Di Antonio Polito da il Corriere della Sera del 01/05/2020
Non c’è molto da festeggiare il lavoro, oggi. Non lo festeggiano quelli che l’hanno già perso. Quelli cui è stato sospeso. Quelli in cassa integrazione. Quelli che hanno dovuto chiedere il sussidio all’Inps. Quelli che ricominciano lunedì ma non sanno a chi lasciare i bambini e quanto ci metteranno in bus o in treno. Quelli che da due mesi non incassano un euro, come i barbieri e parrucchieri, e dovranno aspettare un altro mese, fino al primo giugno, che poi è un lunedì e sarebbero chiusi, e il giorno dopo è la festa della Repubblica. Quelli che chiedono il fido in banca, e lo aggiungono al precedente. Quelli che dovranno investire per adeguare il loro bar o il loro stabilimento balneare, ma non potranno incassare perché i clienti saranno molti di meno. Non sarà una festa neanche per quelli che si sentono stanchi e sconfitti, perché è da dieci anni che combattono la crisi di prima lavorando 16/18 ore al giorno e hanno scoperto — come mi ha scritto un artigiano da Brescia — di non «essere bionici, di aver voglia di pace, di silenzio, di parole gentili e non imposte, di non voler più uscire dal videogioco». A noi che abbiamo un buon motivo per festeggiare oggi il lavoro, perché ce l’abbiamo e ce l’avremo, spetta il dovere di dare aiuto, solidarietà e speranza. Senza di loro, l’Italia non si risolleverà.
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