Giovani fragili, tra paure e disagi psichici, in Italia e non solo
di Aurelio Carloni
Il rapporto 2024 del Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato il 6 dicembre, fotografa con chiarezza i contorni di una generazione di giovani in preda a paure e fragilità che spesso sfociano in disagi psichici.
I dati sono tragici e confermano il peggioramento dell’emergenza educativa molte volte denunciata da Papa Benedetto XVI durante il suo pontificato. Secondo il rapporto il 58,1% dei giovani di 18-34 anni si sente fragile. Il 56,5% dichiara di sentirsi solo. Il 51,8% dichiara di soffrire di stati d’ansia o depressione. Il 32,7% soffre di attacchi di panico e il 18,3% soffre di bulimia o anoressia. Dati superiori a quelli dei 35-64enni del 6-12% a seconda dei casi. Il Censis identifica cause multifattoriali che possono spiegare questa fragilità sistemica: «I genitori iperprotettivi, che non permettono ai figli di crescere e non si accorgono di come stanno; il ruolo dei social media nella costruzione di uno spazio indistinto, in cui i rapporti di amicizia e di amore rischiano di liquefarsi; la mancanza di modelli valoriali largamente condivisi e di modelli di comportamento collettivi sostituiti dal primato dell’io e del benessere individuale; la pandemia, prima, e il susseguirsi di eventi catastrofici a livello globale, poi: sono tante le cause che vengono addotte per spiegare il malessere diffuso ma difficilmente misurabile, che turba la vita dei giovani nel nostro Paese e spesso li porta a vivere in uno stato di incertezza, a non riuscire a pensare in maniera positiva al futuro o a convincersi dell’impossibilità di essere artefici del proprio destino».
Insomma, una deriva sociale che mostra come la Rivoluzione, intesa come processo plurisecolare di allontanamento da Dio e contro l’uomo, sia vincente in Italia e in tutto l’Occidente in agonia. Il punto centrale nell’analisi del Censis parte da «genitori iperprotettivi». Quei genitori che, secondo Jonathan Haidt (New York, 1963), considerato tra i più autorevoli psicologi sociali al mondo, sono onnipresenti nella tutela dei rischi esterni e nelle scelte scolastiche, sportive, universitarie dei figli, ma poco presenti o assenti nel controllo del tempo trascorso sui social. Nel suo volume recente, tradotto da poco anche in italiano, The Anxious Generation (Rizzoli, settembre 2024), Haidt ritiene che il crescente disagio dei giovanissimi negli Usa e non solo – con un aumento impressionante negli ultimi quindici anni di suicidi tentati e realizzati, di autolesionismo, di ansia e depressione, di disturbi alimentari – sia da ricercare nella possibilità di accedere 24 ore al giorno ai social media grazie allo smartphone, che si è diffuso proprio a partire dagli anni 10 del millennio. Un uso, non filtrato dai genitori, che li espone a molti rischi. Primo fra tutti l’accesso massiccio e quotidiano alla pornografia. Haidt riporta in questo senso una testimonianza di una quattordicenne di Rhode Island, Isabel Hogben, che in un articolo pubblicato da The free Press ricorda: «Avevo 10 anni quando ho visto per la prima volta un porno. Poi mi sono ritrovata su Pornhub, dove ero arrivata per caso e ci tornai per curiosità. Il sito web non verifica in alcun modo l’età, non richiede un documento d’identità e non ha neanche un prompt che chiede se sei maggiorenne. Il sito è facile da trovare, impossibile da evitare ed è diventato un classico rito di passaggio per i ragazzi della mia età. Dov’era mia madre? Nella stanza accanto, ad accertarsi che mangiassi la mia razione quotidiana di 9 porzioni di frutta e verdura di diverso colore. Era premurosa, quasi un genitore elicottero, ma io trovavo comunque i porno online. E anche i miei amici». Secondo l’autore, «l’articolo di Hogben è una concisa dimostrazione del fatto che stiamo iper-proteggendo i nostri figli nel mondo reale, mentre non li proteggiamo abbastanza online. Se davvero vogliamo tenere al sicuro i bambini, dovremmo ritardare il loro ingresso nel mondo virtuale e mandarli invece a giocare nel mondo reale».
Quello che è mancato alla generazione Z, cioè i ragazzi nati dopo il 1995, è l’esperienza del gioco con altri coetanei in casa o all’aperto, la possibilità di parlare, di scherzare de visu, di rincorrersi senza paura di cadere, di esplorare quella porzione di mondo, che sia il prato dinanzi casa o il cortile della scuola, in cui imparare a conoscere la realtà con i suoi rischi e le sue bellezze. Le regole per un’infanzia più sana nell’era digitale, tracciate da Haidt nel volume, sono quattro: «Niente smartphone prima delle scuole superiori; niente social media prima dei sedici anni; a scuola senza cellulare; più gioco senza supervisione e più indipendenza».
Sono regole preziose e di buon senso, le quali vanno però contestualizzate, ad avviso del sottoscritto, in un quadro pedagogico ben più ampio. Sotto questo profilo possono aiutare molto due autori impegnati seppur in campi diversi nella formazione dei giovani: don Fabio Rosini e Franco Nembrini. Il primo, che organizza ogni anno da decenni appuntamenti settimanali frequentati da centinaia di ragazzi e ragazze per avvicinarli alla fede, nel suo splendido volume L’arte della buona battaglia (edizioni San Paolo, 2023), sostiene che «lo stato di confusione esistenziale giovanile in cui ci troviamo è ormai mancanza di assi cartesiani interiori ed esteriori, assenza di punti di riferimento figlia della latitanza degli educatori, maestri mancati che sono cascati con tutte le scarpe dentro la tentazione di occuparsi di se stessi, narcisi inghiottiti dalla propria immagine, irretiti dal proprio ego, transfughi da quel che dovevano essere per chi era loro affidato. (…) ma se una generazione come quella di oggi cresce con dei genitori golosi e lussuriosi – ovvero bambinoni senza limiti – non può che avere confusione e mancanza di nitidezza, di identificazione: per questo tanta gente fatica nella interpretazione di sé. (…) Ecco, bisogna liberarci da questo inganno fine 900 per cui i nostri appetiti non potevano essere circoscritti e la nostra sessualità non doveva avere confini. Dovevamo fare quello che ci andava, e così, senza margini non abbiamo capito più chi eravamo».
Il secondo, Franco Nembrini, carismatico professore di lettere che riempie i teatri in tutta Italia di giovani e meno giovani per parlare di Dante e della sua Commedia, sostiene nel suo volume In cammino con Dante (Garzanti 2017) che «in questo mondo che ci induce sempre alla sfiducia, alle lamentele, a non piacere a nessuno – e non piacciamo nemmeno a noi stessi –, sarebbe stupendo potersi alzare al mattino, aprire la finestra e dire “Che bello!” E poi andare allo specchio e dire non solo che bello ma, come Dio, che siamo una cosa “molto buona”. La sfida è questa: scoprire che la vita è retta dalla misericordia vuol dire che ci alziamo al mattino, apriamo la finestra diciamo: “Che bello!” e poi ci guardiamo allo specchio e diciamo: “Che cosa grande!”. Stimarci per la stima che ha avuto in noi chi ci ha messo al mondo, chi ci ha dato la vita e ha dato la vita propria per salvare la nostra: questa è la partita».
In altri termini, il mondo si migliora solo partendo da se stessi. Una opzione che non ha alternative, a questo punto del declino della società occidentale, se non quella di rimanere impassibili di fronte al mondo che muore, senza muovere un dito per farne nascere un altro più bello e pieno di senso da affidare a quei bambini e giovani oppressi da una iper-protezione formale, che non li prepara alla vita e li induce a chiudersi in se stessi. Spesso soli — con la mamma e il padre nella stanza accanto, che vivono la loro vita rincorrendo carriere e palestre –, dinanzi a uno schermo che riproduce pornografia, che sporca irrimediabilmente nelle loro menti la bellezza dell’amore tra un uomo e una donna. C’è bisogno di adulti, di genitori, maestri, parroci, educatori, allenatori che si alzino in piedi, che assumano per primi le proprie responsabilità per invitare questi poveri ragazzi a vivere davvero una esistenza ricca di significato, nella loro pienezza, libertà e verità. A fare proprio il «Duc in altum! » evangelico rilanciato da san Giovanni Paolo II. Ossia non avere paura a prendere il largo, senza farsi imprigionare dalla tristezza e dalle convinzioni degli adulti, spesso mosse da pigrizia spirituale e fisica o dall’idea che non si possa fare più nulla. Potrà così rinascere una società più bella.
Venerdì, 3 gennaio 2025