di Silvia Scaranari
Cinquant’anni fa, il 25 luglio, nella festa dell’apostolo san Giacomo, veniva firmata dal Beato Paolo VI l’enciclica Humanae Vitae, uno dei testi più significativi di quel fatidico ’68 che tanto ha segnato tutto il mondo occidentale.
Il Pontefice aveva di fronte a sé – e la storia si ripete oggi – un mondo che stava velocemente cambiando, così portando alla luce problemi prima mai visti: l’esponenziale crescita demografica, le difficoltà per i giovani di trovare alloggio e lavoro soprattutto in Europa, le nuove esigenze sia economiche che di crescita culturale, la mutata concezione del ruolo della donna, le nuove potenzialità della scienza e della tecnica stavano trasformando la famiglia e ponendo nuove domande sulle tradizionali norme etiche.
La Chiesa ha sempre ribadito la sua competenza nell’orientare l’amore umano verso una piena realizzazione della persona alla luce dell’amore di Dio verso gli uomini. L’amore umano non ha solo una dimensione individuale, non è soltanto il raggiungimento di una soddisfazione personale ma, aprendosi a diventare famiglia, assume una dimensione sociale e ancor più «la capacità di generare della coppia umana è la via attraverso la quale si sviluppa la storia della salvezza». (Papa Francesco, esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia del 2016, n. 11). L’amore fecondo fra due persone «diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente» (idem, n. 11). Infatti come ha detto san Giovanni Paolo II: «Il nostro Dio, nel suo mistero più intimo, non è solitudine, bensì una famiglia, dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Questo amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo» (Omelia nella Messa a Puebla de los Ángeles, Messico, 28 gennaio 1979) e san Paolo aveva messo in relazione l’amore fra un uomo e una donna con il “mistero” dell’unione tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5, 21-33).
La famiglia è quindi immagine di Dio, che è comunione di persone, e come scrive Papa Francesco «il sacramento del matrimonio non è una convenzione sociale, un rito vuoto o il mero segno esterno di un impegno. Il sacramento è un dono per la santificazione e la salvezza degli sposi, perché «la loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la Chiesa. Gli sposi sono pertanto il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla Croce; sono l’uno per l’altra, e per i figli, testimoni della salvezza, di cui il sacramento li rende partecipi» (Amoris laetitia, n. 72, che cita l’esortazione apostolica papa di san Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 13).
Nell’Humanae vitae Paolo VI rivela di aver ricevuto pressioni da più parti e di avere con grande attenzione esaminato le conclusioni a cui era pervenuta una commissione di studio costituita già da san Giovanni XXIII sulle sfide poste alla famiglia dalla modernità, ma di non averle accolte in quanto alcuni criteri «si distaccavano dalla morale sul matrimonio proposta con costante fermezza dal Magistero della Chiesa» (Humanae Vitae n. 6).
La morale proposta dalla Chiesa, sottolinea il Pontefice, nasce dal desiderio di salvaguardare una visione integrale della persona partendo dalla certezza che il matrimonio non è frutto di opinioni personali ma «è una sapiente istituzione del Creatore» e in questa prospettiva l’amore coniugale è un amore pienamente umano in quanto non frutto del caso, ma atto libero della volontà guidata dalla ragione, è un dono e una condivisione senza riserve, è fedele ed esclusivo fino alla morte ed è fecondo.
La fecondità diventa un tema chiave nel documento pontificio come in tanti altri interventi dei pontefici successivi fino a Papa Francesco che nell’esortazione apostolica Amoris laetitia scrive «Nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società» (n. 52).
L’Humanae Vitae sottolinea quanto sia importante la paternità/maternità responsabile, ma anche come questa debba essere rettamente intesa come conoscenza e rispetto dei processi biologici, come dominio della ragione e della volontà sulle tendenze dell’istinto, come sincera e seria riflessione sulle proprie condizioni economiche e soprattutto come consapevolezza che nel matrimonio esiste una «connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (n.12). Ogni atto coniugale deve essere aperto alla procreazione e quindi è assolutamente da escludere ogni forma di aborto ed ogni forma di sterilizzazione, sia perpetua sia temporanea, sia dell’uomo che della donna.
Deve essere esclusa anche «ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, e nello sviluppo delle sue conseguenze naturali si proponga, come scopo o come mezzo, di rendere impossibile la procreazione» (Humanae Vitae, n. 14). Cosa diversa, ovviamente, è l’uso di mezzi atti alla cura di situazioni patologiche anche qualora questi dovessero essere di impedimento alla procreazione. Riprendendo l’insegnamento di Pio XII, il beato Paolo VI parla anche di “metodi naturali” che rispettano i periodi della fecondità femminile, distinguendo con attenzione tra liceità del fine (evitare una gravidanza a fronte di gravi motivazioni) e liceità dei mezzi. Se ritardare o evitare una gravidanza può essere un fine lecito in certe situazioni (non sempre e non per un desiderio personale ma per seri motivi), non per questo lo sono tutti i mezzi, esattamente come il desiderio di avere una società giusta non rende lecito il terrorismo come strumento per realizzarla.
Il Pontefice nella parte conclusiva pone seria attenzione alla necessità di un’azione di formazione e di educazione soprattutto dei giovani, consapevole che l’insegnamento della Chiesa può sembrare duro se non rettamente inteso. E’ urgente creare «un clima favorevole all’educazione della castità, cioè al trionfo della sana libertà sulla licenza, mediante il rispetto dell’ordine morale» (Humanae Vitae, n. 22) e soprattutto è necessario che sacerdoti, vescovi, teologi «si attengano al Magistero della Chiesa e parlino uno stesso linguaggio» (n. 28), poiché «non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime» in quanto «l’uomo non può trovare la vera felicità – alla quale aspira con tutto il suo essere – se non nel rispetto delle leggi scritte da Dio nella sua natura» (n. 29).
Mercoledì, 25 luglio 2018