MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 279-280 (1998)
Atteso da molti anni, il volume di Jonathan Frankel, professore di storia ebraica presso la Hebrew University di Gerusalemme, su The Damascus Affair. “Ritual Murder”, Politics, and the Jews in 1840 è stato pubblicato nel 1998 (1). Si tratta di una ricostruzione minuziosa di un episodio cruciale per la transizione dall’antigiudaismo classico all’antisemitismo moderno, non priva di elementi di valutazione e di giudizio. Com’è noto, uno dei temi più dibattuti in materia di antisemitismo è se il razzismo antisemita di origine settecentesca, che giunge alle sue estreme e tragiche conseguenze con il nazionalsocialismo, e il moderno antisemitismo politico di matrice comunista o populista si situino in continuità con il tradizionale antigiudaismo religioso cattolico e protestante, o se rappresentino invece fenomeni profondamente diversi. Che fra i due fenomeni esista un’enorme differenza qualitativa e dottrinale è evidente. L’antigiudaismo religioso manifestava antipatia verso gli ebrei perché avevano rifiutato Gesù Cristo come messia, a prescindere da ogni considerazione di carattere razziale. Se un ebreo si convertiva al cristianesimo ogni ragione di ostilità nei suoi confronti cessava; anzi, le conversioni venivano promosse da apposite agenzie missionarie, particolarmente attive — e lo sono ancora ai giorni nostri — nell’ambito del protestantesimo conservatore e fondamentalista). L’antisemitismo moderno, per contro, fonda la sua avversione al popolo ebraico su argomenti di carattere razziale, biologico o economico-politico e considera l’eventuale conversione al cristianesimo come irrilevante. Spesso l’avversione all’ebraismo si accompagna, presso i promotori di questa forma di antisemitismo, a un’avversione verso il cristianesimo che, almeno nella sua versione oggi corrente e maggioritaria — per colpa, si dice spesso, dell’ebreo san Paolo — manifesterebbe le stesse caratteristiche “semite”. La portata di questa distinzione evidente — sostengono però alcuni storici — non deve essere esagerata. Per quanto l’antisemitismo moderno sia spesso anticristiano, il suo successo non si spiegherebbe senza la presenza secolare di un precedente antigiudaismo cattolico e protestante, da cui inoltre il moderno antisemitismo trarrebbe numerosi argomenti e temi.
La tesi “continuista” nella storia dell’antiebraismo — che fra antigiudaismo e antisemitismo insiste sui momenti di continuità e considera secondari gli elementi di discontinuità — è stata proposta, sulla scia di Norman Cohn (2), soprattutto da Gavin I. Langmuir (3), e implica evidentemente un grado assai maggiore di responsabilità, almeno culturale, delle Chiese e delle comunità cristiane negli orrori dell’antisemitismo più recente. Uno dei temi su cui verte il dibattito riguarda l’accusa mossa agli ebrei di praticare una forma di omicidio rituale, con vittime cristiane, tipica di un certo antigiudaismo religioso e ripresa occasionalmente dall’antisemitismo moderno. Secondo gli storici “continuisti” la cinquantina di indagini contro ebrei per presunti omicidi rituali che si svolgono fra il 1800 e il 1933 nell’Europa Orientale e nei territori dell’Impero Ottomano (4) rappresenta l’anello di congiunzione fra l’antigiudaismo e l’antisemitismo.
Benché personalmente abbia simpatia per le tesi di un “continuismo” moderato (5), Frankel aggiunge alla problematica corrente una serie di punti interrogativi e di sfumature importanti attraverso lo studio del più famoso caso di presunto omicidio rituale del secolo XIX, relativo al cappuccino sardo padre Tommaso da Calangianus, missionario apostolico, scomparso a Damasco il 5 febbraio 1840 insieme al suo servitore locale Ibrahim Amara. Purtroppo Frankel è parco di dettagli su padre Tommaso, che sembra una figura interessante, apostolo insieme della fede e della sanità pubblica, che si era reso noto per aver vaccinato migliaia di bambini di tutte le religioni. Il frate diventa un caso internazionale quando, nella comunità cristiana di Damasco, si sparge la voce che è stato vittima di un omicidio rituale da parte degli ebrei — forse adirati, si dice, perché Tommaso aveva affisso proprio fuori della sinagoga un avviso relativo a una vendita di beneficenza — e quando queste voci trovano credito presso le autorità. Sottoposto a tortura, un barbiere ebreo, Solomon Halek, confessa di aver partecipato all’omicidio insieme a esponenti delle più note e ricche famiglie di ebrei di Damasco: gli Harari, i Farhi e i Picciotto. A sua volta, arrestato e torturato, il rabbino Moses Abu el-Afieh confessa, annuncia una clamorosa conversione all’islam — dove prende il nome di Muhammed Effendi — e dichiara di aver raccolto in un’ampolla il sangue di padre Tommaso per consegnarlo al rabbino capo di Damasco, Jacob Antebi; quest’ultimo resisterà alle torture e rifiuterà di confessare. Il 28 febbraio vengono trovati resti umani in una tubatura; si dichiara che appartengono a padre Tommaso e si celebra un solenne funerale il 2 marzo. Di qui inizia una lunga istruttoria, che durerà parecchi mesi, con undici ebrei successivamente incarcerati — uno morirà a causa delle torture — e un interesse della stampa che a poco a poco si estende al mondo intero, con centinaia, poi con migliaia di articoli.
Frankel non riesamina la storia delle accuse di omicidio rituale nei confronti degli Ebrei, rimandando alle opere ormai classiche di Ronnie Po-Chia Hsia (6). Osserva che “nelle sue grandi linee il caso di Damasco non presenta problemi d’interpretazione. Un duplice caso di omicidio è formalmente risolto sulla base di un mito e dell’impiego spietato della tortura” (7). Tuttavia, quando — alla ricerca delle ragioni dell’enorme risonanza internazionale del caso — lo storico passa a esaminare gli schieramenti e i protagonisti “[…] le risposte diventano meno evidenti” (8). Damasco è, all’epoca, sotto il controllo — esercitato tramite il governatore Sherif Pasha — del viceré dell’Egitto Mohammed Ali, il cui potere è di fatto — anche se non di diritto — indipendente da quello del suo superiore teorico, il sultano ottomano di Costantinopoli. Prima che, alla fine del 1840, l’Impero Ottomano riprenda manu militari il controllo della Siria, questa si trova al centro di una complessa partita diplomatica dove la Francia cerca di utilizzare Mohammed Ali — un grande ammiratore della cultura francese e di Napoleone Bonaparte — per estendere la sua influenza nella regione, contrastata dall’Austria e dall’Inghilterra. Ci si potrebbe attendere — a proposito del caso di Damasco — una divisione delle influenze internazionali lungo linee prevedibili e quasi stereotipe: la Francia e l’Inghilterra — a vario titolo “democratiche” — difendono gli ebrei ingiustamente incarcerati mentre le forze “reazionarie” — la Santa Sede, l’Impero Ottomano e l’Austria — li considerano colpevoli. La situazione, osserva Frankel, è interessante proprio perché le cose non vanno affatto così. L’Impero Ottomano — nonostante il sentimento popolare ostile in diverse aree del suo vasto territorio — era tradizionalmente tollerante nei confronti degli ebrei, e le autorità ottomane avevano archiviato negli anni precedenti al 1840 una buona decina di casi di presunto omicidio rituale considerando l’innocenza degli accusati come ovvia. Se a Damasco si procede agli arresti e alle torture, conclude Frankel, è a causa dell’impegno incessante profuso a sostegno delle tesi accusatorie dal console francese, il conte Benoît de Ratti-Menton, che presiede personalmente — forte di un diritto di protezione della Francia nei confronti dei cappuccini — alle prime fasi dell’indagine. Né si tratta di una figura isolata: i documenti sempre tenuti segreti negli archivi francesi e messi a disposizione per la prima volta dello storico Tudor Parfitt nel 1980 (9) rivelano un fronte sostanzialmente omogeneo. Ratti-Menton è sostenuto dal suo superiore, il console generale francese ad Alessandria Adrien-Louis Cochelet. Ma il segreto più interessante svelato dagli archivi riguarda lo stesso capo del governo francese, il liberale Adolphe Thiers. Mentre rassicura l’influente banchiere ebreo barone James de Rotschild — che si è rivolto allo stesso re Luigi Filippo d’Orléans —, Thiers rimane personalmente convinto della colpevolezza degli imputati di Damasco e sostiene, sia pure con prudenza, Cochelet e Ratti-Menton. I diplomatici inglesi in Medio Oriente esitano. Finalmente, se gli imputati non vengono semplicemente giustiziati — tutti, tranne due, hanno anzi modo di ritrattare le confessioni, attribuendole al timore o alla tortura, compreso il rabbino convertito all’islam el-Afieh — è per l’azione decisiva dei diplomatici dell’Impero Asburgico, gli italiani Giovanni Merlato a Damasco e soprattutto Antonio Laurin ad Alessandria. Merlato, per la verità, ritiene all’inizio gli ebrei colpevoli, ma si ricrede rapidamente. Anche in questo caso non si tratta di iniziative isolate: a Vienna il capo del governo principe Clemens von Metternich sostiene con convinzione gli sforzi di Merlato e di Laurin. Quest’ultimo dà prova di un’energia straordinaria, che è stata diversamente interpretata dagli storici. Frankel sottolinea come la storiografia non debba ignorare a ogni costo gli aspetti umani e individuali, in questo caso “l’onestà e il coraggio” (10) del triestino — e profondamente cattolico — Laurin, già salutato dallo storico ebreo Abraham J. Brawer come “[…] un uomo che ha meritato una pagina d’onore nella storia ebraica, un esempio preclaro di “giusto gentile”” (11). Quanto alla Santa Sede, è vero che — nonostante i suggerimenti di Metternich — non interviene direttamente in favore degli imputati di Damasco. Tuttavia, non si muove certamente nella direzione opposta e a Roma viene imposto ai giornali cattolici un prudente e pressoché totale silenzio sull’intera questione.
Il caso di Damasco viene ricordato come un momento di presa di coscienza dell’identità ebraica in Europa soprattutto per la missione in Medio Oriente a sostegno degli imputati guidata da due importanti rappresentanti dell’ebraismo europeo, l’inglese Sir Moses Montefiore e il francese Adolphe Crémieux. La loro “missione in Oriente” raggiunge lo scopo della liberazione di tutti gli imputati il 6 settembre 1840, ma il successo non è completo perché non si ottiene una sentenza formale che li dichiari innocenti. Nella storiografia ebraica la missione — turbata dalla rivalità fra Crémieux e Montefiore — ha assunto talora proporzioni mitiche, che aiutano a dimenticare la paradossale posizione assunta in Germania da una minoranza di rivoluzionari di origine ebraica — ma ormai passati all’ateismo — pronti a usare anche i fatti di Damasco per sostenere che gli ebrei devono liberarsi della loro religione, che rischia di spingerli ai più tragici misfatti. Alcuni di questi rivoluzionari sostenevano del resto che anche i cristiani avevano mantenuto la tradizione del sacrificio umano, e Frankel riesuma un discorso particolarmente violento del 1847 dove si sosteneva senza vergogna che anche i cristiani “[…] macellavano esseri umani e consumavano vera carne e sangue umano nell’eucarestia” (12). L’oratore sarebbe presto diventato famoso: si trattava di Karl Marx.
Il mondo che ruota intorno al caso di Damasco — un giallo senza soluzione, anche se Frankel, come probabili assassini di padre Tommaso e del suo servitore, punta il dito su commercianti musulmani con cui aveva avuto un diverbio — sembra così talora un mondo alla rovescia, dove i “reazionari” aiutano gli ebrei e i “progressisti” — dal liberale Thiers a Marx — credono alle accuse di omicidio rituale o le utilizzano per i propri fini. Frankel non difende certo, nel suo volume, la Chiesa cattolica in quanto tale: lamenta, per esempio, l’assenza di reazioni romane — nonostante, anche in questo caso, l’opinione di Metternich — contro un documento colpevolista del patriarca greco-cattolico di Damasco, Maximos, e il fatto che una lapide che definisce padre Tommaso “assassinato dagl’Ebrei” non sarebbe stata ancor oggi rimossa. Cause celèbre per eccellenza nella storia dell’antiebraismo — Adolf Hitler voleva trarne un film, e ancora nel 1992 il delegato siriano a una conferenza dell’ONU sui diritti umani la citava come esempio evidente di perfidia ebraica —, la vicenda di Damasco mostra però, nell’analisi di Frankel, come parlare semplicemente de “i cattolici” quando si esaminano i colpevoli e le responsabilità nella transizione dall’antigiudaismo all’antisemitismo rischi di essere semplicistico e fuorviante. Di fronte a un momento di crisi come quello di Damasco la religione s’intreccia con la politica internazionale, e il mondo cattolico non appare come un monolito, ma piuttosto come un campo complesso in cui si confrontano posizioni diverse.
Massimo Introvigne
* Articolo anticipato, senza note e con il titolo redazionale 1840, omicidio a Damasco, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, anno XXXI, n. 146, 23-6-1998, p. 22.
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(1) Cfr. Johnatan Frankel, The Damascus Affair. “Ritual Murder”, Politics, and the Jews in 1840, Cambridge University Press, Cambridge-New York-Melbourne 1997.
(2) Cfr. Norman Cohn, Europe’s Inner Demons. An Enquiry Inspired by the Great Witch-Hunt, Basic Books, New York 1975.
(3) Cfr. Gavin I. Langmuir, History, Religion, and Antisemitism, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Londra 1990; e Idem, Toward a Definition of Antisemitism, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Londra 1990.
(4) Così J. Frankel, op. cit., p. 442.
(5) Cfr. ibid., p. 443. Le informazioni che seguono nel testo sulla vicenda di Damasco sono tratte dalla stessa opera di J. Frankel.
(6) Cfr. Ronnie Hsia Po-Chia, The Myth of Ritual Murder. Jews and Magic in Reformation Germany, Yale University Press, New Haven (Connecticut) 1988; e Idem, Trent 1475. Stories of a Ritual Murder, Yale University Press, New Haven (Connecticut) 1992.
(7) J. Frankel, op. cit., p. 50.
(8) Ibid., p. 50.
(9) Cfr. Tudor Parfitt, “The Year of the Pride of Israel”. Montefiore and the Damascus Blood Libel of 1840, in Sonia Lipman e Vivian D. Lipman (a cura di), The Century of Moses Montefiore, Oxford University Press, Oxford-New York 1985, pp. 131-148.
(10) J. Frankel, op. cit., p. 105.
(11) Abraham Jacob Brawer, Homer hadash lidi’at ’alilat Damesek, in Sefer hayovel leprofesor Shmuel Kraus, s.e., Gerusalemme 1937, pp. 260-302 (p. 277), cit. in J. Frankel, op. cit., p. 105.
(12) Il discorso, inedito, fu pubblicato come introduzione di Karl Marx alla seconda edizione dell’opera di Georg Friedrich Daumler, Geheimnisse des christlichen Altertums [Misteri dell’antichità cristiana], Wissenschaftliche Bibliothek des proletarischen Freidenkertums, Dresda 1923, p. V; cit. in J. Frankel, op. cit., p. 413.