Mauro Ronco, Cristianità n. 356 (2010)
Intervento, riveduto e annotato, al convegno in occasione del cinquantenario di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, organizzato il 21-11-2009 a Roma, nell’Auditorium dell’Istituto Patristico Augustinianum, da Alleanza Cattolica in collaborazione con l’Associazione Tradizione Famiglia Proprietà: cfr. Francesco Pappalardo, “Convegno in occasione del cinquantenario di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”. Roma, 21 novembre 2009, in Cristianità, anno XXXVII, n. 354, ottobre-dicembre 2009, pp. 41-44.
1. L’ordine temporale legittimo
Il tema del diritto è al centro dell’opera magistrale di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (1). Il capitolo VII della parte prima dell’opera, intitolato L’essenza della Rivoluzione (2), è suddiviso in tre paragrafi, rispettivamente denominati La rivoluzione per eccellenza (3), Rivoluzione e legittimità (4), La Rivoluzione, l’orgoglio e la sensualità. I valori metafisici della Rivoluzione (5). Nel primo paragrafo Corrêa de Oliveira fornisce il significato della parola “rivoluzione” (6); nel secondo, esamina la nozione di legittimità; nel terzo, focalizza nell’orgoglio e nella sensualità, come passioni disordinate che operano nell’uomo sotto l’influsso della triplice concupiscenza, le valenze metafisiche della Rivoluzione e le fonti da cui scaturisce e di cui si alimenta incessantemente.
Con il vocabolo “rivoluzione” indica “[…] un movimento che mira a distruggere un potere o un ordine legittimo e a instaurare, al suo posto, uno stato di cose — intenzionalmente non vogliamo dire “ordine di cose” — o un potere illegittimo” (7). Alla luce di questa definizione, diventa cruciale definire quale sia il “potere” o l’”ordine legittimo”, di contro al “potere” o allo “stato di cose” illegittimo. Definire i caratteri dell’”ordine legittimo” costituisce l’oggetto dell’indagine metafisica relativa al fondamento del diritto, della giustizia e dell’ordine politico naturale. Al di là e al di sopra dei problemi circa i titoli di legittimità del singolo governo — problemi certamente non irrilevanti, ma assolutamente non decisivi — si situa a un livello, per così dire, costituzionale, il problema giuridico fondamentale, quello relativo alla legittimità dello Stato; intendendosi in questo senso per “Stato” non ciò che la modernità denomina riduttivisticamente “lo Stato”, ma lo stato delle cose sul piano della verità giuridica in ordine al fondamento e all’esercizio del potere, come costituzione reale di una comunità sociale autarchica.
La legittimità dello Stato, in questo senso pregnante, si misura in relazione alla sua conformità o difformità rispetto al vero ordine politico naturale. Corrêa de Oliveira si premura di sottolineare la duplicità dei temi relativi alla “legittimità”, osservando che “la Rivoluzione ha spesso abbattuto autorità legittime, sostituendole con altre prive di qualsiasi titolo di legittimità. Ma sarebbe un errore pensare che essa consista soltanto in questo. Il suo obiettivo principale non è la distruzione di questi o di quei diritti di persone o di famiglie. Più di ciò, essa vuole distruggere tutto un ordine di cose legittimo e sostituirlo con una situazione illegittima” (8). L’obiettivo della Rivoluzione è, sotto questo punto di vista, di carattere giuridico, di estirpare, in altri termini, l’esperienza primordiale del giusto che alberga nel cuore dell’uomo, togliendo il fondamento del giusto ordine sociale e sostituendolo con una situazione che omette implicitamente di tener conto, o, addirittura, esplicitamente contrasta il valore della giustizia nel dinamismo delle relazioni multiformi fra i componenti della società uti singuli e fra costoro e la comunità politica nel suo insieme.
Naturalmente, soggiunge ancora Corrêa de Oliveira nel passo appena citato, la Rivoluzione non consiste soltanto nella sostituzione del giusto ordine delle cose con una situazione illegittima, ma opera altresì per “[…] abolire una visione del mondo e un modo d’essere dell’uomo con l’intenzione di sostituirli con altri radicalmente opposti” (9). È evidente, infatti, che la Rivoluzione mira al cuore dell’uomo, per cancellare in lui l’immagine e la somiglianza con Dio; non si arresta, dunque, alla distruzione del legittimo ordine giuridico e sociale, ma si avvale di tale distruzione per aggredire, con maggiori chance di successo, l’uomo nella sua interiorità, affinché egli smarrisca il suo fine eterno. Il legittimo ordine sociale, invero, non è, come tutte le realtà calate nel tempo, un fine assoluto, ma soltanto un mezzo attraverso cui l’uomo rende gloria a Dio, perseguendo così il fine di ottenere la vita vera. Poiché è vero, secondo il ben noto concetto espresso dal Papa venerabile Pio XII (1939-1958), che dalla forma conferita alla società dipende anche, in qualche misura, la salvezza delle anime (10).
2. La civiltà cristiana come vero “ordine legittimo”
Dopo aver focalizzato l’obiettivo della Rivoluzione, Corrêa de Oliveira fornisce un’essenziale descrizione dell’”ordine legittimo” per eccellenza, quell’ordine contro il quale la Rivoluzione ha scatenato la sua plurisecolare aggressione, osservando: “[…] l’ordine di cose che si sta distruggendo è la Cristianità medioevale. Ora, la Cristianità non è stata un ordine qualsiasi, possibile come sarebbero possibili molti altri ordini. È stata la realizzazione, nelle condizioni inerenti ai tempi e ai luoghi, dell’unico vero ordine fra gli uomini, ossia della civiltà cristiana” (11).
In questo sintetico brano vanno accuratamente distinte due proposizioni: la prima, che la civiltà cristiana è l’”unico vero ordine fra gli uomini”; la seconda, che la Cristianità medioevale non è stata un ordine qualsiasi, ma “la realizzazione, nelle condizioni inerenti ai tempi e ai luoghi, dell’unico vero ordine fra gli uomini”. La prima proposizione ha una valenza metafisica: il vero “ordine legittimo” è la civiltà cristiana; la seconda, una valenza meramente storica: la Cristianità medioevale è stata una modalità, condizionata dalle circostanze storiche, attraverso cui gli uomini di una certa epoca storica hanno cercato di attuare, con tutte le loro limitazioni e deficienze, l’”unico vero ordine legittimo fra gli uomini”.
A sostegno del giudizio storico Corrêa de Oliveira menziona, immediatamente dopo, il magistero di Papa Leone XIII (1878-1903) nell’enciclica Immortale Dei: “Ci fu un tempo in cui la filosofia dell’evangelo governava gli Stati: quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e apparati dello Stato; quando la religione di Gesù Cristo, posta solidamente in quell’onorevole grado che le spettava, andava fiorendo all’ombra del favore dei prìncipi e della dovuta protezione dei magistrati; quando procedevano concordi il sacerdozio e l’impero, stretti avventurosamente fra loro per amichevole reciprocità di servigi. Ordinata in tal modo la società, apportò frutti che più preziosi non si potrebbe pensare, dei quali dura e durerà la memoria, affidata a innumerevoli monumenti storici, che nessun artificio di nemici potrà falsare od oscurare” (12).
Diverso dal tema storico è quello metafisico, circa i caratteri che consentono di qualificare lo Stato come legittimo. Il pensatore brasiliano rileva giustamente, nel secondo paragrafo del capitolo VII, che “in generale, la nozione di legittimità è stata messa a fuoco soltanto in relazione a dinastie e a governi” (13). È qui implicitamente evocata la distinzione fra legittimità d’origine e legittimità d’esercizio del potere politico. Certamente, come insegna Papa Leone XIII nell’enciclica Au milieu des sollicitudes, del 16 febbraio 1892 (14) — testo che Corrêa de Oliveira cita immediatamente dopo il brano sopra richiamato — non si può e non si deve trascurare l’importanza della stessa questione della legittimità d’origine del Governo, “[…] perché si tratta di una questione morale gravissima, che le coscienze rette devono considerare con ogni attenzione” (15). Di gran lunga più rilevante, tuttavia, è la questione della legittimità d’esercizio del potere politico. Il termine “legittimo” ha un significato molto vasto: è legittimo ciò che è secondo la legge, costituito dalle leggi, giusto, vero, equo, conveniente. Qualche cosa di più preciso e più determinato che non la semplice legalità, che può rimanere esterna, apparente, mentre la legittimità è una qualità intima che riveste e pervade ciò che è conforme alla legge, alla giustizia, alla ragione: conformità alla legge universale di giustizia che impone, sancisce, coordina, regola i rapporti fra gli uomini.
Che la legalità non esaurisca la vita del diritto è oggi ammesso da molti, dopo l’ubriacatura, durata ininterrottamente per quasi due secoli, che va sotto il nome di concezione positivistica del diritto. I governi, instauratisi illegittimamente sul modello di quelli sorti in conseguenza, diretta o indiretta, della Rivoluzione detta francese, rimossero completamente il tema della legittimità dell’esercizio del potere, riducendo il diritto alla mera legalità, nel senso del rispetto, anche da parte del potere pubblico, delle norme di legge dettate, in conformità alle regole procedurali fissate nelle Carte costituzionali, dagli organismi parlamentari, norme di legge costituenti il cosiddetto diritto positivo, a cui si tendeva di ridurre forzosamente tutto il diritto.
Nei giorni attuali si vuole rintracciare nella Costituzione la fonte di legittimità del diritto, tanto che le leggi ordinarie vengono sindacate sotto il profilo della loro legittimità costituzionale da apposite corti di giustizia. Sì che la Costituzione appare oggi come il criterio unico di legittimità del diritto. Come poi la Costituzione, che è un documento giuridico positivo, emanato in un determinato momento storico, possa costituire realmente tale criterio di legittimità, è assai oscuro. Sembra tuttavia che gli studiosi non sfuggano alla seguente alternativa: o la Costituzione va interpretata secondo la lettera e il senso oggettivamente ricavabile dalla risposta fornita dal potere costituente al problema giuridico affiorato come meritevole di soluzione al momento della decisione di tale potere; ovvero essa costituisce esclusivamente lo strumento formale per trasferire il potere reale di governo a una classe di giuristi che, giudicando in ultima istanza sulla “legittimità” delle norme dell’ordinamento giuridico, spossessa del diritto di governare coloro che ne hanno ricevuto il mandato dal corpo elettorale.
Non è questa la sede per esaminare quale delle due tesi sia meno scorretta sul terreno della razionalità giuridica. Si può soltanto osservare che la prima non è tanto gravemente contraddittoria come la seconda: entrambe, invero, si sottraggono al tema fondamentale della legittimità dell’esercizio del potere; la prima, tuttavia, ha il merito, rispetto alla seconda, di rinviare, se non al vero, almeno al certo delle leggi, dalle quali spesso traspare una qualche impronta di verità, come nei casi in cui i costituenti, chiamando Dio a loro testimone, giurano solennemente di rispettare i diritti fondamentali dell’uomo. La seconda tesi, invece, è irrimediabilmente contraddittoria, perché, attribuendo la decisione circa la legittimità delle leggi al soggettivo sentimento etico di giuristi che non assumono alcuna responsabilità né di fronte a Dio né di fronte al popolo, non garantisce né il vero né il certo del diritto, dissolvendo con ciò l’idea stessa della legittimità dell’ordine giuridico.
3. Il bene comune come fine del giusto ordine temporale
L’opera di Corrêa de Oliveira affronta in radice il tema della legittimità dell’ordine, a cui il positivismo giuridico, per oltre due secoli, e il costituzionalismo contemporaneo, con sempre più sottile e caparbia determinazione, si sottraggono completamente. Il Maestro brasiliano, dopo aver sottolineato la gravità della questione morale circa la legittimità di origine del potere politico, incalza ancora, andando al cuore del problema: “Però il concetto di legittimità non si applica soltanto a questo genere di problemi.
“Vi è una legittimità più alta, quella che caratterizza ogni ordine di cose in cui divenga effettiva la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, modello e fonte della legittimità di tutte le regalità e di tutti i poteri terreni” (16). La legittimità, invero, delle persone investite dell’autorità non soltanto è un bene eccellente in sé, ma, soprattutto, è “[…] un mezzo per raggiungere un bene di gran lunga superiore, ossia la legittimità di tutto l’ordine sociale, di tutte le istituzioni e di tutti gli ambienti umani, il che si dà con la disposizione di tutte le cose secondo la dottrina della Chiesa” (17).
Dunque, la legittimità d’origine del potere non è un fine in sé stesso; non è decisivo, invero, che il regime politico sia monarchico, secondo la legittima linea dinastica, o sia repubblicano, secondo la legittima investitura delle magistrature da parte del popolo; ciò che conta è che le legittime autorità politiche esercitino il loro potere come un servizio verso il bene comune. Questo tema, che Corrêa de Oliveira affronta in una sintesi mirabile, è sviluppato dal Catechismo della Chiesa Cattolica in vari punti, tutti meritevoli di estrema attenzione. Nel paragrafo 2235, dedicato ai doveri delle autorità civili, è detto: “Coloro che sono rivestiti d’autorità, la devono esercitare come un servizio. […] L’esercizio di un’autorità è moralmente delimitato dalla sua origine divina, dalla sua natura ragionevole e dal suo oggetto specifico. Nessuno può comandare o istituire ciò che è contrario alla dignità delle persone e alla legge naturale”. L’autorità, peraltro, dev’essere legittima, com’è detto nel paragrafo 1897, e ha per compito di assicurare “ordine” e di contribuire “all’attuazione del bene comune in un grado sufficiente”. L’autorità, esigita dall’ordine morale, viene da Dio, come è detto nel paragrafo 1899, che cita a conforto il passo di san Paolo ai Romani: “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna” (Rm. 13, 1-2).
L’autorità ha per compito di contribuire all’attuazione del bene comune. Quest’ultima nozione è particolarmente ostica alla mentalità moderna, che è incapace di concepire il bene se non come il bene di un singolo o come il bene di un certo numero, più o meno consistente, di singoli. In realtà, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 1905, non vi è bene del singolo che non sia bene comune, perché, in conformità alla natura sociale dell’uomo, il bene di ciascuno è necessariamente in rapporto con il bene comune. Per esso va inteso, secondo la definizione della Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo “Gaudium et spes”, del 1965, al n. 26, ripresa nel Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 1906, “[…] l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente”.
4. Il dinamismo delle relazioni giuste nell’ordine temporale legittimo
Il bene comune è il bene di ciascun componente della società, che non può sussistere se il bene di ciascuno non è allo stesso tempo il bene di tutti. Questo bene, che costituisce il fine per cui opera l’autorità civile legittima, si attua grazie alla pratica della giustizia e termina nella realizzazione della pace, luminosamente definita da sant’Agostino (354-430) “tranquillità dell’ordine” (18). L’”ordine legittimo” è quell’ordine in cui le singole persone ordinano le proprie azioni, sia verso gli altri sia verso la comunità nel suo insieme, secondo giustizia, e in cui la comunità politica, a sua volta, ordina secondo giustizia le sue decisioni e azioni verso tutti i componenti della società.
Per comprendere, ora, per quale motivo la civiltà cristiana, secondo l’insegnamento di Corrêa de Oliveira, come ordine delle cose in cui diviene effettiva la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, è l’unico ordine veramente legittimo, occorre scendere in profondità all’esame della metafisica cristiana della giustizia e dell’ordine politico naturale.
Alberto Caturelli, nello scritto La metafisica cristiana de la justicia y el orden temporal (19), ha messo in luce la novità dell’idea cristiana di giustizia rispetto all’idea classica, come espressa mirabilmente dai sommi filosofi Platone (427-347 a. C.) e Aristotele (384-322 a.C). Esaminando in particolare l’idea di giustizia in Aristotele e segnalando il progresso enorme che la dottrina aristotelica ha apportato alla tradizione culturale dell’Occidente, per aver essa chiarito che la giustizia, fra le virtù, è l’unica che si riferisce al bene degli altri, è virtù ad alterum, ponendo, pertanto, l’armonia fra le virtù e tutte superandole e ricomprendendole, Caturelli denuncia tuttavia la radicale insufficienza dell’idea aristotelica di giustizia. Cito la spiegazione dell’illustre filosofo argentino: “Infatti la giustizia legale (relazione delle parti al tutto) dice relazione al bene comune e, fondamentalmente, ogni forma di giustizia, in quanto abito virtuoso, ordina tutti gli elementi della città al bene comune. Tuttavia Aristotele, mancando della nozione di creazione e aderendo all’idea del movimento eterno del mondo, non è in grado di trascendere il mero bene comune immanente della città; per ciò stesso gli è impossibile scoprire e affermare un fondamento metafisico del medesimo bene comune; perciò abbandona la giustizia nell’incertezza e nell’inefficacia. Non vi è [in Aristotele] motivo alcuno (trascendente il bene comune che s’identifica con la felicità intramondana) perché egli possa incontrare il senso ultimo della volontà di riconoscere e di dare a ciascuno “il suo”. Questa carenza impedisce ad Aristotele (nonostante sia implicito nella sua metafisica) di riconoscere che il suum, più specificamente proprio di ciascuno, è il suo stesso atto d’essere; se avesse fatto questo passo, avrebbe potuto riconoscere l’uguaglianza essenziale di tutti gli uomini fra loro dal momento che quanto a ciascuno è dovuto è il suo proprio atto d’essere” (20).
La vera causa di questa gravissima insufficienza dell’idea di giustizia, che lo portò a sostenere energicamente la “legittimità” della schiavitù e l’inferiorità della donna, sta, secondo Caturelli, nell’immanenza del fine che non trascende mai la felicità soggettiva, inscritta nel movimento perpetuo di tutta la realtà, concepito dentro la gabbia dei miti arcaici dell’eterno ritorno. Un passo in avanti nell’idea di giustizia venne compiuto dai giureconsulti romani che intuirono, per un lato, attraverso la risoluzione dei casi pratici, l’essenziale bilateralità della giustizia, come relatio ad alterum, e individuarono il fondamento prossimo del suum nella natura intrinseca della cosa stessa.
5. La pienezza della giustizia sul piano razionale nella società cristiana
Soltanto la demistificazione e la trasfigurazione della giustizia per opera della rivelazione cristiana ha illuminato, per un verso, il concetto della bilateralità — relatio ad alterum — della giustizia, e, per un altro verso, ha rivelato la stessa sua natura. I passaggi decisivi sul piano filosofico consistettero, secondo Caturelli, nell’idea di creazione, che ruppe il cerchio dell’eternità del movimento con l’affermazione dell’intrinseca bontà di tutto il creato, anche di quello materiale; con la focalizzazione di un termine ad quem nel dinamismo umano e con la proclamazione del valore intrinseco di ogni singola persona umana. Questi elementi portarono alla demistificazione dei miti, che erano rimasti soggiacenti anche alla più alta speculazione filosofica, e alla trasfigurazione delle verità naturali, che pervennero, grazie all’ausilio della rivelazione cristiana, alla loro completezza, anche sul piano razionale-naturale. Detto in altro modo, con le parole di Caturelli: “[…] come la grazia sana ed eleva la natura, così la verità filosofica, sanata ed elevata, realizza un progresso incommensurabile come verità naturale” (21).
Sotto l’influenza del cristianesimo fu così possibile purificare la stessa riflessione razionale sul diritto e sulla giustizia e, conseguentemente, sull’ordine politico naturale, legittimo in quanto regolato dalla giustizia nel suo triplice dinamismo delle relazioni delle parti tra loro, del tutto verso la parte e delle parti verso il tutto.
Il punto di partenza originario non è altro che “[…] la partecipazione all’ente (dunque all’uomo, che è l’unico ente visibile che ha coscienza di sé) dell’atto d’essere, in modo che ciascun ente “ha” per sé ciò che è propriamente suo, cioè l’essere” (22). Questo è il diritto originario di ciascuno, onde il primo atto di giustizia è il riconoscimento del dovuto a ciascuno, cioè il riconoscimento del suo diritto originario. Non a caso l’esperienza ci porta a riconoscere che ciascuno ha in sé, precedentemente a ogni riflessione razionale, il senso della giustizia; affiora con ciò il senso comune circa l’esistenza di un diritto essenziale ad essere, che è la conseguenza necessaria dell’atto creativo di Dio, che fa all’uomo il dono di essere.
Così la giustizia, intesa romanamente come “[…] costante e perpetua volontà di dare a ciascuno il suo” (ius suum)” (23), si realizza nei diversi ordini sul presupposto inderogabile dell’atto primo di riconoscimento del suum, che appartiene all’ordine metafisico, prima che all’ordine etico, giuridico ed economico. Come nota Caturelli, Aristotele non era fuoriuscito dal cerchio della giustizia in senso soggettivo, della giustizia come perfezione dell’azione umana a conseguire la felicità intramondana. Il suum, come oggettiva res iusta che spetta a ciascuno, rimaneva sospeso in modo indeterminato e inconcluso, perché mancava il fondamento dell’obbligo di dare a ciascuno il suum. La rivelazione cristiana apre lo sguardo della ragione su due aspetti fondamentali, mai prima di allora concepiti: per un verso, il suum spetta a ciascuno prima e indipendentemente da ogni atto deliberativo dell’uomo, ma gli spetta per dono irrevocabile di Dio, dono non negoziabile; per un altro verso, la relazione ad alterum, da cui scaturisce il rapporto fra diritto e dovere, vede la priorità logica e metafisica del dovere rispetto al diritto. Quest’ultimo, in altri termini, è la conseguenza del dovere che ciascuno ha di rispettare e promuovere il suum che è l’atto d’essere partecipato da Dio a ogni persona umana. Il dovere di religione di ciascuno verso Dio è il fondamento di ogni diritto. Ecco perché la dottrina cristiana ha sempre dato la priorità al concetto di dovere rispetto a quello di diritto: perché ogni diritto nasce dal riconoscimento del dovere verso Dio, che ha creato l’uomo e gli ha donato l’atto partecipato d’essere.
Il diritto non sorge dalla pretesa soggettiva o dall’esplicazione del potere dell’io individuale, bensì dal riconoscimento del suum che è in ogni singolo uomo. Ma questo suum originario non è concepibile senza la comunicabilità originaria dell’uomo con il suo prossimo, fondamento della orientazione ad alterum che è specifica della giustizia, secondo la proposizione di san Tommaso (1225 ca.-1274): “ex sua ratione iustitia habet quod sit ad alterum” (24).
La novità della visione cristiana, da cui sola scaturisce la vera legittimità dell’ordine politico, si coglie appieno osservando il profilo della cosiddetta giustizia legale, cioè dell’ordine delle parti nei confronti del tutto. Come rileva Caturelli, la giustizia legale naturale si chiarifica e arricchisce alla luce della metafisica cristiana; mentre nel mondo antico la giustizia riflette l’equilibrio cosmico, o s’identifica con la sapienza, o con la virtù morale che si ordina al bene soggettivo immanente alla società, nella concezione cristiana, “in virtù della donazione assoluta dell’atto d’essere (ciò che più propriamente è suo), l’atto giusto non è soltanto un mero “dare” ma la donazione della persona al bene del prossimo e, nella giustizia legale, alla donazione della persona al bene comune, che è il maggior bene del prossimo” (25). Ancora più profondamente, l’originario atto giusto, da cui deriva ogni giustizia, è e dev’essere il riconoscimento del diritto di Colui che dona l’atto d’essere, Dio, e davanti al Quale ciascuno di noi è un debitore assoluto. “Per questo motivo — osserva Caturelli — non si possono invocare i diritti naturali dell’uomo, senza riconoscere anteriormente il diritto di Dio (e i diritti di Dio), che sono il suo fondamento” (26).
La civiltà cristiana, che riconosce la regalità anche sociale di Nostro Signore Gesù Cristo, è l’unico ordine veramente legittimo, secondo l’insegnamento di Corrêa de Oliveira, perché ordina tutti gli atti della giustizia intorno al riconoscimento del diritto di Colui — il Figlio Unigenito di Dio — che non soltanto ci ha donato l’atto d’essere, ma anche, attraverso la sua incarnazione, passione, morte e risurrezione, ha riacquistato per noi la pienezza del nostro essere a immagine e somiglianza di Dio.
6. Le istituzioni legittime
Soltanto l’ordine sociale cristiano è in grado di confermare nel triplice dinamismo della giustizia il permanente riconoscersi gli uomini debitori gli uni degli altri, o nel rapporto da singolo a singolo nella giustizia commutativa, o nella partecipazione proporzionale al bene comune nella giustizia distributiva o nella donazione di sé stessi al bene comune nella giustizia cosiddetta legale.
Al detentore del potere di governo spetta il dovere di riconoscere il diritto proprio della famiglia e delle società intermedie a partecipare alla direzione della comunità politica, vuoi delle società di diritto naturale primario, come la famiglia o il municipio, vuoi delle società intermedie di secondo grado, come i sindacati, le associazioni imprenditoriali o professionali.
Corrêa de Oliveira esprime in maniera sintetica il ruolo essenziale dei corpi intermedi fra l’individuo e lo Stato per la costituzione dell’ordine politico legittimo. Nel paragrafo 3 del capitolo VII, focalizzando nell’ugualitarismo assoluto il frutto avvelenato dell’orgoglio, sottolinea la ricaduta sul piano delle istituzioni dell’ugualitarismo radicale e metafisico. Obiettivo primario della Rivoluzione è l’abolizione dei corpi intermedi, fra cui, in primo luogo, l’abolizione della famiglia, che, nella prospettiva ultima della sua estinzione, dev’essere comunque sminuita, mutilata e vilipesa in tutti i modi, affinché si realizzi “[…] quell’annullamento dell’individuo e quell’anonimato, che giungono al massimo nelle grandi concentrazioni urbane della società socialista” (27).
Lo Stato, “[…] costituito da un popolo indipendente, che esercita un dominio esclusivo su un territorio” (28), ha altresì un ruolo fondamentale nel giusto ordine politico, come istanza superiore che dirige e coordina la partecipazione distributiva di tutti al bene comune e governa l’adempimento dei doveri di ciascuno verso il medesimo bene comune.
Corrêa de Oliveira vede nel movimento verso la Repubblica Universale, ove dovrebbe essere annullata ogni sovranità statale, in una sorta d’ingiusto e utopistico ugualitarismo nell’ordine internazionale, che fonderebbe indistintamente “tutte le razze, tutti i popoli e tutti gli Stati in una sola razza, in un solo popolo e in un solo Stato” (29), un pericolo gravissimo per il bene comune, contro cui la Contro-Rivoluzione è chiamata a impegnarsi con tutta l’energia morale e politica possibile. Il sogno della Repubblica Universale — e il movimento legislativo verso la sua realizzazione — rappresenta, infatti, la contraffazione diabolica della Cristianità e, dunque del giusto ordine naturale, perché tende a sostituire le legittime autorità politiche, che rappresentano i singoli popoli e le singole nazioni storiche di fronte a Dio, allo stesso tempo rappresentando Dio di fronte ai loro popoli e nazioni ed esercitando il potere in Suo nome, con poteri anonimi e oscuri, senza alcun legame con i popoli e con i territori, che pretendono di governare i destini del mondo con la forza del denaro e con le armi della menzogna, diffusa mass-mediaticamente, e della tecnica, falsamente rappresentata come salvatrice del mondo, nell’oblio o addirittura nel disprezzo dell’unico Salvatore dell’umanità, Gesù Cristo Nostro Signore.
Senonché, l’unico rimedio contro la progressiva e apparentemente inarrestabile costruzione della Repubblica Universale è l’operoso e inflessibile impegno per l’instaurazione dell’unico ordine politico legittimo, cioè della civiltà cristiana, cioè di una nuova Cristianità. La sovranità piena di ogni nazione, come ricorda Corrêa de Oliveira, “[…] non s’oppone a che i popoli viventi nella Chiesa, formando una vasta famiglia spirituale, costituiscano, per risolvere i loro problemi sul piano internazionale, organismi profondamente impregnati di spirito cristiano […]. Tali organismi potrebbero anche favorire la collaborazione dei popoli cattolici per il bene comune in tutti i suoi aspetti” (30). La Contro-Rivoluzione, tuttavia, “[…] deve sempre far vedere la terribile lacuna costituita dalla […] laicità” (31) degli organismi internazionali operanti nel mondo contemporaneo, mettendo “[…] in guardia gli spiriti contro il rischio che questi organismi si trasformino in un germe di Repubblica Universale” (32).
Nella Cristianità — conclude magistralmente — ogni paese conserva “tutte le sane caratteristiche locali, in qualsiasi campo, nella cultura, nei costumi” (33). Ma la valorizzazione delle particolarità di ciascuno “[…] non ha il carattere di una svalutazione sistematica di quanto appartiene ad altri, né di una adorazione dei valori della patria come se fossero indipendenti dal grande insieme della civiltà cristiana.
“La grandezza che la Contro-Rivoluzione desidera per tutti i paesi è soltanto e può essere soltanto una: la grandezza cristiana, che implica la preservazione dei valori peculiari di ognuno e la convivenza fraterna fra tutti” (34).
(1) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della “fabbrica” del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009.
(2) Cfr. ibid., pp. 71-84.
(3) Cfr. ibid., pp. 71-73.
(4) Cfr. ibid., pp. 73-76.
(5) Cfr. ibid., pp. 76-84.
(6) Ibid., p. 71.
(7) Ibidem.
(8) Ibid., p. 71-72.
(9) Ibid., p. 72.
(10) Cfr. Pio XII, Radiomessaggio “La solennità della Pentecoste” nel 50° anniversario della lettera enciclica “Rerum novarum”, del 1°-6-1941, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 6, Pio XII. (1939-1958), EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1995, ed. bilingue, pp. 1336-1348 (p. 1338).
(11) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 72.
(12) Leone XIII, Epistola encyclica “Immortale Dei” de civitatum constitutione christiana, del 1°-11-1885, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 3, Leone XIII. (1878-1903), EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1997, ed. bilingue, pp. 330-375 (pp. 349 e 351).
(13) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 73.
(14) Cfr. Leone XIII, Lettre encyclique “Au milieu des sollicitudes” sur la situation de l’Église en France, del 16-2-1892, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 3, cit., pp. 692-719 (pp. 703 e 705).
(15) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 74.
(16) Ibid., p. 74.
(17) Ibidem.
(18) Sant’Agostino, De civitate Dei, libro XIX, 13, trad. it., La città di Dio, vol. III, (Libri XIX-XXII), testo latino dell’edizione maurina confrontato con il Corpus Christianorum, introduzione, traduzione e note di Domenico Gentili O.S.A. (1914-1992), indici di Franco Monteverde O.S.A., Città Nuova, Roma 1991, p. 51.
(19) Cfr. Alberto Caturelli, La metafísica cristiana de la justicia y el orden temporal, in Mikael. Revista del Seminario de Paraná, anno 11, n. 33, Paraná terzo trimestre del 1983, pp. 141-168; cfr. pure Idem, I diritti dell’uomo e il futuro dell’umanità, in Cristianità, anno XXIX, n. 307, settembre-ottobre 2001, pp. 11-18.
(20) Idem, La metafísica cristiana de la justicia y el orden temporal, cit., p. 148.
(21)Ibid., p. 149.
(22) Ibid., p. 151.
(23) Ibidem.
(24) San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa-IIae, q. 58, a. 2.
(25) A. Caturelli, La metafísica cristiana de la justicia y el orden temporal, cit., p. 156.
(26) Ibidem.
(27) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 79.
(28) Ibid., p. 80.
(29) Ibidem.
(30) Ibid., p. 139.
(31) Ibid., pp. 139-140.
(32) Ibid., p. 140.
(33) Ibidem.
(34) Ibidem.