Scompare a 88 anni il fondatore di «The Chesterton Review», emblema di un conservatorismo che ci manca
di Marco Respinti
Il 10 gennaio 2024 si è spento a 88 anni don Ian Boyd, uno dei più grandi esperti e interpreti dell’opera dello scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936). Il 15 dicembre 2023 aveva celebrato il 60esimo anniversario della propria ordinazione sacerdotale.
Canadese, era cresciuto a Blaine Lake, nel Saskatchewan. La vocazione lo visitò da ragazzo, anche nelle fattezze del fratello Leo, padre oblato missionario impegnato a portare Cristo alle comunità indiane dei Territori del Nord-Ovest. Boyd optò per la Congregazione dei Padri basiliani, un ordine nato in Francia il 21 novembre 1822 allorché dieci sacerdoti diocesani decisero di sfidare le leggi anticlericali e anticristiane varate durante la Rivoluzione Francese (1789-1799), e in vigore ancora allora, aprendo un seminario in un piccolo villaggio nell’Ardèche e scegliendo come santo ispiratore Basilio il Grande (330-379).
Conseguito il Ph.D. nell’Università di Aberdeen, in Canada, don Boyd ha insegnato Letteratura cristiana nel St. Thomas More College di Saskatoon, in Canada, dunque nella Seton Hall University di South Orange, in New Jersey, fino alla pensione, nel 2019. Da profondo conoscitore ha discusso e interpretato con intelletto d’amore l’opera letteraria di T.S. Eliot e C.S. Lewis, Flannery O’Connor e Malcolm Muggeridge, Hilaire Belloc e Christopher Dawson, Graham Greene ed Evelyn Waugh, Maurice Baring e Muriel Spark, Charles Dickens e Nathaniel Hawthorne, e tanti altri, ma certamente il suo nome resterà per sempre legato a quello di Chesterton e soprattutto a The Chesterton Review.
Quel periodico, che compie mezzo secolo quest’anno, nacque in un tempo e in un mondo diverso, quando la stampa odorava di piombo e i correttori di bozze erano un bene imprescindibile. Don Boyd lo mise assieme per lo scopo esattamente contrario a quello per cui esiste tanto criticismo parolaio che finisce per annegare nel commento inutile all’inutile commento l’ispirazione di quei geni dell’umanità che chiamiamo artisti e che ci lasciano eredità affinché possa esistere una posterità. Don Boyd creò The Chesterton Review non per bearsi nell’eco delle proprie interpretazioni, come accade a tanta “terza pagina”, ma per lasciare spazio all’incontenibile propaggine del talento di un autore eletto a modello da imitare per la sua capacità di stimolare e pungere, istigare e turbare i sonni oziosi in cui vaga l’anima umana quando si dimentica che sulla Terra è soltanto in viaggio.
The Chesterton Review è un invito permanente al confronto con uno spirito magno e per suo tramite all’incontro con altri spiriti, simili e diversi, altrettanto grandi, sempre grandi non fosse che per il coraggio di disvelarsi a nudo mediante la scrittura per rivelare le profondità e gli abissi dell’animo umano.
Cinque decenni dopo, quel periodico è cresciuto in una blasonata pubblicazione accademica peer-review con davvero pochi pari, attorno alla quale don Boyd ha poi creato il G. K. Chesterton Institute for Faith & Culture accolto nella sua Seton Hall University come un bene primario e che ora gli sopravvive. Sulle sue pagine si sono incrociate firme indimenticabili e nomi imprescindibili, e alla fine del cammino resta una pignatta traboccante di pietre preziose, bella, letteralmente, nella sua confezione scarna e nel suo messaggio essenziale, nella scrittura vera e nel suo obiettivo nobile.
Personalmente, conobbi The Chesterton Review all’inizio degli anni 1990 allo stesso modo in cui ho conosciuto molto di quel mondo meraviglioso: attraverso il maestro Russell Kirk (1918-1994). Cominciai a sfogliarne le pagine nella biblioteca di legno di Mecosta, nel Michigan, dove Kirk conservava, come in un arsenale, le armi dello spirito e dell’intelletto, ma anche del cuore. Ve n’era una collezione completa. Poi cominciai a possederne i miei primi numeri, e poi cercai i numeri più vecchi, in attesa che uscisse sempre il numero nuovo. Sulle sue pagine vedevo scorrere nomi-talenti che avevo incontrato già altrove, grazie a Kirk, o di cui scoprivo la grandezza per la prima volta. Era come vedere schierato assieme il meglio di un mondo intero.
Don Boyd è stato uno dei rappresentanti più belli (non trovo aggettivo altrettanto sintetico e preciso) di quella cultura che porta il nome di “conservatorismo”. A dirlo oggi che il termine, dopo anni di censura ed esilio, ha sfondato la porta d’ingresso della retorica pubblica ed è già preda di badilanti e usura, caricature e inflazione, tremano le mani alla testiera. Non si vorrebbe fargli torno, né a lui né agli spiriti come lui, buttandola in caciara come già in caciara è finita. Ma non si può resistere: don Boyd era un conservatore profondo, e la cosa ha a che fare con l’attitudine dell’animo, la coltivazione dello spirito, la vita come militia pur nel recondito di uno scrittoio. Oggi che il conservatorismo è sulla bocca di tanti, manca il conservatorismo di don Boyd.
Conobbi don Boyd e lui viaggiò in Italia. Alto, segaligno, amabile, dolce. Colto e profondo, innamorato del proprio servizio sacerdotale e delle humanæ litteræ di cui si era fatto servo. Don Boyd era uno di quei personaggi dalla vocazione inequivoca. La letteratura era il modo in cui conosceva e si ammaestrava al senso delle cose e della vita, a scoprire il mistero di Cristo nella sua realtà carnale di sangue e ossa che diventano una cultura imprescindibile: il modo in cui l’umano, altrimenti nudo dopo il peccato, si riveste di abiti e corazze, mura domestiche e fortilizi, per affrontare il pellegrinaggio terreno riducendo quanto più possibile le ferite e le piaghe del percorso e poi giungere all’ultimo porto.
Don Boyd è giunto all’ultimo porto, ed è salpato. Oltre. Adesso con i suoi Chesterton e i suoi Eliot, i suoi Lewis e i suoi Dickens, i suoi Kirk e tutti gli altri straordinari spiriti di quel mondo ricco conversa amenamente conoscendo il tutto non più solo a tentoni.
M’immagino una scena profonda e senza limiti, eternamente presente e traboccante, di cui solo pallido, pallidissimo annuncio sono stati, per me, le chiacchierate amene e sapide in Italia quando guidai don Boyd per una trasmissione su Chesterton a Radio Maria e in un’altra occasione, una cena, in suo onore, a cui volle invitarmi, ospitata dall’ambasciata del suo Canada presso la Santa Sede. Ora che il banchetto di don Boyd è più ricco, non cagiona la salute e non terminerà più, oso chiedergli se avesse voglia di riservarmi un posto. Indosserò i gemelli da polso e il fermacravatte con il sigillo della sua Seton Hall University di cui mi fece dono.
Martedì, 16 gennaio 2024