Alberto Mazza, Cristianità n. 131 (1986)
Gli aiuti dell’Occidente ai paesi africani – stretti, anche per ragioni naturali, nella morsa della fame e della sete – non devono essere forniti né con una intenzione di ricatto né con un atteggiamento puramente assistenzialistico, ma ispirarsi a un modello di autentica promozione umana.
A proposito di sviluppo del Terzo Mondo
Il caso del Sahel
Fra i tanti problemi che travagliano ogni angolo del continente africano, quello del sottosviluppo nell’area subsahariana è stato sottratto, soprattutto in questi ultimi tempi, all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale.
Mi sembra perciò importante esporre sull’argomento qualche spunto di riflessione scaturito soprattutto da osservazioni direttamente effettuate sul terreno.
Con il nome di Sahel, secondo una classificazione successiva alla grande carestia degli anni 1966-1973, si indica la fascia di territorio africano che si stende tra il diciottesimo e il quattordicesimo parallelo, e che comprende parte della superficie del Senegal, della Mauritania, del Mali, del Burkina Faso – l’ex Alto Volta -, del Niger, del Ciad, del Sudan e dell’Etiopia. Negli anni Settanta questa regione è stata colpita da una graduale e costante crisi di desertificazione che ha avuto conseguenze catastrofiche per grande parte delle popolazioni indigene: l’avanzata del deserto vuol dire per esse una sola cosa, cioè la fame.
Ci si può innanzi tutto chiedere quale sia il motivo di questa graduale desertificazione.
Senza alcun dubbio le cause fondamentali sono di ordine naturale. Il Sahara ha già conosciuto, in epoche precedenti l’ultima glaciazione, crisi di desertificazione ben più acute di quella odierna. Le sabbie si spinsero cinquecento chilometri più a sud dei limiti attuali, e il fatto è testimoniato dai cosiddetti qoz, le dune fisse del Kordofan e del Senegal (1).
Ma alle cause naturali si sono aggiunte oggi alcune, e non trascurabili, cause umane, sicuramente non determinanti, ma in notevole misura aggravanti. Si tratta di cause sia strettamente inerenti all’area saheliana e correlate al persistere ormai nella zona di una situazione di carestia cronica – cito solo, a titolo di esempio, la pratica indiscriminata dell’agricoltura e della pastorizia senza alcuna tecnica razionale, il cattivo sfruttamento delle acque e la continua opera di disboscamento -, sia relative a problematiche storico-politiche, sociali e nazionali comuni anche a molti altri paesi africani.
La categoria storica più importante per interpretare gli accadimenti africani degli ultimi trent’anni è il concetto di conflittualità. Dapprima si è trattato di conflittualità per l’indipendenza e quindi di conflittualità nell’indipendenza; infatti, il conseguimento dell’indipendenza non ha purtroppo coinciso con l’inizio di un’epoca contraddistinta da una maturazione effettiva sul piano politico e da una crescita sul piano sociale e dello sviluppo economico.
Il quadro politico dell’Africa indipendente è caratterizzato, a partire dagli anni Sessanta, dall’instaurazione di regimi di tipo totalitario, generalmente di stampo marcatamente socialistico. Così, scorrendo la carta geografica a partire proprio dai paesi saheliani, si propone continuamente un esito politico connotato principalmente dalla costituzione di un partito unico – con la conseguente eliminazione di ogni forma di opposizione – e dall’inesorabile frattura tra vertice e base, tra l’élite al potere, spesso corrotta, spregiudicata e violenta, e le masse popolari sempre più diseredate e mortificate, nonché continuamente illuse con irreali e inadeguati piani economici.
Convivono nello stesso continente instabilità politica, corsa agli armamenti, indebitamenti, lotte tribali e consumismo, e il risultato, tremendo per chi aveva affidato all’indipendenza tutte le sue speranze, è che in molti paesi il reddito era maggiore e la qualità della vita migliore venticinque anni fa (2). Secondo Teobaldo Filesi, docente di storia e di istituzioni afro-asiatiche a Napoli e alla Pontificia Università Urbaniana, «in pochi anni sono definitivamente naufragati il mito della “negritudine”, il mito del “non allineamento” dei Paesi africani, quello dell’unità africana e il mito di quell’ideologia che sembrava essere la salvezza del continente: il “socialismo africano”» (3). Anche l’OUA, l’Organizzazione per l’unità Africana, è uno dei simboli più emblematici dei fallimenti dell’Africa. In ultima analisi si può dire che sia la rivalutazione dei valori originari della cultura e della storia africana, sia la ricerca dell’unità sono categorie importate dalla cultura europea e quasi sempre strumentalizzate da ideologie rivoluzionane. Cito, soltanto a titolo di esempio e nell’ambito dei paesi saheliani, la strategia alimentare di stampo socialistico adottata e praticata dai governanti maliani. Essa prevede la ristrutturazione del mercato cerealicolo per assicurare, tramite un circuito pubblico, l’approvvigionamento di categorie sociali politicamente privilegiate, legate al partito unico, senza sostanziali benefici per i produttori. Gli altri consumatori devono rivolgersi al mercato liberalizzato dove i prezzi sono molto più alti e in rapido aumento (4). L’effetto di ciò è che i produttori tendono sempre più a vendere clandestinamente all’estero i loro raccolti – si pensi che un chilogrammo di riso dà un reddito quattro volte superiore in Costa d’Avorio e due volte superiore nel Burkina Faso – e che le autorità maliane devono acquistare da altri Stati generi alimentari in quantità sempre più massicce, con conseguente aggravamento del deficit e in contraddizione con le prospettive di autosufficienza alimentare.
In una situazione così grave si inseriscono gli aiuti provenienti dal «Nord del Mondo», dai paesi più ricchi. Le potenze coloniali, e la Francia in particolare, pur non avendo una reale volontà di affrontare e risolvere molti dei problemi africani, hanno sovente lasciato opere i cui effetti positivi sulle popolazioni indigene perdurano ancora. Ne è esempio, in Mali, la diga di Markala, sul fiume Niger: essa consente l’irrigazione di una vastissima zona adibita a risaia ai margini del deserto.
Oggi si possono distinguere essenzialmente due modalità di aiuto. Il primo è quello puramente assistenziale, diretto e isolato, indubbiamente il più praticato. Esso presenta notevoli inconvenienti, come la difficoltà di raggiungere chi veramente ha bisogno, non solo per la mancanza o l’inagibilità delle vie di comunicazione, ma anche per gli accaparramenti da parte di pochi privilegiati, spesso legati all’apparato burocratico del partito unico. Inoltre, questo tipo di aiuti conduce in genere e rapidamente alla degenerazione del rapporto tra donatore e ricevente. Tale degenerazione può assumere due modalità diverse, dando origine da un lato al totale disinteresse da parte dei paesi donatori per le sorti e gli esiti di ciò che viene elargito, e dall’altro a una grave forma di dipendenza dei beneficiati, i quali sono spesso costretti a sdebitarsi nell’unico modo a loro possibile, cioè pagando con gravissime concessioni dall’elevato costo politico quanto hanno ricevuto in aiuti materiali. In proposito si devono citare non soltanto il comportamento dell’Unione Sovietica – non certo nota come ente di beneficienza internazionale, quando si tratta di avere un diretto e immediato tornaconto sul piano politico, strategico e militare -, ma anche quello che accompagna gli aiuti provenienti da enti pubblici – come la Banca Mondiale – e da fondazioni private – come, in particolare, le fondazioni Ford e Rockefeller -, che muovono da un pregiudizio favorevole al controllo delle nascite e ricattano i paesi in via di sviluppo concedendo tali aiuti solamente a quelli che si impegnano in massicci interventi per la limitazione delle nascite (5).
In ogni caso, qualunque tipo di aiuto assistenziale diretto, anche il più generoso e disinteressato, genera una cattiva educazione per il ricevente. Secondo lo storico africano Joseph Ki-Zerbo, «occorrerà un incitamento collettivo al lavoro. Bisognerà incoraggiare lo spirito di intraprendenza e di creazione a lungo termine: talvolta questo tipo di slancio viene meno per mancanza di mezzi o per ignoranza dei meccanismi dell’economia moderna; oppure si tratta della tendenza troppo pronunciata di godere dei frutti immediatamente. E l’esistenzialismo negrafricano si perde in un dilettantismo semplice, simpatico ma sterile» (6).
Queste considerazioni introducono al secondo modello di aiuto, che viene indicato dalla stessa fonte che guida nell’interpretazione e nello studio di ogni problema che tocca la realtà umana: il Magistero della Chiesa. Significative sono le parole pronunciate dal regnante Pontefice in occasione di un incontro avvenuto il 25 maggio 1984 con i responsabili della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel, istituto nato il 22 febbraio 1984 proprio per dare «una forma più organica, permanente ed efficace ai soccorsi della Chiesa destinati al Sahel in uno spirito di carità, di autentica promozione umana e di collaborazione di tutti gli organismi impegnati in programmi di assistenza» (7): «[…] la solidarietà internazionale può portare un apprezzabile aiuto, anche indispensabile, ma la soluzione è, in fin dei conti, nelle mani degli africani; collaborare con loro, anche sul piano tecnico, non equivale a sostituirli.
«[…] questo sarà il criterio primo quando dovrete scegliere tra numerosi progetti o attività […] [:] “Favorire la formazione di persone competenti che si mettono al servizio dei loro paesi e dei loro fratelli, senza nessuna discriminazione, in uno spirito di promozione umana integrale e solidale per lottare contro la desertificazione e le sue cause …”.
«Questo sarà il vostro contributo, il vostro aiuto per costruire insieme l’avvenire dell’Africa e per superare i conflitti che ritardano l’attuazione del compito più urgente, sotto pretesti, spesso, di ideologie che dividono» (8). Quindi, senza dimenticare che lo scopo primario della missione è l’evangelizzazione, molti uomini di Chiesa danno il loro contributo anche allo sviluppo. Fra gli esempi innumerevoli, mi piace ricordare quello di fratel Silvestro, della Sacra Famiglia di Torino: da ventotto anni nel Burkina-Faso, ha trasformato un pezzo di deserto in una fattoria modello, e ha insegnato a più di duecentocinquanta giovani locali come coltivare e rendere fertile la terra sabbiosa.
Ora questi giovani sono tornati nei loro villaggi, e stanno trasmettendo ad altri il loro mestiere, con il brillante esito che quella regione è una delle poche dove, nei mercati, si vendono sempre ortaggi e frutta malgrado la siccità.
Il modello di aiuto da privilegiare è, dunque, quello che spinge i poveri ad aiutarsi da soli, secondo la grande lezione benedettina grazie a cui nacque l’Europa nel Medioevo; e questo riferimento non è per nulla casuale, se è vero che – come ha fatto notare la storica francese Régine Pernoud (9) – l’OCDE, l’Organizzazione di Cooperazione e di Sviluppo Economico, ha richiesto la consulenza di specialisti di storia medioevale per lo svolgimento di corsi diretti ai paesi in via di sviluppo.
Alberto Mazza
Note:
(1) Cfr. AA.VV., Sahara, De Agostini, Novara 1980, p. 26.
(2) Cfr. TEOBALDO FILESI, La conflittualità nei Paesi dell’Africa a Sud del Sahara, in Africa, anno XXXIX, n. 2, giugno 1984, pp. 227-270.
(3) IDEM, «Negritudine» idea in crisi, intervista a cura di Paolo Cremonesi, in 30 giorni, anno II, n. 2, febbraio 1984, pp. 12-13.
(4) Cfr. GIORDANO SIVINI, Strategie alimentaire, interets sociaux et dependance. Le cas du Mali, in Africa, anno XL, n. 2, giugno 1985, pp. 255-286.
(5) Cfr. LUCIO BRUNELLI, Colpo di scena a Mexico City, in 30 giorni, anno II, n. 7, luglio 1984, p. 9. Cfr. pure EMMANUEL TREMBLAY, Il caso Rockefeller, in Cristianità, anno X, n. 21, gennaio 1977.
(6) JOSEPH KI-ZERBO, Storia dell’Africa nera. Un continente tra la preistoria e il futuro, trad. it., Einaudi, Torino 1977, p. 802.
(7) GIOVANNI PAOLO II, Lettera di erezione della Fondation Jean-Paul II pour le Sahel, del 22-2-1984, in L’Osservatore Romano, 7-3-1984.
(8) IDEM, Discorso al consiglio di amministrazione della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel, del 25-5-1984, ibid., 26-5-1984.
(9) Cfr. RÉGINE PERNOUD, «Il Medioevo: l’unica epoca di sottosviluppo che ci abbia lasciato delle cattedrali», intervista a cura di Massimo Introvigne, in Cristianità, anno XIII, n 117, gennaio 1985.