Dio, datore dell’atto d’essere. In tal caso l’atto creatore è atto di giustizia distributiva non partecipata in quanto dona a ogni ente il suo, quanto gli è più proprio secondo il grado di dignità o di partecipazione nell’essere; questo suum di ogni ente è l’atto creatore (ragione del giusto) che dà a ogni ente il suo facendolo passare dal non-essere all’essere. Ne deriva che il suo è, nella creatura, quanto è più radicalmente dovuto. La creatura è ontologicamente debitrice (l’uomo è debitore per natura) benché non possa mai pagare il proprio debito. Questo è il diritto originario, cioè lo ius suum che s’identifica, nello stesso tempo, con il debitum primo. Perciò, assolutamente parlando, il diritto è il primo perché ne è titolare e ultimo fondamento Dio. Come si vede, il problema del diritto e del suo rapporto inscindibile con il dovere è, anzitutto, un problema metafisico e, poi, un problema morale.
Pertanto, se ho detto, contro l’ermeneutica sofistica, che la stessa negazione dell’essere è possibile solo attraverso l’essere, sappiamo anche che l’atto d’essere si svela nella persona che dice sum: io sono. Quest’atto suppone la prae(s)entia dell’atto d’essere (esse), che è il veramente primo. San Tommaso [d’Aquino (1225 ca.-1274)] insegna che cogliamo noi stessi quando conosciamo questo o quello (1); quando conosco (conoscenza iniziale) l’essere mi conosco. Sul piano ontologico l’atto d’essere costituisce, completa la persona, la isola; ma, sul piano conoscitivo, è comunicazione con sé; e siccome quanto ci è comune è l’essere (che conferisce alla persona unità e distinzione), la distingue dall’altro-soggetto-come-me, perciò questa prima comunicazione con me è comunicazione o apertura al tu (al prossimo). E poiché l’atto d’essere è solo «avuto» (puro dono), pone la persona nell’orizzonte dell’Essere Sussistente che è Dio, il Tu infinito. Il più originariamente mio e il più originariamente suo è l’atto d’esistere, in entrambi «ricevuto» o partecipato e in Dio non partecipato e assoluto. Poi, in relazione a noi, sono obbligato (obligatus) con me (che «ho» ricevuto l’atto d’essere), con te e, assolutamente, con Dio, sommo Donatore. Perciò questa è la radice ultima del dovere (dovere originario come riconoscimento del carattere di dono del mio essere) e dei doveri derivati verso sé stessi, verso gli altri e verso Dio. Come da una fonte, sgorgano così i doveri verso sé stessi — verso il corpo (salute), verso l’anima (intelligenza, volontà) —, verso Dio (la religione), verso il prossimo (conservazione della vita nella persona fisica del prossimo — contro l’omicidio, l’aborto), verso la persona morale (verità, menzogna), verso la proprietà, verso il lavoro (per esempio salario, cooperazione), verso il bene comune, verso le società minori, verso la Patria.
Ora possiamo comprendere a fondo perché la giustizia è la costante e perpetua volontà di riconoscere e di dare a ciascuno un suo diritto (ius suum) e perché il dovere (debitum), che nell’uomo è debito, sia la ragione formale della giustizia. Sia che il mio dovere verso l’altro si riferisca a quanto gli devo (diritto oggettivo), sia che si riferisca alla persona dell’altro che esige il giusto (diritto soggettivo), debitum e ius, dovere e diritto si richiamano in una sorta di relazione reale o cor-relazione inscindibile. Posto questo, dalla stessa natura della persona nascono i diritti verso sé stessi e verso gli altri. Cioè i diritti della persona singola (io stesso e il mio prossimo), della società originaria che è la famiglia, delle società minori, della società civile. A questo bisogna aggiungere quelli della società inter-nazionale. Ed enumero soltanto i diritti dell’uomo che emergono dalla sua stessa natura: diritti della persona singola (alla vita, all’integrità personale, al benessere, alla proprietà privata, a un processo giuridico giusto, al buon nome, alla riservatezza), della società familiare (al matrimonio, al celibato, all’educazione), della società civile (alla partecipazione alla vita pubblica, al voto, alla cultura, al lavoro, alla libera associazione), della società in rapporto con tutte le società del mondo (diritti delle nazioni, uguaglianza giuridica), alla religione e alla libertà di coscienza.
Come si può vedere in questa ridottissima enumerazione dei doveri e dei diritti naturali dell’uomo, essi fanno sempre riferimento agli atti che sono l’oggetto (iustum) della giustizia. Perciò è inconcepibile la giustizia senza il diritto, anche se potrebbe esistere un diritto non rispettato, cioè senza giustizia. Non bisogna dimenticare che i precetti primi del diritto sono l’oggetto (iniziale e perpetuo) del primo principio dell’ordine morale (sinderesis): «bisogna fare il bene». Questo ordine morale (ordine della libertà) spontaneamente noto, si fonda nell’ordine real-naturale e questo, a sua volta, nell’atto d’essere partecipato. Potremmo seguire il cammino inverso e così chiudere una specie di cerchio. Tolti da questo fondamento, doveri e diritti divengono arbitrari: una sofistica che si limita a enumerare i diritti (molti di essi frutto del capriccio) e rifiuta il fondamento, svuota e di fatto nega ogni diritto dell’uomo.
2. Il progressivo svuotamento dei diritti dell’uomo nella modernità
Ho evitato dall’inizio di utilizzare l’espressione «diritti umani», che oggi si usa per affermare che tali diritti sorgono dall’esercizio illimitato della libertà e anche per enumerare pseudo-diritti e perfino anti-diritti; invece, i diritti dell’uomo — come afferma la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 —, in quanto sono espressione dell’ordine naturale, sono anteriori all’esercizio stesso della libertà. L’esercizio della libertà suppone tale ordine. Quindi si tratta di doveri e di diritti che, proprio per il fatto di essere naturali (e potrei dire metafisici) sono anteriori alla decisione. Quest’anteriorità è quanto li fa oggettivamente validi.
Ho proprio iniziato questa riflessione prendendo in esame l’affermazione (negazione) della sofistica «postmoderna», che proclama il «ricordo dell’oblio» dell’essere, equivalente alla negazione più radicale dei diritti dell’uomo in quanto emergenti dall’ordine metafisico della persona. Perciò ho detto che l’ermeneutica del nulla non poteva non presupporre almeno il non- nulla, il qualcosa ivi dato, che implica, a sua volta, l’anteriorità totale di qualcosa rispetto al pensare. Un rovesciamento di questo rapporto originario — quello che ci propone la sofistica contemporanea — avrà conseguenze catastrofiche non solo per la cultura dell’Occidente, ma per la sopravvivenza della stessa sofistica. Tuttavia, questo rovesciamento si è verificato ed è cresciuto fino al nichilismo attuale, che porta con sé la scomparsa dei diritti dell’uomo. Affermare, con Nicola d’Autrecourt [1300 ca.-1369] nel secolo XIV, che le cose sono «apparenze» (fenomeni), e che bisogna rinunciare alla certezza (2), non differisce quasi in nulla dall’affermazione di Russell [Bertrand (1872-1970)] secondo cui il mondo è costituito soltanto da fatti e che, quindi, ogni proposizione filosofica non è niente di più di un errore grammaticale (3); il che conferisce una grande attualità alla tesi di Occam [Guglielmo d’, O.F.M. (1285 ca.-1349)], secondo cui la «notizia intuitiva» (conoscenza sensibile della singola realtà) è l’unica fonte di conoscenza; quindi, tanto Nicola d’Autrecourt e Occam quanto Russell e i suoi discepoli, che oggi sono migliaia, dovranno sostenere che non vi è essere (come atto d’essere) e, meno ancora, un rapporto reale fra realtà singole; se vi sono solamente «realtà singole» (atomi), e se la scienza riguarda realtà singole, perché i termini suppongono solo realtà singole (4), non esiste nessun rapporto reale perché il rapporto non è diverso dalle realtà singole; quindi, non vi è causalità metafisica e, se non vi è causalità, non posso affermare nulla di Dio e del mondo esterno, come sosteneva Nicola d’Autrecourt. Il mondo dell’uomo diventa autosufficiente e mancano di ogni fondamento (benché se ne parli) doveri e diritti dal momento che emergono da una natura metafisica … inconoscibile. Questa è stata la prima negazione del fondamento dei doveri e dei diritti dell’uomo. Quando il pensiero occidentale nega o dichiara inconoscibile la natura umana, non resta altro che trasferire il «fondamento» alla pura e as-soluta libertà; preferisce allora parlare di «libertà» e non più di «diritti» (libertà di associazione, libertà di disporre del mio corpo, e così via); «libertà» solo limitate — così si dice — dalle «libertà» degli altri, libertà che emergono dal «consenso» della «maggioranza» e non dall’ordine naturale che raggiunge la sua pienezza nella persona umana. Non più diritti, ma libertà di… Non potrei dirlo meglio di Jesus García López quando afferma: «l’onnimoda libertà di ogni uomo deve trovare sistemazione e incastro nel tessuto delle libertà degli altri» (5), «le leggi che regolano positivamente o negativamente l’esercizio delle libertà di tutti i cittadini devono essere istituite con il consenso della maggioranza di loro, senza dover rispettare nessuna norma previa, oggettiva, universalmente valida, come la propongono i sostenitori del diritto naturale. Questa è la concezione del liberalismo puro, che sembra animare la maggior parte delle difese che vengono fatte oggi dei diritti umani» (6).
L’atteggiamento che esalta i «diritti umani», in ultima analisi li nega perché nega il loro fondamento (un ordine naturale oggettivo spontaneamente conosciuto dall’intelligenza) e apre ampia strada all’arbitrio e così presenta come «diritti» (il divorzio, l’aborto, l’omosessualità, e così via) autentici anti-diritti in quanto atti contrari all’ordine naturale oggettivo. Questa posizione ha raggiunto il suo vertice nell’Illuminismo e ora ci limitiamo a verificare le sue conseguenze teratologiche, alcune tragicamente enormi. Se osserviamo il panorama di quelli che oggi sono chiamati contradditoriamente «diritti umani», dal fenomenismo di Nicola d’Autrecourt a Hume [David (1711-1776)] e da questi alla filosofia analitica contemporanea, dall’etica della situazione alla morale dell’«opzione fondamentale» e così via, incontriamo, da un lato, l’assolutizzazione della completa autosufficienza dell’uomo propria dell’Illuminismo e, dall’altro, l’esaltazione degli (pseudo) «diritti» senza norma oggettiva, puro arbitrio che ha portato — nella realtà quotidiana — alla progressiva negazione dei diritti naturali dell’uomo concreto. In questa contraddizione perpetua fra l’esaltazione di alcuni «diritti» indefiniti nell’ordine astratto e la loro negazione reale; di questa contraddizione vive e si affanna l’uomo contemporaneo.
Torniamo un momento al punto di partenza. Se conosciamo solamente il singolo fenomeno sensibile e la ragione resta «separata» dal dato iniziale, è logicamente possibile affermare il primato della ratio immanente a sé stessa, capace di «costituire» il proprio oggetto in quanto oggetto. In questo caso, la ragione arbitraria si converte in libertà arbitraria, che è «giusta» solo quando non costituisce ostacolo per la libertà dell’altro: allora non esiste il debitum, che nasce dall’ordine oggettivo (dare a ciascuno quanto gli è dovuto), ma semplici «obbligazioni estrinseche», che vanno osservate secondo una norma positiva (legalità esteriore); con il che si concretizza la separazione definitiva fra diritto e morale, fra diritto e ordine metafisico. Ma vi è di più: in questo modo sarà possibile identificare diritto e libertà (Hegel [Georg Wilhelm Friedrich (1770-1831)]) perché, siccome la ratio diventa assoluta, la volontà libera è unità di Io infinito e delle sue determinazioni finite; quando la volontà finita si risolve e si dissolve nella volontà infinita, i diritti dell’uomo sono definitivamente annullati nello Spirito Assoluto. La totale autosufficienza dell’uomo — l’idea essenziale dell’Illuminismo — anche per questa via lascia senza fondamento oggettivo i diritti dell’uomo. Nasce così un mondo ipocrita e contradditorio, che si proclama difensore della vita e che, nello stesso tempo, l’annienta. Come si vede, il «ricordo dell’oblio» (dell’essere) come de-fondazione di tutto e del tutto, ha annientato il diritto originario che è l’atto d’essere come lo ius suum dell’uomo e, con esso, l’uomo stesso. Allora, di quali diritti possiamo parlare? Non è morto soltanto Dio, fondamento ultimo di ogni diritto, ma è giunto il momento, come sostiene Foucault, della morte del suo assassino, che è l’uomo stesso. L’uomo — appena nato nell’autosufficienza dell’Illuminismo — è vecchio da morire: ormai non è necessario annunciare la morte di Dio ma la fine dell’uomo; cioè, «più che la morte di Dio […] il pensiero di Nietzsche [Friedrich (1844-1900)] annuncia la fine del suo uccisore» (7). Molto prima di Foucault [Michel (1926-1984)], un disperato come Émile Cioran [1911-1995], nel suo Bréviaire des vaincus, finito di scrivere due anni prima della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, esclamava: «Nulla ci precede, niente coesiste, nulla ci segue. L’isolamento della creatura è l’isolamento del tutto. L’essere è un mai assoluto» (8). E con una sorta di sicuro istinto negativo, proclamava: «Il cristianesimo giunge alla fine e Gesù scende dalla croce» (9). Non più doveri, non più diritti: niente di niente.
3. Luci e ombre nella Dichiarazione del 1948
Il quadro tragico che deriva dalla negazione di un ordine naturale oggettivo permanente, spiega che, alla fine della seconda guerra mondiale, verificate le atrocità che si commettono nel mondo, si pensò conveniente una Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Ma questa Dichiarazione — importantissima e necessaria — ha luci e ombre. Le luci sono il fatto stesso della sua proclamazione in un momento nel quale l’umanità cominciava a uscire dalla più grande tragedia di tutta la storia. Le ombre stanno nel suo non riconoscimento esplicito del diritto naturale e del suo fondamento ultimo, tradotto in un positivismo giuridico che è, dal canto suo, risultato del lungo processo dell’immanentismo moderno, che si è realizzato nell’attuale ermeneutica del nulla-nulla. Tuttavia, se si leggono con attenzione i considerato e i trenta articoli della Dichiarazione, si verificherà che il positivismo individualista e agnostico non ha potuto eludere — proclamando i diritti alla vita, alla sicurezza, all’educazione, a un giudizio giusto, alla libera circolazione, alla residenza, alla formazione di un matrimonio, al salario giusto — un riferimento implicito a un ordine previo, oggettivo e permanente che rende possibile questa stessa enumerazione. Come si mescolano il grano e il loglio, le luci e le ombre, nella Dichiarazione del 1948, i diritti naturali dell’uomo si fanno strada in mezzo al loglio del positivismo agnostico. Tocca a noi operare il discernimento fra il grano e il loglio, non separarli perché questo è riservato a un Altro, alla fine dei tempi.
Il caro amico frà Vittorino Rodríguez y Rodríguez O.P. [1926-1997], partito per la Casa del Padre nel 1997, ha pubblicato una critica particolareggiata alla Dichiarazione del 1948 in occasione del quarantesimo anniversario della sua proclamazione (10). La mia concordanza profonda con la sua critica costruttiva mi obbliga adesso a citare spesso il suo eccellente lavoro. Anzitutto, bisogna insistere sulla concezione non metafisica dell’uomo, il che implica ignorare i doveri naturali, radice di tutti i diritti. L’agnosticismo della Dichiarazione — che esige come «fondamento» solo la libertà individuale e il semplice «consenso sociale» — le impedisce di sostenere il diritto alla verità e alla veracità (11) e la porta ad assolutizzare la libertà e l’uguaglianza, deformate in arbitrio e in ugualitarismo, caratterizzate dalla confusione fra l’uguaglianza essenziale con le disuguaglianze accidentali. Da parte mia, segnalerò che la libertà (perfezione della volontà previa rispetto a ogni diritto) è sostituita dal suo contrario, l’arbitrio individuale; l’uguaglianza specifica è sostituita dall’uguagliamento o ugualitarismo contro natura; la fraternità sostenuta nell’uguaglianza essenziale e nell’immagine e somiglianza di Dio Creatore, è sostituita da una «fraternità» di fatto inesistente, astratta e infondata. I concetti cristiani di libertà, uguaglianza essenziale e fraternità sono stati sostituiti dai loro contrari «illuministi» delle giornate del 1789.
Forse l’ombra principale sta nel fatto che le Nazioni Unite «[…] si autocostituiscono […] in determinatrici dei diritti umani […] arrogandosi una competenza che non hanno» (12) e che la stessa Assemblea Generale «[…] si autocostituisce in potere sovrano e assoluto» (13). Ho già anche segnalato il fatto che la Dichiarazione lascia filtrare, senza volerlo, felicemente, qualche diritto naturale come il diritto alla vita e alla sicurezza (articolo 3); chiaramente a questo stesso proposito avrebbe dovuto condannare l’aborto e altre aggressioni contro la vita umana come il terrorismo, i sequestri di persona, le intimidazioni armate e tante altre. E, per concludere, è evidente che l’affermazione della «piena uguaglianza» di fronte a un tribunale indipendente e imparziale (articolo 10) dimentica che la giustizia distributiva e legale non è «uguale» ma proporzionale. A conferma del fatto che il diritto naturale (il grano) fa la sua comparsa nonostante il positivismo dominante, nell’articolo 16, 3, allude, per un’unica volta, alla natura quando dice che «la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società»*. L’individualismo liberale si autodenuncia proclamando il diritto di proprietà individuale e collettiva (art. 17, 1), dimenticando di affermare il significato sociale della proprietà, che tanto preoccupa il Magistero della Chiesa cattolica. Da ultimo, anche se potrei soffermarmi su molti altri aspetti critici — raccomando allo scopo il saggio di padre Rodríguez —, è utile segnalare l’articolo 21, 3, nel quale la Dichiarazione afferma che «la volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo». Invece, se si parte dall’affermazione del naturale e dell’ordine naturale, è ineludibile concludere che il naturale — l’ente sostanziale — «possiede» l’atto d’essere e non è l’essere, il che comporta l’affermazione che la «base» e l’origine dell’autorità è Dio creatore e non il popolo, che solo designa — attraverso possibili mezzi elettorali — colui o coloro da cui o dai quali desidera essere governato. Infine, l’articolo 23, 2, facendo riferimento al lavoro, fa coincidere il valore dell’atto del lavoro con il valore economico; in verità, se il lavoro è l’atto transitivo creatore dell’opera, come la causa si partecipa nell’effetto, così tutta la dignità della persona si partecipa nell’opera e, perciò, non si potranno mai commisurare valore del lavoro e valore economico (14).
La riflessione sulle luci e sulle ombre della Dichiarazione del 1948 non esclude l’affermazione della sua importanza e della sua opportunità storica. Ma le ombre ci obbligano a ritornare ai presupposti metafisici la cui assenza ha portato l’uomo attuale alla negazione stessa dell’ordine naturale.
4. Il Nuovo Ordine Mondiale, i diritti dell’uomo e il futuro dell’umanità
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo, con le sue luci e le sue ombre, rimane. Ma il processo dell’immanentismo non arresta il suo corso negli ordini filosofico, teologico, cosmico-scientifico e politico-sociale. Li ho già studiati in altra sede. Ora desidero solo fare riferimento all’immanentismo politico-sociale proiettato nel mondo attuale e che affetta gravemente i diritti umani e tutte le nazioni del pianeta.
Questa tappa, apparentemente finale, dell’immanentismo, che è passato dalla morte di Dio all’annientamento dell’uomo, dall’Essere al nulla-nulla, ha tuttavia lasciato in vita, ma rovesciata, l’idea di progresso ereditata dal pensiero biblico e dal cristianesimo. Se il cristianesimo «[…] giunge alla fine e Gesù scende dalla croce», come diceva Cioran, allora la terra si costituisce nel definitivo mondo dell’uomo e la scienza e la tecnica sono i mezzi efficaci per soggiogarla. Acquisiscono rinnovato vigore le idee di fondo dell’«illuminismo» che oggi crede, come Turgot, nel progresso materiale indefinito, che suppone la realtà come mutamento accelerato immanente al tempo della storia. Gli attuali sofisti, scambiati da «profeti» dell’idolatria secolaristica, annunciano una «realtà globale» che permetterà una sorta di «intimità mondiale» che [Zbigniew] Brzezinski, ripetendo Harvey Cox, chiama la «città secolare» o «villaggio globale» (15). Questa città, prefigurata da Marsilio da Padova [1275/1290-1342/1343?], nella misura in cui è autosufficiente, senza nessun riferimento al Bene Comune Assoluto, è totalitaria; fonda sé stessa e perciò si s-fonda, mostrandoci il perfetto parallelismo con l’attuale ermeneutica del nulla-nulla. È necessario smettere di aspettare una Patria celeste, rinunciare anche a una Patria terrena e riconoscere un potere, il più grande del pianeta, come la «provvidenza» intra-mondana del mondo. Questo potere del mondo o «Stato omogeneo universale» dice di alzare le bandiere dei «valori» dell’Occidente: tali «valori» non sono più quelli dell’antichità espressi nella paideia greca o nell’humanitas romana; non sono quelli della sapienza né quelli che derivano dall’impregnazione della società da parte dello spirito del Vangelo, ma — come ha detto Ronald Reagan dopo l’intervento in Libia — la democrazia, le economie libere e i diritti umani (16). Siccome il citato Brzezinski non sa di filosofia, può permettersi di dire che questo cambiamento progressivo dinamizzato dall’elettronica, dalla computerizzazione e dall’informatica, produrrà un «uomo nuovo» fino al punto che faranno la loro comparsa nuovi interrogativi, il primo dei quali sarà: «Chi sono?» (17). Ma dire una cosa simile significa che si tratta di un cambiamento sostanziale; in tal caso, si produrrà un cambiamento di specie… e questo «uomo nuovo» non sarà uomo. Non posso sapere che cosa sarà, ma non sarà uomo, e ancor meno soggetto di doveri e di diritti. Nulla.
Come sappiamo tutti, si è andati più avanti seguendo una certa logica interna dell’idea di progresso infratemporale: se il pianeta si avvia verso un mondo Completamente Unificato nel quale raggiungerà la sua pienezza lo Stato liberale, questo, come dice [Francis] Fukuyama, non ammetterà nessun miglioramento ulteriore: «la sua verità teorica è assoluta» (18) e «non può essere migliorata» (19); il che significa che nel 1789 si è raggiunto il fine della storia, quindi le comunità che non hanno raggiunto questo fine sono post-storiche — fuori dalla storia — e, nello stesso tempo, sarà stata sancita la scomparsa delle Patrie nazionali. La fine della storia, «profetizza» Fukuyama, «sarà un tempo molto triste» (20), nel quale scompariranno i grandi ideali per i quali si può dare la vita; scompariranno il patriottismo e il coraggio: «non vi saranno né arte né filosofia, solo la perpetua sceneggiata del museo della storia umana: in una prospettiva di “secoli di istupidimento”» (21). Tale fine infrastorico della storia non offre la sia pur minima garanzia di libertà autentica e di diritti naturali, ormai senza fondamento né significato, proclamati soltanto con una vuota retorica. Si comprende come sia contraddittorio parlare di uno «stato» finale della storia. Come ho detto tempo fa: se è la fine, o è temporale oppure è metatemporale. Non può essere metatemporale perché le premesse del funzionario Fukuyama escludono la Trascendenza. Quindi, è temporale. Se è temporale, il fine raggiunto dovrebbe arrestare il processo storico e una temporalità immobile non è pensabile. Se non si arresta, continua a essere storico e quindi non esiste e non esisterà mai uno stato o periodo poststorico. Quindi l’affermazione è contraddittoria e assurda. Il periodo «poststorico» è nulla; ma, guardato in profondità, è l’abisso del Nulla negativo del mondo immanente a sé stesso. Un mondo non solo del Nulla, ma di nessuno, dal momento che non vi saranno in esso né arte né filosofia, cioè un mondo senza Bellezza e senza Verità.
In un mondo senza Verità, senza Bene e senza Bellezza che sarà dei diritti dell’uomo? Che cosa dobbiamo pensare? Che cosa dobbiamo proporre per l’immediato futuro dell’umanità?
Se la Dichiarazione del 1948, anche se di grandissima importanza, non offre una fondazione metafisica e morale dei diritti che sostiene e nello stesso tempo si fa avanti un’umanità per la quale l’uomo come essere ri-esiliato è morto, allora la comunità umana non avrebbe neppure diritto di parlare di «diritti». La contraddizione diventa onnipresente come già accade attualmente: si afferma, nello stesso tempo, la libertà personale e si promuovono nuove forme di schiavitù; si afferma il diritto alla vita e si praticano l’aborto e l’eutanasia; si afferma la libertà di lavoro e si sostengono forme schiavizzanti di competenza; si afferma l’uguaglianza giuridica delle nazioni e, nello stesso tempo, si «risolvono» conflitti con la forza nuda e arbitraria. E si potrebbe continuare l’enumerazione indefinitamente. Perciò si deve riconoscere quanto aveva ragione Papa Giovanni XXIII [beato (1958-1963)] quando, di fronte alla Dichiarazione del 1948, diceva nella Pacem in terris: «Su qualche punto particolare della Dichiarazione sono state sollevate obiezioni e riserve. Non è dubbio però che il documento segni un passo importante nel cammino verso l’ordinamento giuridico-politico della comunità mondiale» (22). Sembrerebbe allora che, valutando l’importanza della Dichiarazione, della quale ricordiamo il cinquantesimo anniversario, sia opportuno fare alcuni cambiamenti e correzioni, a cominciare dal suo titolo complessivo che dovrebbe essere — come voleva padre Rodríguez y Rodríguez — «Dichiarazione a proposito dei doveri e dei diritti dell’uomo». Così si pone, da una parte, il fondamento immediato di ogni diritto nello stesso atto d’essere dell’ente e nell’ordine metafisico e, mediatamente, in Dio; dall’altra, si pongono il limite e il significato dei diritti dell’uomo. In questo modo si eviterà anche l’uso ideologico dei diritti dell’uomo. Per il pensiero cattolico, che sa che la grazia salva e cura la natura in quanto natura, una Dichiarazione dei diritti dell’uomo incommesurabilmente più perfetta è l’enciclica Pacem in terris, che dovrebbe esser presa come modello per fare le correzioni necessarie. E questo accade perché, come denuncia Papa Giovanni Paolo II in un discorso del 1998 sui diritti dell’uomo, «anche oggi si può verificare l’abisso esistente fra “la lettera” riconosciuta a livello internazionale in numerosi documenti e “lo spirito” attualmente molto lontano dall’essere rispettato» (23).
Non si tratta solamente dei diritti dell’uomo singolo, ma anche dei doveri e dei diritti delle nazioni in quanto sono persone morali; come tali, tutte e ciascuna di esse sono uguali in dignità, il che equivale a dire che, come soggetti di diritto, sono giuridicamente uguali. Pertanto, come la società civile si ordina al bene comune temporale, allo stesso modo la società di tutte le nazioni dell’orbe si ordina al bene comune universale; in entrambi i casi, il maggior bene del singolo — di ogni persona o di ogni nazione — è il bene comune, ossia il bene comune politico di ogni società, ossia il bene comune universale per ogni nazione. Perciò è chiaro che, se il Nuovo Ordine Mondiale è inteso come il «villaggio globale» unitario e autosufficiente, si oppone all’ordine naturale, che esige un mondo federativo: ogni nazione, che per sé si ordina al proprio bene comune, si comporta come una persona singola e si ordina, a sua volta, al bene comune universale o inter-nazionale. Quindi esiste una moralità oggettiva delle nazioni, fondata sull’ordine naturale; perciò la Dichiarazione del 1948 deve essere ampliata e completata con l’enumerazione dei doveri e dei diritti delle nazioni; perché sia possibile, è necessario che sia realmente effettiva l’uguaglianza giuridica delle nazioni. Nei fatti non è così. Come sappiamo tutti, benché la carta di fondazione delle Nazioni Unite non sia criticabile, la sua organizzazione operativa la rovescia stabilendo una differenza essenziale fra «grandi potenze» e le altre nazioni del mondo. Quelli che si autoqualificano «grandi» non solo sono riservati i seggi permanenti al Consiglio di Sicurezza, ma si sono attribuiti il cosiddetto «diritto di veto», che opera il trasferimento del diritto dall’ordine naturale alla pura forza. Come ha adeguatamente mostrato Pedro Baquero Lazcano spiegando che a questo punto «si spezza il sovraordinamento giuridico e sorge il principio politico dell’equilibrio di forze delle grandi potenze come criterio direttivo della vita internazionale» (24). Perciò, non bisogna solo approfondire, correggere, riordinare e ampliare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, ma anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Si tratta soltanto di un’indicazione di quanto dobbiamo pensare e di quanto dobbiamo proporre. Dal punto di vista storico e puramente naturale, sembrerebbe non esistere nessuna prospettiva futura, come accadeva ai pochi cristiani che vivevano nelle catacombe ai tempi di Tiberio [Claudio Nerone (42 a.C.-37 d.C.)]. Ma, ora come allora, sappiamo che nessun potere del mondo si fonda su sé stesso senza s-fondarsi. Come ha detto un sofista dei nostri giorni, «[…] la tendenza all’indebolimento [di ogni pensiero metafisico, l’unico che può fondare i diritti dell’uomo e delle nazioni] […] che questo corso manifesta è la verità del nichilismo di Nietzsche, il senso stesso della morte di Dio, cioè della dissoluzione della verità come evidenza perentoria e “oggettiva”» (25). Non più verità. Quindi, il potere planetario si giustifica da sé stesso, nudo e spietato. Ma Tiberio ha i piedi d’argilla e non sappiamo — come nel sogno di Daniele — quando una pietra — non lanciata da mano d’uomo — colpirà la statua ai piedi frantumandoli (cfr. Dn. 2, 34). Su questo non possiamo dir nulla da noi stessi. Invece, dal punto di vista soprannaturale, sappiamo con precisione che cosa dire, che cosa fare e che cosa sperare come i cristiani del tempo di Tiberio. Essi avevano, come noi, il «fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Eb., 11, 1). Quindi sappiamo che, contrariamente a quanto proclamava Cioran, che era spiritualmente cieco, il cristianesimo non solo non è giunto alla sua fine, ma ricomincia, in ogni istante del tempo storico, la ri-evangelizzazione del mondo, e che Cristo non è sceso dalla croce. Sta lì, con le mani trapassate e le braccia aperte. Chiama. E aspetta.
Alberto Caturelli
* Studio comparso con il titolo Los derechos del hombre y el futuro de la humanidad, in Verbo. Revista de formación cívica y de acción cultural, según el derecho natural y cristiano, serie XXXIX, n. 383.-384, Madrid marzo-aprile 2000, pp. 237-253. La traduzione, le note con asterisco e le inserzioni fra parentesi quadre sono della redazione di Cristianità.
** Cfr. Gianni Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 123-134.
*** Ibid., p. 127.
**** Idem, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 18.
***** Ibidem.
(1) San Tommaso d’Aquino, De Veritate, 10, 8 c.
(2) Cfr. Paul Vignaux [1904-1987], Nicolas d’Autrecourt, in Dictionnaire de Théologie Catholique contenant l’exposè des doctrines de la théologie catholique, leurs preuves et leur histoire, tomo 11, prima parte, Librairie Latouzey et Ané, Parigi 1931, coll. 562-587.
(3) Cfr. Bertrand Russell, Introduzione a Ludwig Wittgenstein [1889-1951], Tractatus logico-philosophicus, in Idem, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it., a cura di Amedeo G. Conte, nuova edizione, Torino, Einaudi 1998, pp. 1-109 (pp. 3-20).
(4) Cfr. Guglielmo di Occam O.F.M., Summa logicae, Pars prima, c. 65, ed. Ph. Boehner, Louvain-Paderborn 1957 [trad. it., Logica dei termini, introduzione, traduzione, note e indici di Paola Müller, Rusconi, Milano 1992, pp. 239-241].
(5) Jesus García López, Los derechos humanos en Santo Tomás de Aquino, Eunsa, Pamplona 1979, p. 31.
(6) Ibidem.
(7) Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad. it., con un saggio critico di Georges Canguilhem, Rizzoli, Milano 1998, p. 412.
(8) Émile Cioran, Breviario de los vencidos, trad. spagnola, Tusquets, Barcellona 1993, p. 50 [trad. francese dal rumeno di Alain Paruit, Bréviaire des vaincus, Gallimard, Parigi 1993, p. 37].
(9) Ibid., p. 38 [Bréviaire des vaincus, cit., p. 28].
(10) Cfr. Victorino Rodríguez y Rodríguez O.P., La Declaración Universal de los Derechos del Hombre ante la moral católica, in Idem, Estudios de antropología teológica, Speiro, Madrid 1991, pp. 221-257 [trad. it., La «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» di fronte alla morale cattolica, in Cristianità, anno XXVI, n. 283-284, novembre-dicembre 1998, pp. 15-27].
(11) Cfr. ibid., p. 224 [trad. it. cit., p. 16].
(12) Ibid., p. 229 [trad. it. cit., p. 17].
(13) Ibidem [trad. it. cit., p. 18].
* Sottolineatura dell’autore.
(14) Cfr. il mio Metafísica del Trabajo, Librería Huemul, Buenos Aires 1982.
(15) Cfr. Zbigniew Brzezinki, Between two ages, The Viking Press, New York 1970, trad. spagnola, La era tecnotrónica (sottotitolo dell’edizione inglese), Paidós, Buenos Aires 1979; cfr. pure l’opera di Harvey Cox, La ciudad secular, trad. spagnola, Ed. Península, Barcellona 1968 [trad. it., La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968].
(16) Cfr. La Nación, Buenos Aires 16-3-1986, 1a sez., p. 10, coll. 5-6.
(17) Z. Brzezinki, op. cit., p. 42.
(18) Francis Fukuyama, ¿El fin de la historia?, comparso in The National Interest, 1989, trad. spagnola, in Doxa, 1989, pp. 3-12; oggi è disponibile la voluminosa opera El fin de la historia y el último hombre, trad. spagnola, Planeta, Buenos Aires 1992 [trad. it., La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1996].
(19) F. Fukuyama, ¿El fin de la historia?, in Doxa, cit.
(20) Ibidem.
(21) Ibidem.
(22) Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in terris sulla pace fra tutte le genti fondata sulla verità, la giustizia, l’amore, la libertà, dell’11-4-1963, IV [trad. it., in Enchiridion delle Encicliche, vol. 7, Giovanni XXIII. Paolo VI (1958-1978), edizione bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1994, pp. 380-469 (p. 453). Sottolineatura dell’autore].
(23) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Congresso mondiale sulla pastorale dei Diritti umani in occasione del 50° anniversario della «Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo», del 4-7-1998, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XXI, 2, pp. 18-24 (p. 20).
(24) Pedro Baquero Lazcano, Misión, crisis y futuro de las Naciones Unidas, Universidad de Cordoba, Cordoba 1977, pp. 133-143.
(25) Gianni Vattimo, Más allá de la interpretación, trad. spagnola, Paidós, Barcellona, p. 52 [Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, cit., p. 19].