GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 205-206 (1992)
Considerazioni a margine di avvenimenti cui non si presta adeguata attenzione, ma che sono forse più importanti di quanto comunemente si sospetti.
Se denunciare genericamente gli effetti devastanti del surmenage informativo cui è sottoposto l’uomo nel “villaggio globale” può parere retro, questa accusa ha ancora fondamento quando la denuncia riguardi l’effetto specifico del surmenage informativo esercitato sull’uomo come essere politico?
La politicità dell’uomo è fuori discussione, ma la sua affermazione non si accompagna consuetamente alla verifica del suo esercizio, resa in apparenza inutile dalla considerazione secondo cui non solo l’uomo è un essere politico, quindi insieme necessitato e abilitato all’esercizio di questo suo carattere, ma tale esercizio trova automatica realizzazione in regime democratico.
A sostegno della presunta ovvietà di questo asserto milita l’informazione politica nonché, evidentemente, la pratica politica: ciascuno può dire “seguo la vita politica e voto”, quindi “faccio politica”, cioè “mi realizzo politicamente”. Questa condizione sembra tanto più vera quanto più la vita politica, e la conseguente partecipazione a essa da parte del cittadino, subisce accelerazioni, com’è stato ed è il caso — per esempio — in Italia ormai almeno dalla seconda metà del 1991: le tornate elettorali, nazionali o locali, si susseguono alle tornate elettorali, le esternazioni alle esternazioni e le elezioni alle elezioni, con evidente “saturazione” della necessità e dell’abilitazione politica del cittadino.
Ma, mentre il cittadino “segue e vota”, soprattutto “guarda” lo svolgimento della vita politica, pare lecito chiedersi se votare e — soprattutto — “guardare la politica” si possano considerare esercizio reale della politicità, così come, più in profondità, se “sapere” sia veramente “potere”, quindi se “essere informati” equivalga a “sapere”. Il sospetto circa il carattere fittizio di tutto questo non è soltanto teorico, ma viene alimentato da avvenimenti di grande rilievo, cui però non si presta l’attenzione dovuta, in quanto fatti diversi da quelli più universalmente noti o, almeno, certamente meno notati, anche se è difficile — dopo averli conosciuti — sottovalutarne l’importanza almeno potenziale.
1. Dal 25 al 27 aprile 1992, all’Hotel Ritz di Lisbona, in Portogallo, si è riunita la Commissione Trilaterale, e le informazioni relative ai suoi lavori presentano straordinarie ragioni di interesse sia formali che di contenuto: infatti, i problemi discussi nel corso di questa riunione sono relativi al pericolo costituito dalla Russia postcomunista; alla necessità di abbattere lo Stato-Nazione attraverso la costruzione di realtà non inter-nazionali, ma sovra-nazionali, che esproprino elementi significativi della sovranità statuale come quella monetaria; all’immigrazione e al ridimensionamento del potere del “settore economico primario” (1). All’esame dei molteplici profili meritevoli d’attenzione credo si debba premettere quello della problematica che lo può in qualche modo fondare, cioè relativa alla Commissione Trilaterale stessa.
a. “La discrezione che tradizionalmente circonda i lavori della Trilaterale ha spesso eccitato l’immaginazione degli esclusi. Intorno a questa Commissione, fondata nel 1973 per iniziativa di David Rockefeller, si è creato un mito, che ha suscitato ostilità a destra e a sinistra, negli Stati Uniti e in Europa. Per la sua composizione — ne fanno parte dirigenti politici, imprenditori, diplomatici e studiosi dei tre grandi blocchi industrializzati — la Trilaterale è stata dipinta talvolta come una sorta di “supervertice” clandestino dell’economia mondiale, capace di imporre ai Governi le sue direttive occulte.
“Negli Stati Uniti, questo mito è stato alimentato da un dato incontestabile: della Trilaterale hanno fatto parte due degli ultimi tre presidenti (Jimmy Carter e George Bush), autorevoli artefici della politica estera come Henry Kissinger, George Schultz, Cyrus Vance e Zbigniew Brzezinski, un ex governatore della Federal Reserve come Paul Volcker. Tutti personaggi accusati di rappresentare a torto o a ragione, l’establishment più favorevole a un forte impegno degli Usa negli affari mondiali. (Peraltro, anche l’attuale candidato democratico alla Casa Bianca, Bill Clinton, è membro della Trilaterale).
“Sta di fatto che […] gli attacchi alla Trilaterale negli Usa sono spesso venuti “da destra “[…]. Al contrario, in Europa è prevalsa, soprattutto negli anni 70, una ostilità da sinistra verso quella che sembrava una superlobby del capitalismo mondiale e degli interessi delle multinazionali (della Commissione fanno parte imprenditori come il vicepresidente della Fiat, Umberto Agnelli; il presidente della Sony, Akio Morita; i chief executive della At&T, Itt, Xerox, Mobil, Exxon e molti altri)”.
b. Dopo questa presentazione di fatto — certamente incompleta, ma sufficiente —, viene osservato quasi liberatoriamente che “la realtà della Trilaterale, tuttavia, è molto meno misteriosa, e perfino banale. L’unico potere che è in grado di esercitare è una generica influenza culturale. Per statuto, infatti, non possono farne parte coloro che hanno cariche nei Governi dei rispettivi Paesi. E per la varietà dei suoi membri è raro che la Trilaterale arrivi a definire una dottrina: in generale si limita a essere un luogo di confronto e di discussione.
“L’unico valore, se così si può dire, che accomuna i partecipanti, è… il trilateralismo. […] I suoi fondatori partirono, negli anni 70, da due constatazioni che oggi sono diventate dei luoghi comuni: da un lato, l’erosione della leadership americana e la necessità di una migliore suddivisione di responsabilità con l’Europa e il Giappone; dall’altro, l’emergere (nell’agenda dei Governi) di nuove interdipendenze economiche e sociali, a fianco dei più tradizionali problemi diplomatici e militari”.
c. Dopo aver “banalizzato” la Commissione Trilaterale, si pensa di dare il colpo di grazia al suo mito affermando: “E, per sfatare il mito fino in fondo, la Trilaterale ha cominciato ad ammettere anche qualche giornalista ai suoi lavori, rinunciando così all’ultima parvenza di riserbo”.
2. Dunque, dal 1973 esiste un organismo di concertazione fra “potenti reali”, ex “potenti ufficiali” e “potenti potenziali”, sodalizio che, per quanto “limitato” a “esercitare una generica influenza culturale”, ha però ritenuto di raccogliersi con “tradizionale discrezione” e che oggi rinuncia alla “parvenza di riserbo” ammettendo anche qualche giornalista alle proprie riunioni.
A togliere a quanto accaduto a Lisbona carattere di eccezionalità e a meglio intenderne la portata aiuta la descrizione di una sessione dell’American Assembly, dedicata al tema Dopo la rivoluzione sovietica: implicazioni per la politica Usa (2). Al testo del rapporto finale, “[…] che finirà sulle 15.000 scrivanie più importanti d’America” contribuiscono, e sul testo votano, “se non c’è consenso pieno”, “50 invitati […] rinchiusi per tre giorni e due notti in una specie di convento a meno di 100 chilometri da New York. Nella magnifica villa isolata nei Catskills regalata nel 1950 alla Columbia University come casa dell’”assemblea americana”, da Averell Harriman, l’ambasciatore di Roosevelt presso Stalin, il principale consigliere di politica estera di Kennedy. A tirare le fila della discussione sono i sovietologi Robert Legvold e Timothy Colton. Ci doveva essere anche lo storico Arthur Schlesinger, ma l’hanno ricoverato d’urgenza per un tumore. Aveva promesso di sostituirlo Richard Nixon, ma non ce l’ha fatta ad arrivare in tempo. Da Mosca sono venuti Andrei Graciov, l’ex portavoce di Gorbaciov e altri studiosi. C’è uno del dipartimento di Stato, c’è un colonnello che forse rappresenta il Pentagono, il capogruppo problemi della sicurezza della Cia. Diversi esponenti del mondo degli affari. Dall’Europa sono venuti un consigliere di Gonzales, Georges De Menil, consigliere di Mitterrand. Sir Michael Howar, che presiede il prestigiosissimo Istituto Internazionale per gli Studi Strategici, il professor Eberhardt Schultz, una delle “menti” della riunificazione tedesca. C’è l’ambasciatore italiano all’Onu Vieri Traxler e, nel ruolo di co-ospite, la professoressa Maristella Lorch, direttrice dell’Italian Accademy, l’attivissima “enclave” italiana alla Columbia”. “[…] come relatore del “panel” sulle “prospettive europee”” è intervenuto l’on. Giorgio Napolitano, “ministro degli Esteri ombra del PDS”, il quale esordisce con un’affermazione che da allora ha guadagnato in interesse: “Sarei venuto anche da presidente della Camera”. Il fatto è descritto nell’occhiello della corrispondenza in questi termini: “Cinquanta studiosi si schierano con Baker. Presente anche Napolitano”: quindi nel sommario si dice: “Giorgio Napolitano ambasciatore dell’Europa ad uno dei forum dove si forgiano le linee di fondo della politica americana. Dove, reclusi come in un convento nella villa che era stata di Averell Harriman, 50 esperti di altissimo livello hanno discusso e votato, in ore di aspra battaglia e di emendamenti e contro-emendamenti, un documento sull’ex Urss, dando ragione a Baker anziché al Pentagono”, cioè sposando “[…] sostanzialmente l’approccio del segretario di Stato Baker sull’”impegno collettivo”, l’idea di costruire una “pace democratica” anziché una “Pax Americana””. Ultima, ma non insignificante, la notazione secondo cui “tra le regole del gioco c’è un ferreo divieto ai giornalisti che assistono di attribuire con nome e cognome citazioni agli intervenuti. Ma ci è consentito — precisa il corrispondente — riassumere i contenuti del dibattito”.
3. Mentre la comune degli uomini “vota e guarda”, altri si concertano, più o meno discretamente, circa il futuro del mondo. Certo, i termini più correnti sono anche quelli più esposti a usura e meno sottoposti a verifica, in quanto tutti siamo impegnati piuttosto a servircene che a verificarli. Però, di fronte a questi fatti, viene da chiedersi che senso abbia “democrazia” e se non sia indispensabile, come corollario della “nuova evangelizzazione”, una nuova educazione politica.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. Federico Rampini, Gli scenari della Trilaterale/1. L’orso perde il pelo ma non le voglie, e Se il Gatt lasciasse perdere i campi, in Il Sole-24 Ore, 28-4-1992; Idem, Gli scenari della Trilaterale/2. L’assedio allo Stato-Nazione, e La Trilaterale ridimensiona il suo mito, ibid., 29-4-1992; e Idem, Gli scenari della Trilaterale/3. Il fiume in piena dell’immigrazione, ibid., 30-4-1992. Tutti i riferimenti seguenti, fino a diversa indicazione, sono tratti da La Trilaterale ridimensiona il suo mito. Per un inquadramento, cfr. il mio Dissensi nella Trilaterale e riflessi sulla politica italiana, in Cristianità, anno XIV, n. 138, ottobre 1986.
(2) Cfr. Siegmund Ginzberg, Gli esperti bocciano il Pentagono. “Sbagliata l’idea di una pax americana”, in l’Unità, 29-4-1992. Tutti i riferimenti seguenti sono tratti da questa corrispondenza.