PIETRO CANTONI, Cristianità n. 339 (2007)
Dal 9 al 14 settembre 2006 Papa Benedetto XVI ha realizzato un viaggio apostolico a Monaco di Baviera, ad Altötting e a Regensburg, Ratisbona, in Germania, «la sua terra», dove ha visitato anche, in modo quanto mai significativo, «il suo ambiente», cioè l’università. Lì infatti — prima di essere nominato arcivescovo di Monaco di Baviera nel 1977 — ha svolto il suo ministero, vivendo per lunghi anni e con tanto frutto la sua vocazione di teologo, cioè — insieme — di uomo di scienza e di uomo di fede. Con il discorso tenuto nell’aula magna dell’università di Ratisbona, davanti a tutto il corpo accademico (1), il Santo Padre ha donato al mondo un documento del quale si può parlare come di un’«altra enciclica», perché quello che lì ha detto e insegnato riveste oggettivamente un valore paragonabile soltanto alla sua prima e finora unica enciclica, Deus caritas est (2). Questa importanza è stata avvertita dagli ascoltatori più attenti del magistero pontificio, ma poi — a causa della violenta reazione del mondo islamico — è diventata patrimonio universale. Tutti hanno capito che si trattava di qualche cosa d’importante, anche se è stato un fraintendimento — almeno parziale — a procurare al discorso un’audience fuori dal comune. Si lamenta — a ragione — che il Magistero non è ascoltato e che la sua ricezione, cioè la sua accoglienza intelligente e meditata, anche all’interno della Chiesa, lascia troppo a desiderare (3). Mi sembra di poter indovinare, in questo caso, un’astuzia della Provvidenza per sottolineare ed evidenziare qualche cosa che altrimenti sarebbe scivolato via fra l’abituale e superficiale indifferenza dei più.
Intendiamoci bene: tutti ne hanno ormai percepito l’importanza, ma non tutti ne hanno percepito il vero significato. «Altra enciclica» ma anche «discorso frainteso». La maggioranza di quelli che ne hanno sentito parlare non l’hanno letto, come la quasi totalità di quelli che l’hanno frainteso e hanno gridato allo scandalo, quando non si sono abbandonati a feroci violenze. Anche chi lo ha letto non è detto che l’abbia capito, perché è un discorso profondo. Qui, più che altrove, s’impone una lettura attenta e meditata. Una lettura che non intendo affatto sostituire, ma solo provocare e facilitare.
Il tema centrale è tutto racchiuso in una frase che Papa Benedetto XVI raccoglie dalla penna di un imperatore bizantino medioevale, Manuele II Paleologo (1350 ca.-1425): «[…] non agire secondo ragione, “sýn lógô”, è contrario alla natura di Dio». L’occasione per questa decisiva affermazione del Paleologo è costituita dal dialogo da lui tenuto ad Ankara con un dotto musulmano: parlando delle «tre “Leggi” o tre “ordini di vita”», di Mosè, di Gesù e di Maometto (570 ca.-632), davanti al tentativo del suo interlocutore di presentare l’islam come il «giusto mezzo» fra le durezze dell’Antico Testamento e le «esagerazioni» del cristianesimo — verginità, povertà, amore verso i nemici, e così via —, ribatte in un modo «sorprendentemente brusco,brusco al punto da essere per noi inaccettabile», «in modo così pesante» — sono espressioni del Papa — «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava. […] Dio non si compiace del sangue — egli dice —, non agire secondo ragione, “sýn lógô”, è contrario alla natura di Dio». È evidente da tutto il contesto e dal modo stesso con cui introduce la frase che Papa Benedetto XVI non intendeva assolutamente farla sua in tutta la sua portata, ma semplicemente quanto alle parole decisive: «[…] non agire secondo ragione […] è contrario alla natura di Dio». È interessante a questo proposito leggere tutta l’argomentazione dell’imperatore, riportata dal Papa solo parzialmente: «La fede è frutto dell’anima e non del corpo. Chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno di una lingua abile e di un pensiero corretto, non della violenza, né della minaccia e neppure di qualche strumento di offesa o di terrore. Perché, come quando si deve forzare una natura irrazionale non avrebbe senso ricorrere alla persuasione, così per persuadere un’anima razionale non ha senso ricorrere alla forza del braccio, né alla frusta, né ad alcun’altra minaccia di morte» (4). Se il Pontefice non è d’accordo con il giudizio drastico e indifferenziato su tutta quanta l’opera del fondatore dell’islam — «soltanto delle cose cattive e disumane» —, che forse va al di là anche di quello che lo stesso Manuele intendeva veramente dire, tuttavia è d’accordo su un punto: la guerra è vista dall’islam come uno strumento voluto da Dio per la sua espansione e questo pone seriamente il problema del rapporto violenza-religione e — soprattutto — del rapporto fra Dio e l’uso di ragione. Molti giornalisti di casa nostra — improvvisatisi islamologi — si sono permessi d’insegnare al Papa che il termine jihad, tradotto correntemente con «guerra santa», in realtà vuol solo dire «sforzo spirituale», «guerra interiore», e indica perciò qualche cosa di assolutamente pacifico. Basterebbe però consultare anche soltanto un qualunque vocabolario di arabo, per non parlare della letteratura specialistica, per esempio la prestigiosa Encyclopédie de l’Islam (5), per rendersi conto di quanto questo tentativo di trasformare i propri desideri in realtà sia patetico e dannoso ai fini di un dialogo autentico. Nel 2005, uno studioso statunitense, David Cook, ha riesaminato a fondo il concetto e la sua storia, dimostrando che — nell’amplissima raccolta di fonti antiche e moderne da lui prese in considerazione — jihad ha il senso di «guerra esteriore» nella stragrande maggioranza dei casi (6). La reazione stessa di gran parte del mondo islamico ne è stata la più impressionante ed evidente conferma, tanto che uno dei più diffusi settimanali marocchini, Perspectives du Maghreb, è uscito con questo titolo: Et si le Pape avait raison, «E se il Papa avesse ragione» (7).
L’obiettivo primario di Papa Benedetto XVI non era però quello di mettere in guardia l’Occidente contro i pericoli del jihad islamico, ma di fargli prendere coscienza di un rischio ancora più grave, che viene dal suo stesso interno: quello di smarrire la stretta relazione che la ragione intrattiene con la sua storia e in particolare con la sua storia religiosa, che è storia cristiana. Oggi nel mondo cosiddetto laico — meglio sarebbe dire laicista — la ragione, quando è applicata ai grandi problemi dell’uomo, quando s’interroga sul senso della vita e dell’essere stesso, cioè quando diventa «metafisica», è vista con sospetto e decisa ostilità. La ragione trova ormai il suo ambito proprio e riconosciuto solo nel campo del «fattibile», cioè nel dominio della tecnica. L’ambito del senso della vita e dell’essere e quello della morale è relegato nella sfera privata delle scelte soggettive dove un autentico confronto razionale che voglia pervenire a verità da tutti riconoscibili non ha più senso. Questa mentalità è penetrata però anche nella sfera religiosa, dove la ragione è percepita come un ostacolo alla fede: la fede da sola, senza bisogno d’interrogarsi e di verificarsi con l’aiuto della ragione metafisica, è più che sufficiente per fondare la vita del singolo credente e della comunità in cui vive. La ragione in Occidente sembra ridursi solo all’arte di costruire automobili sempre più potenti e computer sempre più efficienti e non teme ormai di avventurarsi — senza nessuna remora etica — nel campo del controllo e della manipolazione della vita umana. Un’abilità crescente nel costruire mezzi va di pari passo alla rinuncia pregiudiziale a indagare sui fini, cioè sul «perché» e quindi sul «come» usare tali mezzi. A questa rinuncia spesso dà man forte il teologo che si compiace di sottolineare a ogni piè sospinto quanto la fede si contrapponga al pensiero metafisico e ontologico, e viceversa.
Il pensiero occidentale, ammirato per le sue prestazioni tecniche, spaventa i popoli dell’Asia e dell’Africa — aveva detto il Papa a Monaco qualche giorno prima — perché «[…] esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo» (8) e non è certamente convincente al fine di ricondurre l’islam a un rinnovato matrimonio con la ragione.
Il Papa traccia magistralmente le grandi linee del processo che ha condotto l’Occidente ad allontanarsi dalla ragione metafisica. Esso si produce attraverso un movimento di «deellenizzazione del cristianesimo» che il Pontefice scandisce in tre tappe: tre «ondate», Wellen. La prima è costituita dal pensiero della Riforma protestante, che vede nel metodo scolastico della tradizione medioevale una sovrapposizione della filosofia alla purezza della parola di Dio, una «determinazione della fede dall’esterno» estranea alla fede stessa e che le impedisce di essere autenticamente sé stessa. Il filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant (1724-1804) asseconda questo indirizzo e lo estremizza con una critica radicale alla metafisica mediante la quale si ripropone di «accantonare il pensare per far spazio alla fede». La seconda ondata è costituita dalla teologia liberale dei secoli XIX e XX, il cui rappresentante tipico è lo storico e teologo protestante tedesco Adolf von Harnack (1851-1930), che, accostandosi a Gesù Cristo con una ragione ormai divenuta refrattaria all’invisibile e al trascendente, lo riconsegna spogliato della divinità — e quindi della fede nella Trinità — e ridotto a maestro di morale. La terza, quella che stiamo vivendo oggi, insiste nel vedere la sintesi tra cristianesimo ed ellenismo verificatasi nella Chiesa antica come «[…] una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture». Con questa lettura «grossolana ed imprecisa» lo stretto rapporto della fede con la ragione avvenuto attraverso l’incontro con la filosofia greca diventa un evento casuale, un approccio culturale che si allinea con altri senza che sia possibile nessun giudizio di valore su di essi. Una specie di optional che tale deve rimanere, rinchiuso cioè nel suo stato di scelta non vincolante.
Ma — dice con forza il Papa e questo è il cuore del suo messaggio — non è così: «[…] non agire secondo ragione, “sýn lógô”, è contrario alla natura di Dio» e, quindi, è anche contrario al cristianesimo, la religione del Logos fatto carne. «L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr. At. 16, 6-10) — questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco».
La Bibbia stessa, se letta in profondità, parla di un intimo rapporto fra fede e ragione. Giovanni apre il suo Vangelo riprendendo — e modificando — le prime parole della Genesi: «In principio era il Logos» (Gv. 1, 1). Questo Logos — «parola», «ragione», «significato», «senso»… — è luce, «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv. 1, 9). Il nome che Dio rivela a Mosè come il suo nome proprio (cfr. Es. 3, 14) non è un nome «locale», cioè legato a una determinata cultura o regione, né un nome ripreso da un determinato attributo di Dio — come, per esempio, Baal, «Signore», o Moloch, «re» — ma fa riferimento a qualche cosa di universale, che trascende e comprende tutti i luoghi, include tutti gli attributi di perfezione ed è quindi in grado di raggiungere tutte le culture: «Io-Sono» (Es. 3, 14). E a partire da questa parola, dall’apparenza insignificante e persino banale, si sviluppa tutta quanta la metafisica cristiana dell’essere (9). Dio è certamente misterioso e quindi trascendente la ragione dell’uomo, ma il mistero di Dio non nasce da una sua estraneità alla ragione, alla «luce che illumina ogni uomo», ma è piuttosto conseguenza del suo essere troppo luminoso per i deboli occhi della creatura, come gli occhi della nottola a contatto della luce del sole, secondo il noto esempio di Aristotele (384-322 a.C.) (10).
Il Papa riprende, dal curatore del dialogo di Manuele Paleologo, una significativa posizione di un teologo musulmano del secolo XI, Ibn Éazm di Cordova (994-1064), secondo cui «[…] Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria». Si tratta di una tesi certamente «estrema» (11), che «tuttavia sottolinea un carattere profondo dell’islam» (12) ed esprime a suo modo la stessa relazione problematica con la ragione: la trascendenza di Dio viene affermata con una veemenza tale da concepire un Dio che trascende anche la ragione stessa. Lo stesso modo d’interpretare il testo sacro, che costituisce in sé stesso «un assoluto per l’uomo» (13), risente pesantemente di questa visione teologica; infatti, una delle regole più importanti dell’esegesi coranica è quella detta del «[versetto] abrogante e abrogato», al-nâsikh wal-mansûkh (14), per cui un versetto che viene cronologicamente dopo abroga quello precedente. Quanti problemi di esegesi biblica sarebbero risolti con apparente facilità usando questo approccio volontaristico! Quante cruces theologorum si dissolverebbero come d’incanto! Ma ciò avverrebbe a ben caro prezzo… Vorrebbe dire concepire un agire di Dio la cui volontà va oltre ogni ragione, lasciando però, al tempo stesso, in balia dell’irrazionalità tutta quanta la sua opera: natura e storia, uomo e religione. Certamente Ibn Éazm intendeva salvaguardare un bene prezioso: la trascendenza e il mistero di Dio, ma confondeva la superiorità di Dio rispetto alla ragione dell’uomo, con il rapporto che Dio intrattiene con la ragione in quanto tale. Ora un Dio creatore può essere solo la sorgente di ogni razionalità e quindi Ragione in senso pieno e sorgivo. Per un cristiano si tratta di un indiscutibile dato rivelato: «In principio era il Logos [cioè si potrebbe anche dire «la Ragione»] […] e il Logos era Dio» (Gv. 1, 1), che però diventa pure una, anch’essa indiscutibile, conclusione razionale. Il mondo, infatti, è creato da Dio liberamente, e liberamente da lui salvato, perché, se da lui procedesse per necessità, per una qualche necessaria «emanazione», si avrebbe l’assurdo di un mondo necessario e di un Dio che non può stare senza il mondo. Un Assoluto — solutus ab — dipendente da qualcosa al di fuori di lui, un «indipendente» «dipendente». Allora sì che la divina trascendenza risulterebbe irrimediabilmente compromessa! Dio è dunque libero, ma non vi può essere atto libero senza consapevolezza e quindi senza intelligenza. Se poi Dio fosse irrazionale, allora tutto sarebbe irrazionale e non avrebbe senso nessuna riflessione, nessun argomento, nessun linguaggio e neppure una rivelazione.
Il pensiero teologico e filosofico cristiano ha salvaguardato, nei suoi momenti migliori e più autentici, questo importante principio della razionalità o intelligibilità di tutto l’essere — ens et verum convertuntur —, componendolo con l’altro fondamentale principio della misteriosità di Dio. Infatti la luce della mente è da considerarsi null’altro che una partecipazione della Luce increata di Dio. «Lo spirito dell’uomo è una fiaccola del Signore» (Pr. 20, 27). Con questa luce l’uomo può elevarsi, usando dell’analogia (cfr. Sap. 13, 5), fino al mistero di Dio senza mai però poterlo cogliere del tutto. Secondo sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109) la ragione umana «[…] rationabiliter comprehendit [Deum] incomprehensibile esse» (15), «comprende razionalmente che Dio è incomprensibile»; e a lui fa eco san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274): «[…] il nostro intelletto, nello stato della vita presente, può in qualche modo conoscere anche la natura di Dio, non in modo da sapere di essa che cosa sia, ma soltanto che cosa non sia» (16).
Nella nota 7 del documento Papa Benedetto XVI si affretta ad aggiungere che questo modo di vedere non è estraneo anche al pensiero occidentale, già a partire dal Medioevo, evidenziando così quale sia il principale interlocutore del suo discorrere. Un modo di considerare le cose che ha prodotto anch’esso — in ossequio alla ferrea legge dello sviluppo delle idee nella storia al di là delle intenzioni — un’esegesi religiosa aberrante, quella che, per esempio, abbiamo tutti visto all’opera immediatamente dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), per cui «Papa scaccia Papa» e «concilio scaccia concilio». Un’improvvida e inaspettata applicazione del principio al-nâsikh wal-mansûkh contro cui Papa Benedetto XVI ha messo in guardia come disastrosa «ermeneutica della discontinuità e della rottura» (17).
Il commiato dalla ragione metafisica però ha anche altre conseguenze, che toccano dal vivo il problema della coesistenza di prospettive religiose diverse nel mondo «globalizzato» in cui ci troviamo. Esso, infatti, configura una pericolosissima patologia del fatto religioso che lo espone al sentimentalismo, al particolarismo, al settarismo e, in definitiva, alla violenza. Per lo studioso rumeno Mircea Eliade (1907-1986), forse il più grande storico delle religioni del secolo XX, la religione — il «sacro» — non è uno stadio nella storia della coscienza umana e, dunque, solo uno dei tanti possibili contenuti di questa coscienza, ma una sua struttura fondamentale (18), a cui fanno necessariamente riferimento le passioni più nascoste e potenti che albergano nel cuore dell’uomo: che ne sarà di esse se lasciate in balía dell’irrazionale? È una possibile deriva che minaccia tutte le religioni, anche la religione — perché di religione si tratta — del laicismo relativista. Anzi, questa più di tutte le altre, perché essa scaturisce proprio dal programmatico rifiuto dell’uso metafisico della ragione.
Il cristiano non può rassegnarsi a vivere la sua fede nel privato come se fosse una cosa sua, a cui gli altri sono estranei, all’insegna del «ciascuno ha la sua verità e quindi la sua religione», perché la missione gli compete strutturalmente: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt. 28, 19-20).
D’altra parte, se il cristianesimo è per sua natura missionario, come concepire l’evangelizzazione di chi non condivide la fede? L’unica alternativa alla testimonianza e alla persuasione, le forme originarie della prima evangelizzazione che si esprimono emblematicamente nelle figure del martire e dell’apologeta, è solo la violenza. Voler però convincere con la violenza un essere ragionevole è contrario alla ragione e «[…] non agire secondo ragione, “sýn lógô”, è contrario alla natura di Dio».
Don Pietro Cantoni
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(1) Cfr. Benedetto XVI, Discorso «Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni» in occasione dell’Incontro con i Rappresentatnti della Scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, del 12-9-2006, anticipato in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 14-9-2006; poi, il 9-10-2006 e in stesura definitiva e annotata, sul sito della Santa Sede, < www.vatican.va/holy_ father/benedict_xvi/speeches/2006/sept ember/documents/hf_benxvi_spe_20060912_ univer sity-regensburg_it.html> ; tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo documento.
(2) Cfr. Idem, Enciclica «Deus caritas est» sull’amore cristiano, del 25-12-2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. I, pp. 1090-1125.
(3) Cfr. mons. Angelo Amato S.D.B., arcivescovo titolare di Sila, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, La presentazione del Magistero della Chiesa nel mondo dei «media», in Cristianità, anno XXXIV, n. 335, maggio-giugno 2006, pp. 3-10; cfr. pure Giovanni Cantoni, Per una corretta recezione del Magistero, contro il «nominalismo mediatico», ibid., anno XXXII, n. 322, marzo-aprile 2004, pp. 3-4.
(4) Manuel II Paléologue, Entretiens avec un musulman. 7e Controverse, trad. francese con testo critico, Introduction e Notes a cura di padre Théodore Khoury, Les Editions du Cerf, Parigi 1966, p. 145.
(5) Cfr. Encyclopédie de l’Islam, nuova ed. a cura di Clifford Edmund Bosworth, Emeri Johannes van Donzel, Wolfhart P. Heinrichs e Charles Pellat (1914-1992) con la collaborazione dei principali orientalisti e con il patrocinio dell’Union Académique Internationale, E. J. Brill-Éditions G.-P. Maisonneuve & Larose S.A., Leida-New York-Parigi, dal 1960.
(6) Cfr. David Cook, Understanding Jihad, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Londra 2005.
(7) Cfr. Massimo Introvigne, Uccidono i cristiani e l’Occidente tace, in il Giornale, Milano 17-10-2006; e Idem, Gelo turco sul viaggio del Papa, intervista a cura di Carlo Silini, in Corriere del Ticino, Lugano 3-11-2006.
(8) Cfr. Benedetto XVI, Omelia durante la Celebrazione Eucaristica sulla spianata della «Neue Messe» di Monaco di Baviera, del 10-9-2006, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 11/12-9-2006.
(9) Cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo Apostolico, trad. it., Queriniana, Brescia 1969, pp. 79-97.
(10) Cfr. Aristotele, Metafisica, libro secondo, 993 b 9-11, trad. it. con saggio introduttivo, testo greco con traduzione a fronte e commentario a cura di Giovanni Reale, ed. maggiore rinnovata, vol. II, Testo greco con traduzione a fronte, Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 71.
(11) Roger Arnaldez (1911-2006), Grammaire et théologie chez Ibn Éazm de Cordoue. Essai sur la structure et les conditions de la pensée musulmane, 1956, Vrin, Parigi 1981, p. 13.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem.
(14) Cfr. John Burton, Naskh, in Encyclopédie de l’Islam, cit., tome VII, mif-naz, 1993, pp. 1011-1014 (p. 1011).
(15) Sant’Anselmo d’Aosta, Monologion, LXIV, trad. it. con testo latino a fronte e con Introduzione, Note e Apparati a cura di Italo Sciuto, Rusconi, Milano 1995, p. 200.
(16) San Tommaso d’Aquino, Sulla verità, q. 10 a. 11 ad 5, trad. it. con testo latino a fronte e con Introduzione, Note e Apparati a cura di Fernando Fiorentino, Bompiani, Milano 2005, p. 847.
(17) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. I, pp. 1018-1032 (p. 1024).
(18) Cfr. Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose. Dall’età della pietra ai misteri eleusini, 1976, trad. it., vol. I, BUR, Milano 2006, p. 7.