Una ricostruzione dell’eterno conflitto per il possesso del Nagorno Karabakh. Le cause e i protagonisti di un conflitto che è solo un “pezzo” di una guerra mondiale in corso.
di don Stefano Caprio
L’esplosione del coronavirus sembrava aver finalmente costretto ad avviare un processo di pace tra i due eterni contendenti del Caucaso. La sera del 21 aprile 2020, i ministri degli esteri di Azerbaigian e Armenia, Elmar Mamedjarov e ZohrabMnatsakanyan avevano tenuto una “video-trattativa” per la soluzione dell’annoso conflitto nel Nagorno-Karabakh. Alle trattative hanno preso parte i co-presidenti del “Gruppo di Minsk” dell’OSCE, il russo Igor Popov, l’americano Andrew Schofer, il francese Stéphane Visconti, insieme a un rappresentante dell’attuale presidente dell’OSCE, Andrzej Kasprzyk.
La guerra del Nagorno Karabakh è un conflitto risalente agli anni 1992-1994 e mai completamente sopito; la tregua decisa nel 1994 è stata violata ripetutamente negli anni. Nella piccola regione del sud-ovest dell’Azerbaigian, la maggioranza etnica armena cercò di proclamare una repubblica indipendente sulla base delle precedenti leggi sovietiche, suscitando la reazione di Baku, capitale dell’Azerbaigian, e una successione di reciproche pulizie etniche. L’Azerbaigian minacciava di riaprire le ostilità per sottomettere la regione, se non avesse avuto successo la mediazione del Gruppo di Minsk, una struttura dell’OSCE creata dopo la fine dell’Unione Sovietica per la soluzione dei conflitti tra le sue ex-repubbliche.
Un giorno prima dei colloqui, Mamedjarov e Mnatsakanyan hanno condotto trattative separate con i co-presidenti del Gruppo, discutendo con loro sia il problema particolare del Nagorno Karabakh, sia le questioni dello sviluppo dell’intera regione, e soprattutto della situazione legata alla pandemia del coronavirus. Gli stessi temi sono poi stati trattati dagli stessi ministri, arrivando a definire una forma molto duttile e pratica per condurre le trattative, attraverso le video-conferenze dovute al regime di isolamento. Questo risolveva tutte le delicate questioni di trasferte e incontri in territori neutri, che richiedono lunghi tempi di accordo e notevoli spese. L’incontro virtuale si era rivelato assai più efficace di quelli dal vivo, anche nei contenuti. Secondo il comunicato ufficiale, i ministri hanno approvato una dichiarazione comune, nella quale si affermava la reciproca disponibilità a mantenere stretti contatti e, appena possibile, condurre trattative dal vivo. Nel documento si dichiarava che le parti hanno valutato l’influsso della crisi globale in campo sanitario sulle condizioni della regione, tenendo conto degli eventi di questi giorni. Sono state proposte alcune tappe successive nel processo di soluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh, in corrispondenza alle dichiarazioni pubblicate lo scorso 30 gennaio a Ginevra.
I ministri hanno riconosciuto che a causa dell’epidemia di Covid-19 era impossibile realizzare i piani umanitari comuni richiesti precedentemente ed era necessario rimandarli. È stata sottolineata l’importanza della rigida osservanza del cessate il fuoco e dell’astensione da qualunque azione provocatoria nelle attuali condizioni. Le parti sono state richiamate ad assumere misure per un progressivo allentamento delle tensioni, tenendo conto dei problemi a cui è attualmente sottoposta la popolazione. È stato deciso di togliere i blocchi militari al confine, «tenendo conto del valore di ogni vita umana». Mamedjarov e Mnatsakanyan, insieme ai rappresentanti dell’OSCE, hanno espresso la speranza che, rispondendo al problema globale della pandemia, si potrà dare un impulso creativo e costruttivo al processo di pace.
Con il passaggio alla “fase 2” della pandemia, tutti i buoni propositi sono improvvisamente svaniti. Dopo i tentativi di pacificazione nei mesi precedenti, nel luglio 2020 è riesploso l’eterno conflitto tra i due paesi. Il 12 luglio le due parti si sono reciprocamente accusate di aver aperto il fuoco con l’artiglieria nella provincia di Tovuz, sul confine tra i due paesi. Da allora la tensione nella zona non è più diminuita e ci sono stati i primi morti: la mattina del 14 luglio il Ministero della difesa dell’Azerbaigian ha comunicato la morte di un generale maggiore e di un colonnello in seguito ad una sparatoria da parte armena, e le agenzie hanno parlato di altre cinque vittime, compresi due ufficiali. Anche le forze armate armene hanno ammesso la perdita di due soldati frontalieri, il maggiore Garush Ambartsumyan e il capitano Sosa Elbakyan.
La causa della nuova escalation del conflitto tra azeri e armeni non è del tutto comprensibile, al di là della storica inimicizia fra i due popoli. Infatti, non risultano particolari eventi provocatori che abbiano fatto esplodere la miccia dello scontro armato, né lo scontro di frontiera risulta direttamente collegato all’annoso scontro per la regione del Nagorno-Karabakh. Sembra piuttosto che gli scontri siano stati generati da questioni personali, per la violazione di una qualche linea di frontiera, più che da cause militari o geo-politiche, come adombrato da alcuni osservatori che ritengono di vedere in questi scontri un riflesso del conflitto tra Russia e Turchia. Tali ipotesi sono generate dall’annosa tendenza dell’Armenia al coinvolgimento della Russia nella contrapposizione all’Azerbaigian, che a sua volta tenta in vari modi di coinvolgere la Turchia in una guerra tra cristiani e musulmani. In realtà, la Russia non ha reagito neppure alla provocatoria decisione di Erdogan di trasformare di nuovo la basilica di Aghia Sofia in una moschea, dichiarandosi soddisfatta della libertà di accesso concessa ai cristiani. I russi intendono anche rivendicare la proprietà di alcune chiese ortodosse in Turchia, che in vari modi risalgono all’iniziativa degli ortodossi russi, e questo asseconda anche il desiderio di Erdogan di limitare l’influenza del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo (Dimitrios Archontonis), che con la Chiesa russa ha interrotto i rapporti a causa del riconoscimento della Chiesa ucraina autocefala.
Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian, in ogni caso, non sembra possa risolversi in breve tempo, nonostante l’apparente superiorità delle forze azerbaigiane, la cui popolazione supera di varie volte quella dello Stato armeno. Gli azeri sono particolarmente frustrati dal numero delle vittime: dopo i primi scontri, il ministro della difesa Ragim Gaziev ne aveva dichiarate 12, e per questo è stato arrestato con l’accusa di tradimento degli interessi del paese, quando in effetti le vittime erano poco meno della cifra dichiarata.
La Russia non rimane comunque indifferente al conflitto in una regione ex-sovietica così strategica, ai confini tra Europa e Asia; il portavoce di Putin, Dmitrij Peskov, ha dichiarato fin da luglio che la Russia è pronta a organizzare una mediazione tra i due contendenti. È evidente il timore che gli scontri possano portare a un’escalation difficile da controllare, secondo la legge dell’“occhio per occhio”. Nel centro della capitale azera Baku, il 14 luglio, si sono tenute manifestazioni di massa in difesa delle forze armate, al grido di «Il Karabakh è nostro!» e «Soldati, avanti!». La folla ha perfino cercato di invadere il palazzo del Parlamento, e la polizia ha effettuato decine di arresti. Azioni simili si sono svolte in diverse città dell’Azerbaigian.
Secondo le dichiarazioni dell’ambasciatore dell’Azerbaigian a Mosca, Aleksandr Aleshkin, gli armeni intendono porre ostacoli alla politica estera del suo Paese, che cerca di superare l’isolamento internazionale, cercando di coinvolgere l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva tra i paesi ex-sovietici (ODKB), di cui l’Azerbaigian non fa parte a differenza dell’Armenia. A loro volta gli armeni, secondo le parole dell’ex-ministro della difesa Seyran Oganyan, accusano gli azeri di voler forzare le trattative di pace per ottenere dei vantaggi a livello internazionale. La guerra non si svolge solo sul campo, ma anche a livello informativo.
All’inizio di ottobre 2020, i co-presidenti del gruppo di Minsk dell’OSCE (Putin, Trump e Macron) hanno diffuso una dichiarazione comune, in cui si appellano ai contendenti per un immediato cessate il fuoco; nella storia recente, è il primo appello comune di questo tipo tra i capi delle nazioni dominanti. Tuttavia, le parti non sembrano disponibili ad ascoltare tale invito. Tanto più che, contemporaneamente alla dichiarazione dell’OSCE, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha criticato l’appello di pace, dichiarandolo inaccettabile. Pare che effettivamente dalla Turchia vengano convogliati nel conflitto del Nagorno Karabakh vari gruppi di combattenti siriani, sotto il controllo turco, il che ha suscitato la reazione preoccupata di Mosca. Il conflitto tra Russia e Turchia, del resto, è un confronto risalente al XV secolo, quando gli ottomani di Maometto II conquistarono Costantinopoli, la “seconda Roma”, facendo sognare ai russi la missione della “terza Roma” per la salvezza del mondo cristiano. A vari livelli e in varie forme, la Russia ha tentato in ogni modo di appropriarsi dei territori ottomani, o almeno delle zone turche, turcomanne e turaniche dell’Asia centrale e del Medioriente, per realizzare l’auspicio formulato alla fine del Medioevo. La stessa Armenia è uno Stato creato sotto la protezione dell’Impero russo e, poi, della stessa Unione Sovietica nella parte caucasica del suo territorio storico, in cui gli armeni perseguitati in Anatolia sono fuggiti dopo il genocidio del 1915-1916. L’attuale presidente armeno, Nikol Pašinyan, ha cercato di forzare ulteriormente la mano alla Russia, dichiarando le basi militari russe in Armenia «una parte ineliminabile del sistema di difesa del nostro Paese». In generale, tra Putin ed Erdogan è in atto da anni un braccio di ferro per il controllo del Caucaso e del Medio Oriente, che a volte prevede accordi tra i due, e, più spesso, motivi di conflitto.
Non si vedono facili soluzioni per una guerra che va avanti da secoli, che era stata sopita dalla politica repressiva delle nazionalità nel periodo sovietico ed è riesplosa come se non fosse passato quasi un secolo. Del resto, il presidente russo Vladimir Putin ha più volte affermato che questo fu l’errore storico di Lenin, che voleva creare uno stato federale, invece di formare una nazione unica a prevalenza russa, come ha cercato poi di fare Stalin, a cui l’attuale presidente russo sembra ispirarsi molto più direttamente, così come Erdogan, nella sua politica “neo-ottomana”, intende resuscitare lo spirito imperiale della Sublime Porta del Sultano.
Venerdì, 9 ottobre 2020