Mauro Ronco, Cristianità n. 328 (2005)
1. La norma ingiusta o della corruzione del diritto
La concezione positivistica del diritto ha contrassegnato in modo indelebile l’epoca della modernità. Per tale concezione il diritto s’identifica con la legge che lo Stato stabilisce attraverso forme determinate e la cui effettività lo Stato garantisce attraverso la minaccia della coazione e l’uso della forza. La concezione positivistica si accompagna indissolubilmente all’idea della sovranità dello Stato, intesa, alla maniera del giurista francese Jean Bodin (1530-1596), come potere supremo che non riconosce alcun limite a sé, né verso l’alto, nella norma morale, né verso il basso, nei diritti fondamentali dei singoli e nei diritti storici e consuetudinari dei corpi intermedi della società civile, siano essi di tipo territoriale, professionale o morale (1). E per «sovranità» — concetto che Bodin rimarca non essere mai stato definito prima di lui — va inteso «[…] quel potere assoluto e perpetuo ch’è proprio dello Stato» (2). Il cuore della definizione sta nel concetto di «assolutezza», con cui s’intende che la «[…] sovranità non è limitata né quanto a potere né quanto a compiti né quanto a termini di tempo» (3). E sebbene Bodin ammetta per convenienza che il principe sarebbe obbligato a rispettare le leggi di Dio e della natura (4), tuttavia non sarebbe lecito al suddito contravvenire alle leggi del sovrano adducendone l’ingiustizia o la disonestà (5).
In base a questa concezione la sovranità dello Stato può definirsi «assoluta», «unica» e «centralizzata». «Assoluta», poiché non riconosce autorità morali che la limitino; «unica», perché schiaccia le altre società naturali intermedie; «centralizzata», perché tende a cancellare la necessità del consenso dei vari corpi sociali nella produzione del diritto. Parimenti, la legge dello Stato, come fonte del diritto, cui tutte le altre sono subordinate, è «assoluta», perché non è limitata dalla legge morale, né dalle altre fonti. Questa concezione, che salda insieme il concetto di legge con quello di sovranità dello Stato, pur nelle diverse versioni concettuali e sfaccettature argomentative, pretende di fondare l’intero universo della giuridicità, di cui la legge sarebbe l’unica espressione legittima, sulla convenzione utilitaristica che metterebbe fine all’ipotetico stato di natura (6).
Contro tale concezione della sovranità e della legge, che contrassegnerebbe lo Stato e il diritto, non sono mai tramontati i princìpi, proposti originariamente dalla filosofia greca, soprattutto da Aristotele (384-322 a. C.), nonché dal diritto romano e dalla filosofia cristiana, soprattutto da san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), secondo cui non la sovranità, bensì la idoneità a realizzare il bene comune temporale è la nota caratteristica dello Stato. Per Aristotele la pólis è la comunità complessa autarchica o perfetta (7). La complessità implica che la pólis è una comunità di comunità. Il concetto di autarchia o perfezione, che caratterizza la comunità politica, non va confuso con quello di sovranità in senso moderno. Mentre quest’ultima è «assoluta», l’autarchia è una superiorità relativa, intrinsecamente limitata dal fine — la vita virtuosa dei cittadini — per cui è costituita; è altresì relativa in funzione delle altre potestà di giurisdizione; è infine relativa in funzione della comunità dei cittadini, i quali, siccome liberi, sono nel loro insieme causa efficiente della costituzione, secondo le modalità storiche concrete che si manifestano con il costume e la tradizione giuridica (8). Secondo tali princìpi, inoltre, la legge dello Stato, subordinata alla legge morale, non è l’unica fonte del diritto, poiché sussiste in ogni società, come espressione del pluralismo sociale, una pluralità di fonti del diritto, intese come modi di positivizzazione della vigenza dello ius (9).
Infatti, il diritto affonda le sue radici nella res iusta, nella stessa cosa giusta, che costituisce l’oggetto terminativo della condotta sociale dell’uomo. Perciò, contro l’idea riduttivistica del diritto come legge, gli studiosi cristiani hanno sempre affermato, anche nelle epoche più buie del positivismo giuridico, una nozione ampia e complessa di diritto. Il diritto è costituito, per un verso, dalla medesima condotta giusta; per un altro verso, dalla regola positivizzata mercé la legge o le altre fonti giuridiche, che assumono come modello per tutti obbligatorio la condotta giusta nella situazione tipica. Per un altro verso ancora, l’ordinamento giuridico è costituito dal complesso dei diritti soggettivi di ciascuno e di tutti a vedersi riconoscere il titolo a ottenere la giusta prestazione da parte degli altri componenti la comunità politica (10).
Come si comprende bene, alla base di questa concezione più vera del diritto, sta la nozione di res iusta, che si determina nel caso concreto con riferimento al vero della legge morale e al bene che costituisce il fine dell’uomo. Non è vera legge, ma sua corruzione, quella statuizione dello Stato che contraddica la verità della legge morale e che prescinda dal bene dell’uomo.
In questo senso è l’insegnamento di sant’Agostino (354-430) e di san Tommaso d’Aquino e di tutta la tradizione della Chiesa. Sant’Agostino, nel De libero arbitrio, dichiara: «Non videtur esse lex, quae iusta non fuerit» (11). San Tommaso, nella Summa theologiae, ribadisce il principio per cui «la legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza» (12). E ancora: «Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge bensì corruzione della legge» (13).
Questo insegnamento è stato riaffermato solennemente da Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) nell’enciclica Evangelium vitae: «In continuità con tutta la tradizione della Chiesa è anche la dottrina sulla necessaria conformità della legge civile con la legge morale» (14). A prova della continuità e invariabilità dell’insegnamento della Chiesa, il medesimo documento cita espressamente, oltre sant’Agostino e san Tommaso, il brano di Papa beato Giovanni XXIII (1958-1963), contenuto nell’enciclica Pacem in terris, ove è detto: «L’autorità […] è postulata dall’ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell’ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza […]; in tal caso, anzi, chiaramente l’autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso» (15).
Sempre nell’enciclica Evangelium vitae Papa Giovanni Paolo II fa immediatamente applicazione di questo principio fondamentale con riferimento al diritto alla vita, proclamando: «Ora la prima e più immediata applicazione di questa dottrina riguarda la legge umana che misconosce il diritto fondamentale e fontale alla vita, diritto proprio di ogni uomo. Così le leggi che, con l’aborto e l’eutanasia, legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti sono in totale e insanabile contraddizione con il diritto inviolabile alla vita di tutti gli uomini e negano, pertanto, l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge» (16).
2. L’uso dello strumento giuridico per la diffusione dell’assoluto relativismo etico
Gli sviluppi, sul piano teorico e pratico, della società post-moderna in cui siamo chiamati a vivere, e del diritto post-moderno, che i giudici applicano quotidianamente, propongono inquietanti problemi. Per un verso, sul piano teoretico, nessuno studioso più presta credito alle tesi della sovranità assoluta dello Stato e della legge come unica fonte del diritto. La diluizione della sovranità statale e la frantumazione dell’unicità delle fonti del diritto, ormai sotto gli occhi di tutti, non sono più negati da alcuno, salva la differenza in ordine alle proposte per la riformulazione delle coordinate teoriche e pratiche dell’ordinamento giuridico (17). Senonché, invece di riguadagnare il principio che afferma il legame di dipendenza del diritto rispetto alla morale, si assiste, soprattutto nei campi afferenti i problemi fondamentali della vita e della morte, a uno sviluppo ancora più esposto del vecchio positivismo giuridico al rischio di una deriva totalitaria.
Il positivismo giuridico che caratterizzò la modernità si limitava, per così dire, a espungere il fondamento della morale dalla legge positiva, ma non mirava direttamente a creare una nuova legge morale, poiché non aggrediva tematicamente e direttamente i modelli di comportamento praticati comunemente nella comunità sociale, che erano ancora ispirati, almeno in una qualche misura, ai princìpi morali tradizionali. La legge morale — secondo l’orientamento prevalente all’interno del pensiero liberale classico e delle democrazie laicistiche — dovrebbe restare esterna all’ordinamento giuridico, poiché essa potrebbe valere per il singolo, allo scopo d’indirizzare il suo orientamento interiore, ma non per la società, per la regolazione della cui vita sarebbe determinante soltanto la legge positiva. La legge giuridica non avrebbe alcunché a spartire con la morale e regolerebbe i rapporti esclusivamente esteriori delle persone fisiche che vivono in società. Secondo il postulato, in verità del tutto falso, della neutralità morale della legge positiva, le due sfere della morale e del diritto non dovrebbero toccarsi, avendo ciascuno di essi campi di applicazione diversi.
A partire dalla rivoluzione nel costume che si è affermata nelle società occidentali con gli eventi del 1968 (18) e, in seguito, con sempre maggiore intensità, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, si è assistito a un cambiamento radicale di prospettiva da parte dei centri di potere, culturale e politico, che guidano la disintegrazione e la demoralizzazione del corpo sociale dell’Occidente già cristiano. Il nuovo credo, proposto come programma politico e giuridico, s’ispira a una forma aggressiva di relativismo etico (19), che tende a influenzare l’ordinamento giuridico e a trasformare positivamente, attraverso l’arma potente del diritto, la mentalità e il costume e, alla fine, i comportamenti pratici. Secondo questa impostazione il diritto non è più concepito come neutrale rispetto alla morale. Tutto al contrario, il diritto dovrebbe farsi promotore della diffusione di un nuovo paradigma morale, espressivo di una visione di completo relativismo etico. La legge, non più vista soltanto nella sua dimensione coattiva, ma soprattutto in chiave persuasiva, dovrebbe diventare strumento per la capillare diffusione di tale nuovo paradigma.
3. I caratteri fondamentali del nuovo paradigma morale
Gli attori che propagandano il nuovo paradigma, come ha rilevato il card. Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, in occasione della nona assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita, sono principalmente gli organismi internazionali facenti capo all’ONU-UNESCO e a varie ONG, organizzazioni non governative quali Women’s Environment and Development Organization, The Earth Council Green Peace e The International Planned Parenthood Federation. Sul piano più strettamente politico un ruolo notevole per la diffusione del nuovo paradigma morale svolgono gli organismi europei, soprattutto il Consiglio d’Europa, che si fanno carico della traduzione in norme giuridiche del nuovo paradigma morale (20).
Il card. Lozano Barragán ha offerto importanti indicazioni sui caratteri del nuovo paradigma etico proposto come programma politico e giuridico dalle organizzazioni internazionali e dalle fondazioni non governative che esercitano una influenza culturale sullo sviluppo dei trattati e delle convenzioni internazionali, nonché delle legislazioni interne dei singoli Stati.
Il paradigma, secondo la descrizione che ne ha fatto l’autorevole relatore, si compone di una serie di punti, che suggeriscono un nuovo modello di sviluppo in cui rivestono importanza fondamentale i temi relativi alla «qualità della vita» (21) e ai «valori» (22), interpretati in un’ottica esclusivamente individualistica, soggettivistica ed edonistica, senza alcun riferimento alla legge morale oggettiva e ai diritti e ai doveri che da essa necessariamente discendono per i singoli e la società. Il nuovo paradigma ha per scopo l’elaborazione di un’etica globale che favorisca il benessere dei singoli e lo sviluppo dell’umanità. Poiché le religioni del mondo non sarebbero idonee a generare questa etica globale, occorre integrarle con una spiritualità di tipo terreno, «[…] il cui obiettivo ultimo è di rendere vivibile il mondo attuale e, in esso, favorire la prosperità ed il benessere dell’uomo» (23).
Per quanto riguarda i «valori», la tesi diffusa all’interno del nuovo paradigma consiste nell’affermare che oggi sarebbe necessario creare «nuovi valori» (24), utili per vivere pacificamente. I valori della società precedente, come la «libera impresa» (25), la «sovranità nazionale» (26), le «religioni» (27), i «dogmi» (28), la «legge naturale» (29) e i «valori tradizionali» (30) in genere dovrebbero essere rifiutati, in quanto sarebbero inappropriati alle nuove esigenze di vita e, per giunta, sarebbero responsabili di aver creato un «vuoto etico» (31). Per quanto riguarda la «qualità della vita», il nuovo paradigma attribuisce rilievo determinante al tema della salute fisica e psicologica, e, all’interno di esso, alla cosiddetta «salute riproduttiva» (32). Questo grande problema viene trattato con il rinvio a una bioetica chiusa al trascendente, «“soggettiva” o “autonoma”» (33), in cui le regole dell’etica sono tratte esclusivamente dai princìpi definiti come di «autonomia» (34), di «beneficialità» (35) e di «giustizia» (36), da cui si ricava il concetto di «giusto», consistente nel dare a ciascuno ciò che egli desidera e della cui attuazione si assume tutte le conseguenze. Formula, quest’ultima, in cui è evidente la corruzione in senso soggettivistico del classico principio del giurista romano Ulpiano Domizio (sec. II-228), secondo cui l’essenza del giusto consiste nel dare a ciascuno il suo, «suum cuique tribuere» (37).
Varie teorie filosofiche, di tipo evoluzionistico, soggettivistico, contrattualistico e utilitaristico, sono pronte a giustificare questa «etica». Particolare seguito ha ottenuto la teoria dei «nuovi principii» (38), di cui va annoverato, fra i massimi interpreti, il filosofo morale australiano Peter Albert David Singer, che riassume gli aspetti più incisivamente dissolventi inerenti alle varie teorie, alla cui stregua la nuova etica non dovrebbe più radicarsi sui vecchi princìpi, ma dovrebbe piuttosto inventarne di nuovi, basati sull’assoluta libertà della decisione umana, considerata un «valore» in sé stessa, da rispettare comunque e in ogni caso. Infatti, questo autore propone per l’etica una rivoluzione analoga a quella che per la cosmologia è stata la teoria copernicana: «È giunto il momento per un’altra rivoluzione copernicana. Sarà, ancora una volta, una ribellione contro un complesso di idee che noi abbiamo ereditato dall’età in cui il mondo intellettuale era dominato da una prospettiva religiosa. E poiché bandirà la tendenza a vedere negli esseri umani il centro dell’universo morale, andrà incontro alla fiera opposizione di coloro che non intendono accettare questo schiaffo al nostro orgoglio umano. Da principio, anche la nuova prospettiva avrà i suoi problemi e dovrà esplorare il terreno con estrema cautela. Per molti le sue idee saranno troppo scandalose per essere prese sul serio. Ma alla fine la svolta ci sarà. La tesi tradizionale, secondo cui ogni vita umana è sacra, semplicemente non ci consente di far fronte alla gamma di questioni che esigono di venire risolte. La prospettiva nuova ci darà un approccio inedito e più promettente» (39).
Così non bisognerebbe accettare semplicemente il comandamento antico «non uccidere», bensì modificarlo in funzione del nuovo principio per cui sarebbe giusto uccidere se si decide liberamente di farlo, assumendosi la responsabilità di tutte le conseguenze di ciò. I princìpi adottati da ciascuno come criterio per l’azione diverrebbero princìpi «etici» alla semplice condizione che ognuno decida liberamente i comportamenti che ritiene di assumere per ciascuna situazione determinata, prendendosi carico di tutte le conseguenze che dal comportamento stesso derivano. La vita umana è parificata da Singer alla vita delle altre specie animali: nessuna è superiore all’altra. Egli nega ogni dignità essenziale alla persona umana e conseguentemente anche la sussistenza di un diritto universale alla vita. Essa merita tutela giuridica soltanto a certi livelli di consapevolezza, quando sia possibile il suo svolgimento secondo un determinato standard di qualità. La vita di un maiale sano è più degna di tutela giuridica rispetto a quella di un essere umano gravemente handicappato (40).
Merita osservare, a commento del nuovo paradigma, tre aspetti principali, strettamente correlati fra loro nell’indurre effetti di ambiguità. La confusione è creata artatamente allo scopo di rendere impopolare qualsiasi tipo di ferma opposizione alla nuova concezione «etica». Il primo aspetto consiste nella indeterminatezza dei concetti, che possono significare, a seconda del punto di vista assunto, cose radicalmente differenti. Il secondo sta nell’accostamento indebito di concetti che alludono a realtà completamente eterogenee, come è il caso, per esempio, dell’accostamento della «sovranità nazionale» alle «religioni» o alla «legge naturale». Il terzo aspetto, che descrive, peraltro, lo scopo insidioso perseguito attraverso la confusione del linguaggio e la mescolanza di realtà diverse, consiste nella colpevolizzazione della «sovranità nazionale» e della «libera impresa», per la desolazione in cui molti popoli della terra oggi si trovano, allo stesso titolo delle «religioni», dei «dogmi», e della «legge naturale», come se fossero i princìpi religiosi e i valori tradizionali una delle cause che hanno determinato i disastri morali ed ecologici del pianeta.
4. Cultura della morte e falsi «diritti» sociali
Gli organismi internazionali che si fanno promotori di questa forma aggressiva di relativismo etico utilizzano lo strumento giuridico per propagare il nuovo paradigma morale nel costume dei popoli, ispirando e fomentando l’approvazione di leggi, nonché la diffusione di raccomandazioni giuridiche e di modelli comportamentali che mirano a instaurare quella che Papa Giovanni Paolo II in molti passi del suo insegnamento e, soprattutto, nell’enciclica Evangelium vitae, ha chiamato la «cultura della morte» (41). «In realtà — si legge in quest’ultimo documento —, se molti e gravi aspetti dell’odierna problematica sociale possono in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo di fronte ad una realtà più vasta, che si può considerare come una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall’imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera “cultura di morte”. Essa è attivamente promossa da forti correnti culturali, economiche e politiche, portatrici di una concezione efficientistica della società» (42); e ancora: «Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”, non ci si può fermare all’idea perversa di libertà sopra ricordata. Occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall’uomo contemporaneo: l’eclissi nel senso di Dio e dell’uomo, tipica del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane. Chi si lascia contagiare da questa atmosfera, entra facilmente nel vortice di un terribile circolo vizioso: smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire anche il senso dell’uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua volta, la sistematica violazione della legge morale, specie nella grave materia del rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio» (43); e finalmente: «Questo orizzonte di luci ed ombre deve renderci tutti pienamente consapevoli che ci troviamo di fronte ad uno scontro immane e drammatico tra il male e il bene, la morte e la vita, la “cultura della morte” e la “cultura della vita”. Ci troviamo non solo “di fronte”, ma necessariamente “in mezzo” a tale conflitto: tutti siamo coinvolti e partecipi, con l’ineludibile responsabilità di scegliere incondizionatamente a favore della vita» (44).
Lo schema giuridico è chiaramente indicato da Singer, secondo il quale le leggi degli Stati si debbono fare latrici del principio secondo cui sarebbe «giusto» tutto quanto i singoli desiderano compiere secondo le loro scelte libere e di cui sono disposti ad assumersi le conseguenze.
Singer vuole riscrivere i comandamenti (45). Così, mentre il «primo comandamento antico» (46) prescrive: «Tratta tutte le vite umane come dotate di ugual valore» (47), il nuovo comanda: «Riconosci che il valore della vita umana varia» (48); mentre il secondo antico prescrive: «Non sopprimere mai intenzionalmente una vita umana innocente» (49), il nuovo comanda: «Assumiti la responsabilità delle conseguenze delle tue decisioni» (50); mentre il terzo antico prescrive: «Non toglierti mai la vita e cerca sempre di evitare che lo facciano altri» (51), il nuovo comanda: «Rispetta il desiderio delle persone di vivere e di morire» (52); mentre il quarto antico prescrive: «Crescete e moltiplicatevi» (53), il quarto nuovo comanda: «Metti al mondo dei bambini solo se sono desiderati» (54); mentre il quinto antico prescrive: «Tratta ogni vita umana come invariabilmente più preziosa di ogni vita non umana» (55), il quinto nuovo comanda: «Non operare discriminazioni sulla base della specie» (56).
Ancora qualche decennio fa, all’epoca, per esempio, del referendum sull’aborto in Italia, i laicisti accusavano i sostenitori del divieto d’aborto di confondere il piano morale con quello giuridico, per farsi sostenitori, con l’appoggio a leggi contrarie all’aborto, di un modello illiberale di convivenza civile. Ora, superato questo stadio, i negatori del diritto alla vita si fanno direttamente diffusori sfacciati di un modello giuridico che s’ispira tematicamente a una nuova visione di carattere morale, assolutamente relativista, che si vuole sostenere attraverso lo strumento del diritto e della legge.
Il 5 ottobre 2004 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha votato due documenti: la Risoluzione n. 1399 (2004) e la Raccomandazione n. 1675 (2004). Entrambi i documenti, collegati fra loro, hanno per oggetto la Strategia europea per la promozione della salute e dei diritti sessuali e riproduttivi (57). Le forme giuridiche utilizzate non sono leggi o regolamenti, bensì risoluzioni e raccomandazioni. Non sono, cioè, immediatamente coattive, ma, in consonanza con il nuovo modo di atteggiarsi delle attuali fonti giuridiche, dirette a favorire il relativismo morale, hanno carattere prevalentemente persuasivo. Vogliono cioè creare una mentalità e un costume, come prodromici alla intronizzazione, per opera delle pubbliche autorità, di modelli comportamentali radicalmente iniqui come se fossero assolutamente «giusti» e «leciti». L’organismo giuridico superiore — europeo — emette risoluzioni e diffonde raccomandazioni, quasi in adempimento di un compito scientifico e per esprimere un’opinione dotata di saggezza pratica, rivolgendosi ai Governi e ai Parlamenti nazionali; questi ultimi, poi, incalzati dalle lobby culturali legate al nuovo paradigma culturale, allegano di essere costretti, quasi posti in «stato di necessità», ad approvare quanto l’«Europa» li obbligherebbe a fare, pena il risultare inadempienti sul fronte dei rapporti e dei trattati internazionali. Così i popoli sono spossessati del tutto della facoltà di ostacolare, anche soltanto in modo indiretto, attraverso i rappresentanti eletti, un processo che si svolge per impulso e decisione di enti anonimi e burocratici, assolutamente non rappresentativi.
I primi due articoli della Risoluzione affermano che il diritto alla protezione della salute, di cui parla la Carta Sociale Europea, del Consiglio d’Europa — firmata a Strasburgo il 3 maggio 1996 ed entrata in vigore il 1° luglio 1999 —, come pieno benessere fisico, psicologico e sociale, alla stregua del significato a tale diritto attribuito dall’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, implica anche il diritto alla salute sessuale e riproduttiva (58). Quest’ultima, sulla scorta della Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo, tenutasi in Egitto, al Cairo, dal 5 al 13 settembre 1994, e della IV Conferenza sulle Donne svoltasi in Cina, a Pechino, dal 4 al 15 settembre 1995, «[…] implica la facoltà di stabilire una relazione intera soddisfacente e sicura, libera da coercizione o violenza e senza dover temere malattie sessualmente trasmesse (Mst) ivi compresi l’Aids [Acquired immunodeficiency syndrome] o le gravidanze indesiderate» (59).
Nella descrizione della salute riproduttiva, a parte il riferimento alla prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse — senza che si dica, peraltro, in qual modo debbano essere prevenute — non si rinviene alcun elemento positivo — come, per esempio, sul modo di eliminare o curare le cause che pregiudicano la fertilità —, ma si esplicitano istanze che nulla hanno a che fare con la salute, ma che implicano, fra l’altro, l’aborto. L’oggetto di tutela nella Risoluzione, infatti, è «il diritto alla salute sessuale e riproduttiva» (60), che implica che «[…] la gente possa stabilire una relazione [sessuale] soddisfacente e sicura, libera da coercizione o violenza […] in modo che le coppie possano esercitare la sessualità senza dover temere conseguenze negative o pericolose» (61). Dal canto suo, l’espressione «fertility regulation» — com’è stato chiarito sin dai lavori della Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo tenutasi al Cairo — comprende, oltre la contraccezione, anche l’aborto: regolazione prima e dopo i rapporti sessuali. L’altra espressione, che vuole escludere le «conseguenze negative o pericolose» dell’atto sessuale comprende il ricorso al cosiddetto «aborto sicuro», cioè l’aborto legalizzato richiesto come rimedio all’aborto clandestino che potrebbe risultare pericoloso (62).
Il diritto alla salute riproduttiva è inteso, in realtà, una volta decrittate le formule giuridiche, come il «diritto» a esercitare la sessualità secondo il proprio arbitrio, senza che la sua soddisfazione sia turbata dal rischio di conseguenze indesiderate. Lo scopo è volutamente di trasformare, attraverso la legge, in «diritto sociale» l’esercizio della sessualità in modo separato dal suo finalismo intrinseco e con la garanzia pubblica della contraccezione e dell’aborto (63).
Nella Risoluzione e nella correlativa Raccomandazione, con cui l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa raccomanda al Comitato dei Ministri una «strategia europea per la promozione della salute e dei diritti sessuali e riproduttivi», è assente ogni riferimento non soltanto al diritto del concepito alla vita, ma altresì ai termini maternità/paternità/famiglia/matrimonio, nonché alla doverosa responsabilità dei comportamenti nell’ambito della sessualità. Si assiste, in questo modo, secondo le chiare e ferme parole di mons. Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, al rovesciamento totale della concezione dei diritti dell’uomo, fondati sulla dignità obiettiva di ogni singolo essere umano, dal concepimento alla morte, indipendentemente dallo stadio di sviluppo raggiunto e dalla coscienza che il soggetto abbia di sé stesso (64).
5. La dignità della persona come fondamento delle Costituzioni
In questa situazione, ove il diritto viene utilizzato espressamente per instaurare una mentalità e un costume, nonché per dettare regole pratiche di comportamento diametralmente contrarie a quelle ricavabili dal diritto naturale, è essenziale riguadagnare integralmente il concetto della necessaria consonanza del diritto con la legge morale, nonché del carattere antigiuridico della legge ingiusta e, conseguentemente, della sua inesistenza giuridica, con il corollario della sua doverosa disapplicazione. Il principio fondamentale che occorre porre a base delle Costituzioni è il concetto di dignità della persona, in antagonismo con concetti ambigui espressi da termini fumosi come «valori» e «qualità della vita», resi particolarmente insidiosi dalla manipolazione soggettivistica.
La dignità è inviolabile, non è negoziabile, è oggetto di rispetto morale e giuridico incondizionato, e la sua violazione costituisce un atto intrinsecamente malvagio. Il filosofo tedesco Joseph Seifert ha messo in luce quattro distinte radici e fonti della dignità umana: la prima, che si riferisce a ciò che è l’uomo in quanto persona, cioè l’essenza, l’essere e la sostanza, come fonti della dignità umana; la seconda, che riguarda l’operare della coscienza e l’attuazione della personalità; la terza, che concerne la realizzazione della vocazione personale e della trascendenza morale dell’uomo; la quarta, che attiene ai doni che ciascuna singola persona possiede (65). Su questa premessa, Seifert ha osservato che il diritto alla vita attinge il suo fondamento in modo inviolabile e inalienabile nella prima radice della dignità, riconoscibile da tutti in base alla natura razionale della persona e dalla ragione stessa di colui che osserva con umiltà il reale e che è in grado di riconoscere la natura razionale di ogni essere umano. Insegna al riguardo Seifert: «L’essere persona, non importa se sana o malata, se maschio o femmina, se vecchia o giovane, se cosciente o in coma, è la prima base della dignità umana, dal momento che la libertà, la consapevolezza e la conoscenza, come pure il carattere di io e di sé che appartengono all’essenza della persona, richiedono chiaramente un soggetto, che vive e sussiste in sé nell’essere, e non dipende da questi atti né inerisce ad un’altra cosa come suo accidente» (66).
Con riferimento all’embrione, la dignità inviolabile di questa minuscola entità sta nel fatto oggettivo che essa vive e sussiste in sé nell’essere, e il suo vivere e sussistere non dipende dalla consapevolezza che essa ne abbia, né l’embrione è un qualche cosa che inerisca a un’altra cosa come accidente di questa. Da questo punto di vista la scienza, e non la teologia, ha dimostrato che l’embrione non è una cosa che inerisce come accidente alla madre, ma è un essere autossussistente che è nell’essere e sussiste in sé nell’essere e tende a permanere nell’essere (67). In questo modo è possibile allora per Seifert affermare che l’essenza di una natura razionale, così come l’esistenza e la vita reali di un insostituibile individuo di tale natura si compenetrano nell’origine della dignità personale. Un essere umano possiede una dignità inalienabile non solo «[…] “quando funziona come persona”, ma la possiede in virtù del suo essere persona» (68).
Come è ben comprensibile, sostenere la dignità di ogni persona e dell’embrione come soggetto, che vive e sussiste in sé nell’essere e che tende a permanere nell’essere fino alla sua piena esplicazione come essere cosciente, non significa farsi difensori di una particolare visione teologica o religiosa contro una concezione meramente razionale e laica della vita e dell’uomo. Significa, invece, farsi difensori di una verità perfettamente riconoscibile dalla ragione di ogni singolo uomo; significa adeguare la conoscenza alla «cosa», secondo le più avanzate letture della struttura biologica del reale che la scienza contemporanea è in grado di delineare.
«Ciò che invece emerge dalle pratiche di fecondazione artificiale è la tendenza sempre più diffusa a considerare il concepito una “cosa”, trascurando la sua indubitabile umanità, e con ciò la dignità che deriva dalla sua dimensione personale» (69).
In verità, non si contrappongono fra loro una concezione laica o razionale e una concezione teologica o religiosa dell’uomo; bensì, tutto all’opposto, una concezione soggettivistica, individualistica, edonistica dell’uomo, e una concezione rigorosamente razionale e oggettiva. La prima misconosce e offende l’evidenza oggettiva allo scopo di favorire il benessere fisico e psicologico di chi è in grado di dominare lo sviluppo della vita dell’essere ancora incosciente o non più cosciente. La seconda, invece, rispetta la realtà dell’uomo così come esso effettivamente è, conformando i rapporti fra l’essere cosciente e l’essere incosciente in termini di uguaglianza e di proporzione.
Sotto il profilo giuridico, l’attuazione della concezione individualistica, soggettivistica ed edonistica esprime la prevaricazione di chi è forte e potente su chi è debole e povero. Senonché il riconoscimento come diritto soggettivo di una res radicalmente ingiusta in una norma della comunità politica configura non una legge, ma una corruzione della legge, che non obbliga la coscienza. Essa è un fatto ingiusto, non è diritto.
6. Le ragioni dell’aggressione relativista alla legge 19 febbraio 2004, n. 40
È possibile a questo punto svolgere alcuni rilievi sulle ragioni per cui le forze culturali e politiche ispirantesi al relativismo etico aggressivo perseguono con determinazione accanita l’abrogazione dei punti qualificanti contenuti nella legge 19 febbraio 2004, n. 40, che regola la delicata materia della procreazione medicalmente assistita. Tali forze sostengono, in verità, un referendum abrogativo che, in relazione alla complessità della materia regolata e all’assoluta indispensabilità della sua regolazione, si presenta, quanto al rispetto del bene comune e alla ragionevolezza politica, come assolutamente insensato e irresponsabile: giacché è evidente per tutti quanto sia necessario mettere argine con la legge almeno ai comportamenti aberranti e profittatori, che pullulano nel cosiddetto Far West della procreazione artificiale.
Premesso ora che la legge n. 40/2004 regola secondo il principio della riduzione del danno l’attuazione delle tecniche di procreazione artificiale, ritenute inaccettabili dalla dottrina della Chiesa perché contrarie al principio della intrinseca inseparabilità nella generazione umana della dimensione unitiva e procreativa (70), è evidente che l’intenzione abrogatrice si dirige direttamente contro il principio, riconosciuto espressamente nell’articolo 1 comma 2 della legge, in virtù del quale il ricorso alle tecniche artificiali può essere attuato garantendo comunque «i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito». Ciò che urta la mentalità dei sostenitori del referendum, al punto da essere qualificato come «un’infamia» (71), è il fatto che la legge abbia espressamente riconosciuto al concepito il diritto alla vita. Si tratta, infatti, di un principio dirompente per il relativismo etico, che postula l’annichilimento di ogni limite oggettivo all’arbitrio umano, cui frappone un ostacolo importante. E tale ostacolo è fondato sulla scienza e sull’esperienza: il che potrebbe costituire il punto di partenza per il rinnovamento dell’ordinamento giuridico in senso rispettoso della vita, in senso opposto alla «cultura della morte».
Ma vi è, se possibile, nella contrapposizione referendaria, qualcosa di ancora più significativo in ordine alla portata epocale dello scontro provocato dai sostenitori dell’abrogazione della legge n. 40/2004. Essa contempla, conformemente allo scopo di regolare la procreazione artificiale, una serie di disposizioni volte a far sì, per un verso, che tale metodica non sia praticata per finalità diverse dalla soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità, e, per un altro verso, che, attraverso tale metodica, non si affermi come normativo per la ragion pratica il principio, contrario alla tutela della vita, che vorrebbe sostenere l’assoluta disponibilità degli embrioni, come se essi fossero «cose», e non esseri umani concepiti, ove non impediti nel naturale processo di sviluppo da un intervento esterno distruttivo.
I limiti frapposti dalla legge n. 40/2004, che si vogliono abrogare con la richiesta di referendum dichiarata ammissibile con la sentenza della Corte Costituzionale n. 47 del 28-01-2005, sono contenuti nell’articolo 1 comma 1, laddove è previsto che la procreazione medicalmente assistita è consentita «al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana»; nell’articolo 1, comma 2, laddove è detto che «il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità»; nell’articolo 4, comma 1, ove è detto che «il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico»; nell’articolo 6, comma 3 laddove è previsto che la volontà di accedere alle tecniche di fecondazione artificiale non è più revocabile dopo la fecondazione dell’ovulo. Parimenti la proposta vuole abrogare alcuni limiti posti a tutela degli embrioni: in particolare l’articolo 14, comma 2, alla cui stregua le tecniche di produzione degli embrioni «[…] non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre»; nonché l’articolo 14, comma 3, alla cui stregua la crioconservazione degli embrioni è ammessa soltanto quando il trasferimento nell’utero «[…] non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione» e comunque «fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile».
Ora, con la richiesta di abrogazione di questi limiti all’uso delle tecniche di fecondazione artificiale e di una serie di provvidenze a tutela degli embrioni, contenute nelle disposizioni della legge, i promotori del referendum, lungi dall’aprire una strada per la risoluzione — comunque impropria, perché moralmente inaccettabile e perché piena di complicazioni e tensioni sul piano psicologico ed esistenziale — dei problemi delle coppie sterili, intendono costruire uno strumento di dominio sulle fonti della vita, con l’attribuzione agli operatori tecnici — gli scienziati — di una potestà di vita e di morte sugli embrioni, indipendentemente da qualsivoglia finalismo riproduttivo.
«Il senso della PMA non è dunque, come per altre azioni mediche, quello di adoperarsi a sanare una patologia; […] non succede cioè che, a nascita avvenuta del figlio richiesto, la sterilità sia risolta e la fertilità ristabilita» (72). Diversamente che nell’ordinario svolgimento dell’agire medico, «se la mia identità — il fatto che io sono io — e il mio statuto ontologico — una persona umana depositaria di diritti — sono, oggi più che mai, destinatari di un’attenzione e di un rispetto encomiabili in ogni atto medico, altrettanto non può dirsi del soggetto umano posto in essere dalla PMA» (73).
In gioco, in altri termini, non sono soltanto le modalità concrete in cui può attuarsi la procreazione artificiale, bensì soprattutto i paradigmi etici destinati a orientare le sorti dell’umanità nel futuro. In particolare, dobbiamo domandarci se il paradigma etico nuovo, che riconosce al suo centro e ha come suo motore l’assoluta libertà del singolo di attuare tutto quanto gli è possibile tecnicamente fare, corrisponda al vero bene dell’uomo, o non consista piuttosto nella razionalizzazione, ambigua e seducente, ma terribilmente foriera di rovine, del peccato dell’uomo di presumersi onnipotente e di sostituirsi a Dio. Come ha mirabilmente rilevato il card. Lozano Barragán nell’intervento già citato, «[…] il più significativo anti-valore» (74) del nuovo paradigma sta nel fatto che esso si presenta «[…] come una nuova spiritualità, che supplisce alle religioni in quanto impegnate al compito di proteggere l’ecosistema. In pratica si tratta di una nuova religione secolare, una religione senza Dio, o in altri termini con un nuovo Dio, la terra stessa, chiamata Gaia. L’uomo è l’elemento subordinato di questa divinità» (75).
Senonché, se la tentazione è antica, il pericolo rappresentato dal nuovo paradigma è radicalmente più grave rispetto al passato, in relazione ai mezzi enormemente più potenti che l’uomo oggi annovera a sua disposizione rispetto alle epoche precedenti. Attraverso la manipolazione diretta sulle fonti della vita, attraverso le molteplici modalità oggi tecnicamente possibili, un potere immenso è stato concesso agli stregoni della nuova religione, a quegli uomini che vogliono sacrificare a «Gaia», sentendosi in «diritto» addirittura di selezionare, in base a criteri di convenienza utilitaristica, l’umanità futura.
Impedire con la forza del diritto che uomini irrispettosi del principio del limite si approprino e usino di tali poteri, contro il principio di prudenza e di cautela, nel disprezzo della sacralità della vita e della dignità dell’uomo, è compito fondamentale che attende di essere svolto con umiltà e fermezza dagli uomini di buona volontà nel terzo millennio dell’era cristiana.
Mauro Ronco
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(1) Cfr. Jean Bodin, I sei libri dello Stato, trad. it., a cura di Margherita Isnardi Parente, UTET, Torino 1988, libro I, cap. VIII, pp. 345-406.
(2) Ibid., p. 345.
(3) Ibid., p. 348.
(4) Cfr. ibid., p. 361.
(5) Cfr. ibid., p. 388.
(6) Cfr. su questi temi tre testi, che ben delineano le critiche essenziali alla moderna ideologia della legge, cui aderisco integralmente: Paolo Grossi, Epicedio per l’assolutismo giuridico, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 17, Giuffrè, Milano 1988, pp. 517-532, e, in particolare, p. 523, ove l’autore ribadisce «[…] due pensieri elementari, tanto elementari da rasentare l’ovvietà, ma troppo spesso rimossi o esorcizzati col silenzio: il primo […] è che lo Stato c.d. di diritto si coniuga esclusivamente, nell’Europa continentale, col più bieco e soffocante assolutismo giuridico; il secondo è che questo assolutismo giuridico è soltanto un frutto storico, temporalmente e spazialmente limitato, ignoto al diritto dell’antico regime prima della chiusura della cerniera codificatoria, ignoto all’area della genuina tradizione giuridica di common law»; Juan Bms. Vallet de Goytisolo, Metodologia de las leyes, Editoriales de Derecho Reunidas, Madrid 1991, passim e soprattutto, sulla teoria delle fonti, pp. 15-56; e Francesco Gentile, Intelligenza politica e ragion di Stato, 2a ed., Giuffré, Milano 1984, passim e, in particolare, pp. 147-159.
(7) Cfr. Aristotele, Politica, libro I, 1252 a, in Idem, Politica e Costituzione di Atene, trad. it., a cura di Carlo Augusto Viano, UTET, Torino 1992, pp. 51-342 (p. 63).
(8) Cfr. Félix Adolfo Lamas, Autarquía, soberanía y fuentes del derecho, testo di conferenza dattiloscritto, pp. 18, Buenos Aires 2004, pp. 14-18.
(9) Cfr. ibid., pp. 15-16.
(10) Cfr. per tutti J. Bms. Vallet de Goytisolo, Metodologia de las leyes, cit., passim; e Idem, Las definiciones de la palabra derecho y los múltiples conceptos del mismo. Discurso leído el día 16 de noviembre de 1998 en la sesión inaugural del curso académico 1998-1999, Real Academia de Jurisprudencia y Legislación, Madrid 1998, passim e, in particolare, per il richiamo alla definizione classica, romana e cristiana del diritto, allo stesso tempo come res iusta e arte per determinarlo, pp. 183-196.
(11) Sant’Agostino, De libero arbitrio, I, 5, 11, cit. in Giovanni Paolo II, Enciclica «Evangelium vitae» sul valore e l’inviolabilità della vita umana, del 25-3-1995, n. 72, nota 97.
(12) San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 93, a 3, ad 2um, cit. ibid., n. 72, nota 96: «Lex humana intantum habet rationem, inquantum est secundum rationem rectam; et secundum hoc manifestum est quod a lege aeterna derivatur. Inquantum a ratione recedit, sic dicitur lex iniqua; et sic non habet rationem legis, sed magis violentiae cuiusdam».
(13) Idem, Summa theologiae, I-II, q. 95, a 2, cit. ibid., n. 72, nota 97: «Unde omnis lex humanitus posita intantum habet de ratione legis, inquantum a lege naturae derivatur. Si vero in aliquo a lege naturali discordet, iam non erit lex, sed legis corruptio».
(14) Giovanni Paolo II, Enciclica «Evangelium vitae» sul valore e l’inviolabilità della vita umana, cit., n. 72.
(15) Beato Giovanni XXIII, Enciclica «Pacem in terris» sulla pace fra tutte le genti fondata sulla verità, la giustizia, l’amore, la carità, dell’11-4-1963, II, 2.
(16) Giovanni Paolo II, Enciclica «Evangelium vitae» sul valore e l’inviolabilità della vita umana, cit., n. 72.
(17) Cfr. un’informazione di base e utili indicazioni bibliografiche sul vastissimo tema, in François Ost e Michel van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Publications des Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles 2002; e, in specie, pp. 125-179; sull’erosione della legalità, in particolare, pp. 78-88.
(18) Cfr. la delineazione dei caratteri principali degli avvenimenti del 1968, indicati come punto di partenza di una nuova fase del processo rivoluzionario che ha dissolto la civiltà cristiana occidentale, in Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» vent’anni dopo, in Idem, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. italiana accresciuta di «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» vent’anni dopo, in prima edizione mondiale, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 189-195, ove tale fase viene definita con il termine di «IV Rivoluzione».
(19) Cfr., da ultimo, l’insegnamento del card. Joseph Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, e Idem, Lettera a Marcello Pera [presidente del Senato della Repubblica Italiana], in Idem e M. Pera, Senza Radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano 2004, rispettivamente pp. 47-72 e 97-122. Cfr. pure Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, del 24-11-2002, a firma dello stesso cardinale come prefetto della Congregazione, dove viene denunciato il relativismo morale e proposto il dissenso che i cattolici sono chiamati a esprimere contro una concezione del pluralismo in chiave appunto di relativismo morale, siccome «[…] nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici che per la loro natura e il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono “negoziabili”» (n. 3); cfr. inoltre il commento di Giovanni Cantoni, Le radici dell’ordine morale e il loro riconoscimento nella vita politica grazie all’impegno e al comportamento dei cattolici, in Cristianità, anno XXXI, n. 315, gennaio-febbraio 2003, pp. 3-7; sull’itinerario della modernità rivoluzionaria dopo il crollo del comunismo verso il relativismo morale, cfr. dello stesso G. Cantoni, Metamorfosi del socialcomunismo: dal relativismo totalitario al relativismo democratico, ibid., anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 15-21.
(20) Cfr. card. Javier Lozano Barragán, Nuovo paradigma: origini e proposte, in Pontificia Academia pro Vita, Etica della ricerca cristiana. Atti della Nona Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita (Città del Vaticano, 24-26 febbraio 2003), edito da Juan de Dios Vial Correa e Elio Sgreccia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, pp. 13-28; cfr. pure Agostino Carloni, Il Nuovo Disordine Mondiale e i suoi agenti, in Cristianità, anno XXXI, n. 320, novembre-dicembre 2003, pp. 7-13, che fa stato dello studio di monsignor Michel Schooyans, Nuovo disordine mondiale. La grande trappola per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità, trad. it., con Prefazione del card. Joseph Ratzinger, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000.
(21) Card. J. Lozano Barragán, intervento cit., pp. 14-15.
(22) Ibid., p. 15.
(23) Ibid., p. 16.
(24) Ibid., p. 15.
(25) Ibidem.
(26) Ibidem.
(27) Ibidem.
(28) Ibidem.
(29) Ibidem.
(30) Ibidem.
(31) Ibidem.
(32) Ibid., p. 17.
(33) Ibid., p. 18.
(34) Ibidem.
(35) Ibidem.
(36) Ibidem.
(37) Ulpiano, D. 1.1.10.1: «Juris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere».
(38) Card. J. Lozano Barragán, intervento cit., p. 19.
(39) Peter Singer, Ripensare la vita, trad. it., il Saggiatore, Milano 2000, p. 193.
(40) Cfr. ibid., pp. 184-187 e 205-209.
(41) Cfr. la fondazione filosofica del tema costituito dalla «lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”», in Gonzalo Miranda L.C., «Cultura della morte»: analisi di un concetto e di un dramma, in Commento interdisciplinare alla «Evangelium vitae». Direzione e coordinamento di Ramón Lucas Lucas, L.C., ed. it. a cura di E. Sgreccia e R. Lucas Lucas L.C., con Prefazione di J. de Dios Vial Correa e Conclusione di mons. E. Sgreccia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, pp. 225-243, che ricostruisce anche filologicamente il crescente riferimento al tema nel magistero di Giovanni Paolo II e nell’insegnamento della Chiesa. Interessante notare il crescendo nella cronologia degl’interventi del Papa. Il primo riferimento è nel discorso ai giovani di Azione Cattolica Italiana, Roma, 8 maggio 1982, in Insegnamenti, V, 2, p. 1457, ove il Papa invita i giovani ad accogliere l’invito dei Vescovi italiani a camminare «[…] con decisione contro corrente e porre nei valori morali le premesse di un’organica cultura della vita». E in effetti qualche mese prima il Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana aveva pubblicato un messaggio intitolato Per una cultura della vita, nel quale si utilizzava l’espressione «cultura di morte» : «La Chiesa […] deve anzitutto denunciare la diffusione, anche programmata , di una cultura di morte, che fonda le sue radici non solo nelle oggettive difficoltà del momento, ma in un profondo disorientamento ideologico e morale» (Consiglio Permanente della CEI, Messaggio «Per una cultura della vita», del 17-5-1981, in Enchiridion CEI, vol. 3, Bologna 1986, pp. 291-292, cit. ibid., p. 232). Lo scontro fra Vangelo della vita e cultura della morte è mirabilmente descritto da mons. Carlo Caffarra, Vangelo della vita e cultura della morte, a cura del Comitato per la Libertà di Educazione, Torino, Di Giovanni Editore, S. Giuliano Milanese (Milano) 1992, pp. 31-35.
(42) Giovanni Paolo II, Enciclica «Evangelium vitae» sul valore e l’inviolabilità della vita umana, cit., n. 12.
(43) Ibid., n. 21.
(44) Ibid., n. 28.
(45) Cfr. P. Singer, op. cit., pp. 193-208.
(46) Ibid., p. 193.
(47) Ibidem.
(48) Ibid., p. 194.
(49) Ibid., p. 196.
(50) Ibid., p. 198.
(51) Ibid., p. 199.
(52) Ibid., p. 200.
(53) Ibid., p. 201.
(54) Ibid., p. 202.
(55) Ibid., p. 203.
(56) Ibid., p. 205.
(57) Cfr. il testo dei due documenti, in Medicina e Morale. Rivista internazionale di Bioetica, nuova serie, anno LIV, n. 6, Roma novembre-dicembre 2004, pp. 1227-1230. Occorre rilevare, come ha fatto mons. E. Sgreccia su L’Osservatore Romano del 14-10-2004, Votazione preoccupante all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa — trascritto ibid., pp. 1109-1114 —, che sui 313 componenti dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa erano presenti al voto finale 62 parlamentari, che si sono così espressi: per la Risoluzione i favorevoli sono stati 45, i contrari 12, gli astenuti 5; per quanto riguarda la Raccomandazione — presenti 61 —, i favorevoli sono stati 48; i contrari 11 e gli astenuti 2. Ciò è indice dell’assoluta carenza di rappresentatività reale dell’organo che ha approvato i due documenti, nonché, purtroppo, dello scarso interesse dei componenti dell’Assemblea per i temi fondamentali della morale e della convivenza civile.
(58) Cfr. un commento autorevole dei due documenti, in mons. E. Sgreccia, art. cit.
(59) Risoluzione, art. 2, in Medicina e Morale. Rivista internazionale di Bioetica, cit., p. 1227.
(60) Ibidem.
(61) Ibidem.
(62) Cfr. mons. E. Sgreccia, art. cit., pp. 1112-1113; cfr. pure, sulla Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo, tenutasi in Egitto, al Cairo, dal 5 al 13 settembre 1994, Lorenzo Cantoni, Il problema della popolazione mondiale e le politiche demografiche. Aspetti etici, Cristianità, Piacenza 1994, pp. 87-102.
(63) Cfr. mons. E. Sgreccia, art. cit., p. 1113.
(64) Cfr. ibid., p. 1114.
(65) Cfr. Joseph Seifert, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, in Pontificia Academia pro Vita, Natura e dignità della persona umana a fondamento del diritto alla vita. Le sfide del contesto culturale contemporaneo. Atti dell’Ottava Assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita (Città del Vaticano, 25-27 febbraio 2002), edito da J. de Dios Vial Correa e E. Sgreccia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003, pp. 193-215.
(66) Ibid., p. 203.
(67) Cfr. ibidem.
(68) Ibid., p. 204.
(69) Claudia Navarini, Procreazione assistita? Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi, Casale Monferrato (Alessandria) 2005, p. 59.
(70) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione «Donum vitae» su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, del 22-2-1987, II, A.
(71) Dacia Maraini, Quesiti, molti i disinformati. Ma alla politica non dispiace, in Corriere della Sera, Milano 27-5-2005.
(72) Chiara Mantovani, La Procreazione Medicalmente Assistita: alcune considerazioni dopo l’approvazione della legge n. 40 del 19 febbraio 2004, in Cristianità, anno XXXII, n. 323, maggio-giugno 2004, pp. 5-12 e 30 (p. 6).
(73) Ibidem.
(74) Card. J. Lozano Barragán, intervento cit., p. 23.
(75) Ibidem; sul «carattere biocentrico della IV Rivoluzione» e sugli sforzi risalenti «per un’educazione ambientale globale gnostica», cfr. G. Cantoni, Fra crisi e «ristrutturazione»: ipotesi sul futuro dell’impero socialcomunista, in Cristianità, anno XVIII, n. 187-188, novembre-dicembre 1990, pp. 13-19, soprattutto pp. 17-18.