Testo della lezione tenuta il 14-1-1997 all’Università di Torino per la chiusura del corso semestrale di Sociologia delle Religioni della facoltà di Scienze Politiche, rielaborato dall’autore.
MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 264 (1997).
Introduzione
Fra il 18 e il 19 novembre 1978 a Jonestown, nella giungla della Guyana, oltre novecento seguaci del Tempio del Popolo, un movimento fondato e diretto da James Warren “Jim” Jones (1931-1978), trovarono la morte, in parte suicidi con il veleno, in parte uccisi dai loro correligionari. Questo avvenimento suscitò un’enorme impressione negli Stati Uniti d’America. Gli ambienti anti-sette — che considerano i nuovi movimenti religiosi in genere come realtà pericolose e nocive — ne approfittarono per scatenare una campagna mediatica e giudiziaria contro quelli che chiamavano “culti” o “sette”, che mantenne una notevole intensità per quasi quindici anni (1). Fra il 4 e il 5 ottobre 1994 cinquantatré persone che facevano parte dell’Ordine del Tempio Solare furono trovate morte nel Québec e in Svizzera; il suicidio-omicidio fu ripetuto un anno dopo, il 23 dicembre 1995, con sedici morti, nel Vercors, in Francia. Altri cinque membri del Tempio Solare sono morti in un terzo episodio che si è verificato a St.-Casimir, nel Québec, nel marzo del 1997. La tragedia del Tempio Solare ha avuto — sedici anni dopo — un ruolo paragonabile in Europa a quella di Jonestown negli Stati Uniti d’America. Le campagne dei movimenti anti-sette si sono intensificate e hanno coinvolto parlamenti e governi, producendo un discusso e discutibile rapporto parlamentare in Francia (2), la creazione nello stesso paese — insieme ad altre misure — di un “Osservatorio” permanente, commissioni parlamentari simili a quella francese in Germania e altrove, e la pubblicazione di opuscoli chiaramente ispirati all’atteggiamento e alla mentalità anti-sette da parte di agenzie governative in diversi paesi europei. L’elenco delle iniziative — anche a livello comunitario — potrebbe facilmente continuare. Infine, nella mattinata del 20 marzo 1995 cinque bombe chimiche sono esplose nella metropolitana di Tokyo diffondendo gas nervino che ha causato in pochi minuti dieci morti e oltre cinquemila feriti. Un gruppo di dirigenti e di membri del nuovo movimento religioso Aum Shinri-kyo è stato accusato dell’attentato. L’episodio ha avuto in Giappone — paese dove le campagne anti-sette erano già particolarmente virulente — un ruolo ancora più cruciale e drammatico rispetto ai fatti che hanno interessato il Tempio del Popolo in Guyana e il Tempio Solare in Europa. L’autentica “caccia alle sette” che si è scatenata in Giappone ha superato nelle sue proporzioni qualunque precedente americano ed europeo. Ne hanno fatto le spese particolarmente gli specialisti universitari di nuovi movimenti religiosi, accusati di essere “amici delle sette” e sottoposti in qualche caso a forme di autentica persecuzione.
I tre episodi hanno certamente qualche cosa in comune. In tutti e tre i casi vi è, anzitutto, un nuovo movimento religioso che — senza estendere, evidentemente, il giudizio di valore negativo a tutti i singoli membri — conta fra i suoi dirigenti personaggi che è perfettamente legittimo definire criminali e assassini. In tutti e tre i casi si tratta di gruppi atipici, in cui non si riscontrano le caratteristiche più comuni della maggioranza dei nuovi movimenti religiosi, anche controversi. Il Tempio del Popolo — che, anzitutto, non era un nuovo movimento religioso autonomo ma un gruppo attivo all’interno di una rispettata denominazione protestante, i Discepoli di Cristo — aveva caratteristiche più politiche che religiose. Secondo il suo maggiore studioso, il professor John R. Hall, era così “congelato in un orientamento leninista-stalinista” (3), in un accostamento “stalinista al bolscevismo” (4), da potere essere definito “un inganno fondato sull’uso della religione per promuovere il socialismo” (5). L’Ordine del Tempio Solare era un’organizzazione iniziatica, composta in gran parte da persone dell’alta e dell’altissima borghesia, che univa al mito della prosecuzione segreta dell’Ordine del Tempio una prospettiva apocalittica che negli ambienti iniziatici non è consueta. La sua composizione sociale — di livello alto, e talora altissimo — non è, a sua volta, certamente abituale nei nuovi movimenti religiosi (6). Quanto alla Aum Shinri-kyo — di cui, è bene ricordarlo, meno di un centinaio di membri su oltre diecimila sono accusati di essere stati al corrente delle attività criminali di una parte della dirigenza — il coinvolgimento di alcuni dirigenti nel traffico di droga e nella violenza organizzata rappresenta un unicum. Nessuna delle altre numerosissime nuove religioni giapponesi è mai stata, in nessun modo, coinvolta da accuse di questo genere (7). In tutti e tre i casi la natura palesemente atipica dei movimenti coinvolti è stata trasformata, in certe presentazioni all’opinione pubblica, in un presunto carattere tipico, come se si trattasse di esempi caratteristici di “setta” o di “culto”. I movimenti anti-sette — che, naturalmente, esistevano già prima di queste tragedie — hanno sfruttato gli avvenimenti per i loro fini (8). Negli Stati Uniti d’America la grande campagna anti-sette iniziata dopo Jonestown si è lentamente esaurita, e ha oggi perduto vigore, anche se non è certamente scomparsa. Di fatto, l’episodio di Waco del 1993 non ha rilanciato il movimento anti-sette. Il dibattito si è piuttosto concentrato sugli errori e sulle responsabilità delle agenzie governative, che hanno contribuito a determinare la tragedia. Oggi il movimento anti-sette degli Stati Uniti d’America appare così profondamente in crisi che un suo rilancio dopo il suicidio del movimento Heaven’s Gate a Rancho Santa Fe, in California, nel marzo del 1997, appare possibile ma non probabile. Trascurando il Giappone — dove sono peraltro in atto processi che possono solo preoccupare chiunque abbia a cuore la libertà religiosa — non è certo che in Europa il fervore anti-sette finirà per spegnersi lentamente come è avvenuto negli Stati Uniti d’America. La problematica relativa alle cosiddette “sette” — un termine largamente dispregiativo, e come tale pressoché abbandonato nel linguaggio universitario che preferisce parlare di “nuovi movimenti religiosi” o di “minoranze religiose” (9) — si collega infatti a questioni di carattere etico, politico e filosofico che sono fra le più importanti dei nostri giorni. Non è retorico affermare che si tratta di problemi da cui dipende in ampia misura il futuro stesso della libertà in Europa. Su questi problemi — più che su casi o su episodi specifici — vorrei soffermarmi in questa sede, esaminando tre “dimensioni” della libertà e i rischi da cui ciascuna è minacciata.
1. La libertà religiosa e l’equivoco dell’”ordine pubblico”
Con l’esclusione dei pochi Stati comunisti superstiti, e dei più numerosi Stati islamici, il modello di Stato cui oggi ci troviamo di fronte è quello laico moderno. Questo Stato non è confessionale e riconosce la libertà religiosa, del resto consacrata nelle varie dichiarazioni internazionali dei diritti dell’uomo. È evidente a tutti che la libertà religiosa non può essere senza limiti. Se, in nome della libertà religiosa, qualcuno proponesse di restaurare una delle religioni precolombiane fondate sul sacrificio umano, e cominciasse a reclutare vittime involontarie — o anche volontarie — per sacrificarle in piazza, ben pochi giustificherebbero le sue azioni (10). Stabilito che la libertà religiosa non è priva di limiti, occorre chiedersi in base a quali parametri questi limiti devono essere determinati. Il problema non è banale, e diverse posizioni si contrappongono. Secondo il positivismo giuridico classico la libertà religiosa troverebbe il suo limite nell’”ordine pubblico”. Questa posizione trova eco nelle recenti controversie in materia di “sette”, e le “turbative all’ordine pubblico” sono uno dei criteri che — secondo il citato rapporto parlamentare francese — permetterebbero di distinguere le “sette”, pericolose, dalle normali organizzazioni religiose, non pericolose (11). Affermare che la libertà religiosa trova il suo limite nell’ordine pubblico può apparire ragionevole, ma è in realtà assolutamente inaccettabile. Infatti, anche se non mancano tentativi di proporre definizioni diverse — ma spesso piuttosto vaghe — dell’ordine pubblico, la definizione più corrente fa riferimento all’insieme delle leggi dello Stato, particolarmente di natura penale e amministrativa, o ai princìpi generali che se ne ricavano. Affermare che la libertà religiosa trova il suo limite nell’ordine pubblico equivale, così, a sostenere che i limiti sono quelli delle leggi in vigore. Da questo punto di vista anche Nerone, Hitler o Stalin avrebbero potuto facilmente dichiarare il loro pieno rispetto per la libertà religiosa. Nerone, infatti, non impediva ai cristiani di pensare quello che volevano. Colpiva solo — severamente — le manifestazioni esteriori del culto, e altri gesti — come il rifiuto di venerare l’imperatore — che costituivano, precisamente, violazioni delle leggi in vigore. Non sarebbe sufficiente osservare che Nerone, Stalin e Hitler erano alla testa di regimi non democratici, mentre quello che oggi si invoca è un “ordine pubblico” inteso come insieme di leggi vigenti in regime di democrazia. La democrazia, di per sé, non garantisce che tutte le leggi siano giuste e rispettose delle libertà fondamentali. Ha affermato in un importante discorso del 1996 Papa Giovanni Paolo II: “Da una parte il progresso delle libertà democratiche ha portato a una nuova affermazione dei diritti umani, codificati in importanti dichiarazioni e accordi internazionali; dall’altra, quando la libertà è avulsa dai princìpi morali che governano la giustizia e rivelano che cosa sia il bene comune, la democrazia stessa viene minata e diventa lo strumento attraverso il quale i forti impongono la loro volontà ai deboli, come vediamo accadere sempre più intorno a noi” (12).
Giustamente, pertanto, il recente Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 2109, rifiuta il parametro dell’“ordine pubblico” per definire i limiti della libertà religiosa. “Il diritto alla libertà religiosa — secondo il Catechismo — non può essere […] limitato semplicemente da un “ordine pubblico” concepito secondo un criterio positivista o naturalista” (13). Naturalmente, rimane aperta la possibilità di un “ordine pubblico” concepito secondo un criterio che non sia né “positivista” né “naturalista”: ma, precisamente, il positivismo e il naturalismo dominano gran parte del dibattito giuridico in materia in numerosi paesi. Se, nella dialettica fra la libertà religiosa e quelli che anche la dottrina sociale cattolica chiama i suoi “giusti limiti” (14), i secondi sono rappresentati dall’”ordine pubblico”, il futuro della libertà religiosa è, per dire il meno, incerto. A poco a poco — tanto più in un clima sociale caratterizzato dalla presenza di forze ostili alla religione — l’”ordine pubblico” erode la libertà religiosa, trasformandola in un fantasma senza corpo e senza consistenza. Contro il positivismo giuridico, si deve affermare che la libertà religiosa non è un semplice “residuo” circoscritto dalla legislazione in vigore, ma è uno dei princìpi fondamentali e non negoziabili, che le norme devono rispettare per essere autentiche leggi e non forme di ingiustizia legalizzata.
Idealmente — secondo i princìpi della dottrina sociale cattolica — i “giusti limiti” della libertà religiosa dovrebbero essere desunti non dall’”ordine pubblico”, ma piuttosto “determinati per ogni situazione sociale con la prudenza politica, secondo le esigenze del bene comune, e ratificati dall’autorità civile secondo “norme giuridiche conformi all’ordine morale oggettivo” [Conc. Ecum. Vat. II, Dignitatis Humanae, 7]“ (15). È difficile che i parametri del “bene comune” e dell’“ordine morale oggettivo” trovino nella società contemporanea un grado sufficiente di consenso sociale per tradursi in norme giuridiche. Tuttavia — anche senza l’esplicito riconoscimento dell’“ordine morale oggettivo”, che rimane comunque un ideale che chi si ispira alla dottrina sociale cristiana ha il dovere di ribadire — alla trappola dell’”ordine pubblico” è possibile almeno tentare di sfuggire.
L’esperienza giuridica americana — certamente più ricca di quella europea in materia di libertà religiosa — offre, da questo punto di vista, un esempio interessante. Dalla seconda guerra mondiale ai primi anni 1970 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America elaborò lentamente il principio del compelling interest, dell’”interesse imperativo” dello Stato. Il Governo può limitare l’esercizio della libertà religiosa soltanto quando ha un “interesse imperativo” a farlo, e quando tale interesse non può essere soddisfatto attraverso alternative ragionevoli. La definizione più importante del compelling interest è contenuta nella sentenza Sherbert del 1963 (16). In essa la Corte Suprema confermò il diritto di una donna avventista del Settimo Giorno di ricevere il sussidio di disoccupazione, nonostante le fossero stati offerti diversi impieghi che però l’avrebbero obbligata a lavorare di sabato, pratica vietata dalla sua fede. In questo caso la Corte Suprema ritenne che non vi fosse nessun “interesse imperativo” dello Stato a non pagare il sussidio di disoccupazione a chi rifiuta particolari lavori in base a un’interpretazione ragionevole della propria fede religiosa. Si noti, per inciso, che la sentenza Sherbert mostra come anche i tribunali non utilizzino la rigida separazione fra creed e deed, fra “credenza” e “comportamento” che, sulla scia di vecchie concezioni positivistiche, caratterizza l’ideologia dei movimenti anti-sette. Secondo questa ideologia il comportamento, deed, potrebbe essere analizzato prescindendo totalmente dalla credenza, creed. Tornerò sull’infondatezza di questa tesi nel paragrafo successivo. Per il momento, è sufficiente notare che già nella sentenza Sherbert questa presunta separazione non viene applicata. Chi rifiuta impieghi che obbligano a lavorare di sabato semplicemente perché la vigilia della domenica è un giorno che preferisce dedicare ad attività più piacevoli perde, secondo la legge, il sussidio di disoccupazione. Ma chi rifiuta gli stessi impieghi perché è un avventista del Settimo Giorno, per cui il sabato è sacro, non perde il sussidio di disoccupazione. In questo caso lo stesso comportamento è ispirato da una credenza che trova la sua protezione nel principio superiore di libertà religiosa.
Ancora più chiara è la dottrina del compelling interest — con il rifiuto della separazione rigida fra deed e creed — nella sentenza Yoder del 1972 (17). In questo caso la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America mandò assolti alcuni genitori della comunità amish che, sulla base della loro fede religiosa, rifiutavano di mandare i figli alla scuola di Stato dopo l’ottavo grado. In questo caso i giudici riconobbero che esiste un “interesse imperativo” dello Stato alla scolarizzazione obbligatoria. Conclusero tuttavia che — particolarmente dopo l’ottavo grado del sistema americano — questo interesse può essere soddisfatto con mezzi alternativi alla frequenza delle scuole statali, per esempio attraverso una verifica più generale del percorso formativo degli amish, che tenga conto dell’“unicità della loro fede”. Anche in questo caso se un normale genitore avesse, dopo l’ottavo grado, ritirato il figlio dalla scuola preferendo mandarlo a lavorare sarebbe finito in prigione. Se invece questo genitore è un amish, e il ritiro dei figli dalle scuole dello Stato s’inserisce in una cultura religiosa unica e particolare, il suo atteggiamento non è punibile.
Negli anni 1980 e 1990 la dottrina del compelling interest è entrata in crisi. Esula da questa esposizione la cronaca dei tentativi di una Corte Suprema sempre più ostile alla religione in generale di erodere la libertà religiosa tornando dal compelling interest a qualche cosa di simile al principio dell’”ordine pubblico”. Questi tentativi sono culminati nella sentenza Smith del 1990 (18), dove la Corte Suprema ha giudicato lecito il licenziamento di funzionari pubblici che partecipano ai riti della Native American Church, nel corso dei quali è assunta ritualmente una droga chiamata peyote. La sentenza Smith ha peraltro provocato le proteste della stragrande maggioranza delle denominazioni religiose presenti negli Stati Uniti d’America, il che ha indotto il parlamento a votare il Religious Freedom Restoration Act. Questa legge, firmata dal presidente William Jefferson “Bill” Clinton nel 1993 e oggi peraltro minacciata da un possibile giudizio di incostituzionalità della stessa Corte Suprema, che dovrà pronunciarsi su un caso che coinvolge la Chiesa cattolica, vincola i tribunali ad applicare il principio del compelling interest in tutti i casi in cui si debbano giudicare limiti all’esercizio della libertà religiosa.
La dottrina del compelling interest non è certamente la soluzione finale e universale per il problema dei limiti della libertà religiosa. Non a caso la Chiesa cattolica ha a lungo esitato prima di sostenere — come poi ha fatto — il Religious Freedom Restoration Act, per diverse ragioni. Qualcuno potrebbe infatti argomentare che lo Stato ha un “interesse imperativo” a conoscere i segreti di killer della mafia, che sono stati rivelati a sacerdoti nel segreto della confessione. Non si tratta di un problema soltanto teorico, dal momento che, sulla base di casi concreti, vivaci discussioni sono in corso negli Stati Uniti d’America e in Italia. Si potrebbero così — per esempio — disporre intercettazioni ambientali presso le chiese e i confessionali. Questo esempio dimostra che, in certi casi, il principio dell’”interesse imperativo” non costituisce una protezione sufficiente per la libertà religiosa. Idealmente, sarebbe auspicabile che lo Stato riconoscesse che esiste una sfera di libertà religiosa intangibile e sacra — che, nel caso della Chiesa cattolica, comprende certamente il segreto del confessionale —, che nessun “interesse imperativo” può superare. È difficile che lo Stato moderno possa essere indotto a riconoscere i fondamenti morali e religiosi di questo principio. La dottrina del compelling interest — accompagnata da un contesto costituzionale che si preoccupa di tutelare particolarmente la libertà religiosa — è, almeno, certamente preferibile agli ambigui riferimenti all’”ordine pubblico”. D’altro canto le varie dimensioni della libertà non sono indipendenti l’una dall’altra. Il problema dei limiti della libertà religiosa — che sono sottoposti a un test particolarmente severo proprio a proposito delle “sette” — richiama anche altri accostamenti, non meno importanti, alla questione della libertà.
2. Il conflitto fra narrative e la libertà di fronte alle narrative
Gli studenti di sociologia hanno un privilegio che dovrebbero particolarmente apprezzare. Quotidianamente la loro attenzione è attirata sul problema del conflitto fra narrative. Questa attenzione dovrebbe permettere loro di conquistare la più rara fra le libertà, la libertà dalla carta stampata e dalle manipolazioni — volontarie o involontarie — dei mezzi di comunicazione sociale. Nei suoi termini più semplici, il problema del conflitto fra narrative è ovvio. Tre persone assistono a un incidente stradale: quando si tratterà di testimoniare, ognuno lo racconterà in modo diverso. Quattro giornali danno notizia della stessa manifestazione politica: se li si mette l’uno accanto all’altro, sembra che si tratti di manifestazioni diverse. Normalmente i giornali non sono d’accordo fra loro sul numero dei partecipanti, sul successo della manifestazione, sulla capacità degli oratori di esprimersi in modo più o meno brillante. Il problema del conflitto fra narrative è molto complesso, e va al di là della banale osservazione secondo cui i giornalisti — nel riferire avvenimenti politici — sono condizionati dalle loro opinioni. Per comprenderne esattamente le dimensioni, dobbiamo percorrere un itinerario che prevede quattro passaggi.
a. Anzitutto — è il passaggio più evidente — il linguaggio umano è plastico, malleabile e permette di affermare la stessa cosa con accentuazioni diverse. Se in Italia vi sono circa seicentomila appartenenti a nuovi movimenti religiosi in senso stretto, si potrà riferire la notizia dichiarando che i membri delle “sette” in Italia sono addirittura seicentomila o, al contrario, soltanto seicentomila, poco più dell’uno per cento della popolazione. Come tutti sanno un critico teatrale, secondo l’atteggiamento e l’umore, può definire lo stesso teatro “pieno a metà” oppure “mezzo vuoto”. L’esempio del teatro è più semplice di quello relativo agli aderenti ai nuovi movimenti religiosi, dove un gran numero di fattori può influenzare la scelta del linguaggio. Un avversario delle “sette”, per esempio, potrà avere interesse in un certo contesto a generare allarme sociale presentando il numero degli aderenti come estremamente significativo e minaccioso. In un altro contesto preferirà attirare l’attenzione sul carattere relativamente modesto delle stesse cifre, per dimostrare che il pubblico non ritiene le “sette” credibili e di fatto le condanna all’insuccesso. La stessa scelta delle parole — che diventano facilmente vettori di emozioni profonde — non è neutrale. Se si vuole passare da un linguaggio neutro o pacato a uno emotivo si parlerà, anziché di “membri” di “nuovi movimenti religiosi” o di “minoranze religiose”, di “adepti” o “vittime” delle “sette”.
b. Nel primo passaggio il conflitto fra narrative si è manifestato nella sua forma più semplice. Gli agenti sociali che producono le narrative diffondono sostanzialmente la stessa narrativa: metà delle sedie di un teatro erano occupate; gli appartenenti a nuovi movimenti religiosi in Italia sono seicentomila. Cercano solo di suscitare nei loro ascoltatori reazioni diverse, modulando opportunamente il linguaggio. La situazione è diversa se leggiamo su un giornale che a una manifestazione hanno partecipato trecentomila persone, e su un altro quotidiano che i partecipanti erano un milione. L’esempio non è teorico, se si pensa semplicemente a manifestazioni politiche italiane del 1996, dalla cosiddetta proclamazione dell’indipendenza della Padania alla protesta del centro-destra contro la politica finanziaria del governo. Così, possiamo leggere cifre in libertà a proposito — per esempio — dei satanisti di Torino. Secondo gli specialisti sono meno di duecento, secondo certi articoli di stampa decine di migliaia. È ormai accertato che il riferimento a quarantamila satanisti torinesi deriva da un pesce d’aprile di successo organizzato da un gruppo di universitari goliardi parecchi anni fa; paradossalmente, l’incredibile cifra è spesso ripetuta ancora oggi. Qui cominciamo ad avvicinarci a dimensioni più profonde del conflitto fra narrative. Un esame delle narrative in termini di “vero” e di “falso” non è, naturalmente, irrilevante. Nel caso classico dei partecipanti a una manifestazione politica, chi la organizza ha evidentemente interesse ad accrescere il numero dei presenti, e gli avversari politici hanno buone ragioni per diminuirlo. Non si tratta, tuttavia, dell’unico elemento che entra in gioco. Può darsi, per esempio, che i termini non siano stati definiti esattamente: fra i “partecipanti” alla manifestazione si devono ricomprendere anche i semplici curiosi, che — per così dire — passavano di lì per caso? Come definire precisamente i membri delle “sette” o “nuovi movimenti religiosi”? Quando si contano i testimoni di Geova, si tratta solo dei “proclamatori” che vanno di porta in porta o di tutta la comunità, bambini compresi? Inoltre — anche se siamo d’accordo sulle definizioni — gli strumenti con cui sono rilevati i dati influenzano i risultati. I sociologi conoscono bene questa problematica perché lavorano spesso tramite questionari. Quanti sono gli italiani che credono nella reincarnazione? Se si pone la domanda in forma “chiusa” — com’è stato fatto in un’indagine recente — chiedendo di scegliere in modo univoco fra reincarnazione e risurrezione cristiana, i reincarnazionisti italiani sono soltanto il quattro per cento (19). Viceversa, se il quesito è posto in modo “aperto”, e chi è interrogato può rispondere affermando di credere sia alla reincarnazione sia alla risurrezione cristiana, la percentuale sale oltre il venti per cento, in Italia come in numerosi altri paesi europei (20). Le scienze fisico-matematiche sanno da molti anni che il punto di vista dell’osservatore influenza i risultati dell’osservazione. Questo è evidentemente vero anche per le scienze sociali.
c. È necessario compiere un terzo passo del nostro itinerario. Fino a questo momento abbiamo esaminato narrative molto semplici, che rispondono alla domanda: “Quanto?”: “Quante persone hanno partecipato alla manifestazione?”, “Quanti sono i testimoni di Geova in Italia?”, e così via. Il conflitto fra narrative si fa molto più complesso quando si aggiungono elementi di tipo qualitativo. Se dalla domanda “Quanti sono i testimoni di Geova?” si passa a quesiti del tipo “In che cosa credono i testimoni di Geova?”, “Qual è l’esperienza quotidiana dei testimoni di Geova?”, qualunque tipo di risposta si presenta nella forma di una narrativa che deve sintetizzare un gran numero di osservazioni. Come si è visto, anche la risposta a un semplice quesito di carattere puramente quantitativo è influenzata dal punto di vista dell’osservatore. Le risposte a quesiti complessi non sono prodotti sociali banali. Sono condizionate da un gran numero di varianti che si riferiscono sia all’osservatore e alle sue capacità, motivazioni, pregiudizi, sia al contesto sociale in cui si trova a operare. Dipendono pure dal numero e dal tipo di osservazioni che è riuscito a effettuare. Evidentemente, infatti, nessuno studioso dei testimoni di Geova conosce tutti gli oltre nove milioni di membri di questo movimento che esistono al mondo, e tanto meno le loro singole, individuali opinioni. Certo, per sapere che cosa pensa un movimento religioso si potrà fare riferimento alla sua letteratura “ufficiale”. Ma molto spesso accanto alla letteratura pubblica ne esiste una non pubblica, tanto più nei movimenti che presentano elementi di tipo iniziatico o esoterico. Capita anche che l’esperienza religiosa quotidiana sia influenzata da fattori diversi, e si discosti in modo notevole dai princìpi contenuti in scritture sacre che spesso risalgono a secoli passati. Per conoscere l’esperienza religiosa quotidiana di una qualunque denominazione cristiana dei nostri giorni non è certamente sufficiente la lettura del Vangelo. In altre parole, le narrative di fenomeni complessi — quali sono, per esempio, i movimenti religiosi contemporanei — non sono “fotografie”, ma costruzioni sociali articolate, culturalmente condizionate e politicamente negoziate. Il problema è noto agli storici, i quali sanno — per riprendere il titolo di un’opera particolarmente influente di Peter Novick, pubblicata nel 1988 — che la storia “obiettiva” è un “nobile sogno” che riposa su un pregiudizio di carattere oggettivistico. Peter Novick non è un relativista: i fatti storici per lui esistono, è la storiografia a presentarsi come un prodotto sociale condizionato da una molteplicità di fattori (21).
Anche per quanto riguarda il problema del conflitto fra narrative, il movimento anti-sette pensa che la soluzione risieda nella vecchia distinzione fra creed e deed. Si dovrebbe cioè distinguere fra credenza — la cui ricostruzione sarebbe sempre incerta e soggettiva — e comportamento, che potrebbe invece essere “fotografato” e descritto in modo certo. In realtà, come abbiamo già potuto verificare a proposito della problematica giuridica relativa alla libertà religiosa, questa distinzione è fattualmente impossibile. I tribunali, i governi, i lettori di giornali non si trovano di fronte a comportamenti “puri”, anche nell’ipotesi che questi ultimi esistano. Incontrano narrative complesse che nascono dalla dialettica fra l’osservazione di un comportamento e le infinite variabili che condizionano il punto di vista dell’osservatore. D’altro canto, è impossibile comprendere un comportamento senza leggerlo in un contesto di tendenze, motivazioni, credenze e premesse che lo ispirano. Nel racconto Il vampiro del Sussex, Sherlock Holmes — e i lettori — si trovano di fronte a narrative il cui oggetto è una donna che è stata vista succhiare il sangue del figlio. Se il celebre detective — come gli stolti che, nel racconto, lo circondano — erigesse una muraglia invalicabile fra il comportamento e il suo contesto, fra deed e creed, e dichiarasse di interessarsi soltanto del primo, farebbe rapidamente arrestare la donna come madre snaturata dedita ad abominevoli pratiche di vampirismo. Ma Sherlock Holmes procede diversamente. Indaga, colloca il comportamento nel suo contesto e scopre che la madre ha succhiato il sangue del figlio per impedirgli di morire avvelenato. Inoltre non ha spiegato le sue azioni per non compromettere l’avvelenatore, un altro membro della famiglia (22). Non sarebbe sufficiente, in questo caso, affermare — come farebbe un positivista “moderato” — che, quando si esaminano i comportamenti, occorre anche tenere conto delle loro motivazioni. Anzitutto, infatti, il positivista dovrebbe spiegarci come pensa di poter conoscere le motivazioni: per il credente solo Dio conosce veramente i segreti dei cuori, per il positivista questi sono — ultimamente — inconoscibili. In secondo luogo l’espressione “motivazioni” è riduttiva per indicare tutto quanto circonda un gesto o un comportamento. La storia del vampiro del Sussex presenta una struttura relativamente semplice se la si paragona, per esempio, alle narrative che dovrebbero trasmetterci il significato globale delle attività di un gruppo sociale o di un movimento religioso. Nell’avventura di Sherlock Holmes il problema non consiste soltanto nel fatto che la donna, succhiando il sangue del figlio, cerca di salvarlo e non di danneggiarlo. Soltanto indagando sulle malsane condizioni della famiglia della donna, l’investigatore scopre perché questa abbia scelto un modo discreto di salvare il figlio anziché cercare aiuto altrove. Non solo: è soltanto il retroterra etnico sudamericano della povera madre che permette a Sherlock Holmes di capire perché si è servita di un modo così originale per risolvere una situazione critica.
Quello del vampiro del Sussex è un caso giudiziario ipotetico e letterario; ma le cose non vanno diversamente nei tribunali veri. Nel caso Yoder del 1972 la Corte Suprema americana non si è limitata a chiedersi perché i genitori amish non inviano i loro figli agli ultimi anni della scuola dell’obbligo. Ha inserito il loro comportamento nel contesto più ampio delle “caratteristiche uniche della fede amish“. In questo caso — come in altri decisi dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America in base al principio del compelling interest — non abbiamo né una separazione rigida fra deed e creed, né una semplice indagine sui motivi. Ci troviamo di fronte alla scelta — fra diverse narrative possibili di un episodio — di una narrativa che, inserendolo in un contesto complesso, permette di considerare lecito un comportamento che in astratto sarebbe illecito. In paesi diversi dagli Stati Uniti d’America la consapevolezza di questo modo di procedere è spesso minore. Ma nessuno può seriamente negare che le decisioni dei tribunali non rispondono meccanicamente a “fotografie” univoche di comportamenti come potrebbe fare un computer. Scelgono fra le varie narrative che sono presentate ai giudici in una situazione che è fortemente influenzata da condizionamenti culturali, sociali e politici. In materia di nuovi movimenti religiosi vi è, semmai, negli Stati Uniti d’America una maggiore consapevolezza — rispetto all’Europa e al Giappone — dell’estrema complessità dei problemi che riguardano la religione. Nel sistema giudiziario statunitense i “testimoni esperti” — expert witnesses — citati dalle parti permettono ai giudici — e alle giurie, dove sono presenti — di trovarsi di fronte a un gran numero di narrative diverse. È fatto loro obbligo, naturalmente, di dichiarare se e da chi ricevono un onorario, e di rispettare le regole deontologiche della loro professione. Una corte che deve pronunciarsi, per esempio, sulla Scientologia ascolterà così — sulle stesse attività — i resoconti diversi di membri soddisfatti, di militanti dei movimenti anti-sette, di ex membri ostili, di psichiatri di vario orientamento, di specialisti accademici, e così via. Lo stesso avviene normalmente in occasione di indagini parlamentari, come quella recente sui fatti di Waco. I poteri pubblici e i tribunali — che non hanno, normalmente, una competenza specifica in materia di movimenti religiosi — potranno avvicinarsi a una comprensione — sempre e in ogni caso difficile ed elusiva — di questi fenomeni mediando fra le varie narrative.
In Europa la situazione è molto più confusa. La principale critica metodologica che si può rivolgere al rapporto parlamentare francese Les Sectes en France è precisamente quella di non aver mediato fra le narrative di eventi di cui i membri della commissione non potevano avere conoscenza diretta. Il rapporto ha invece privilegiato le narrative degli ex membri ostili e dei militanti anti-sette, su cui il documento è fondato in modo pressoché esclusivo. Secondo una critica frequente e mai smentita, della lista dei testimoni ascoltati dalla commissione — peraltro in segreto — non faceva parte neppure un solo specialista universitario di scienze religiose (23). Lo stesso rischia di avvenire in altri contesti europei, e si verifica anche nei tribunali.
Un esempio particolarmente interessante è costituito dal processo a un gruppo di scientologi che si è tenuto a Lione nell’ottobre del 1996. In astratto si potrebbe ritenere che questo processo — secondo un modello più francese che americano — avrebbe dovuto occuparsi esclusivamente degli specifici reati di cui erano accusati alcuni singoli scientologi, e non della Scientologia in generale. Se però si legge la sentenza — sul cui merito, quanto ai singoli imputati e alle loro responsabilità, non è mia intenzione entrare in questa sede — ci si accorge che non è affatto così. Questa sentenza (24) comprende un ampio “secondo capitolo” dove sono ricostruite la dottrina e le “tecniche” della Scientologia. Il Tribunale di Lione — che fra l’altro afferma, in grassetto, che la libertà religiosa trova i suoi limiti “nell’interesse dell’ordine pubblico” (25) e i cui giudici non sono, evidentemente, specialisti di nuovi movimenti religiosi — ha, certo, citato anche pubblicazioni della stessa Scientologia. Ma ha ricostruito la natura e il funzionamento del movimento utilizzando pressoché esclusivamente — fra le diverse narrative possibili — quelle che provengono da due fonti: gli ex membri ostili e i militanti anti-sette. La sentenza cita ampiamente la perizia di uno psichiatra francese che è uno dei più attivi militanti anti-sette del paese. Non manca di fare riferimento anche al rapporto parlamentare Les Sectes en France per concludere che la Scientologia “presenta le caratteristiche scelte dalla Commissione [parlamentare] per attribuirle questa qualifica [di setta]“ (26). Il Tribunale di Lione non si è affatto limitato a esaminare i singoli reati di cui erano accusati alcuni singoli scientologi, ma — e difficilmente avrebbe potuto fare altrimenti — ha inserito questi “comportamenti” in un contesto globale che implica una valutazione complessiva della Scientologia. In astratto sarebbe stato possibile arrivare a questa valutazione attraverso il metodo della mediazione fra le narrative. La difesa della Scientologia aveva chiamato come testimoni alcuni eminenti sociologi europei, specialisti fra i più noti dei nuovi movimenti religiosi — come i professori Bryan R. Wilson e Karel Dobbelaere —, e anche il sottoscritto. Ma il clima giuridico e culturale francese è ben diverso da quello statunitense, dove in un processo simile il confronto fra narrative sarebbe stato il tema centrale, e l’audizione di specialisti universitari sarebbe stata data per scontata. Il tentativo degli specialisti di scienze sociali di offrire una narrativa diversa rispetto a quella dei militanti anti-sette o degli ex membri ostili è stato attaccato dalla stampa come se fosse una presa di posizione acritica in favore della Scientologia, anche se diversi sociologi ascoltati come testimoni hanno dichiarato di essere personalmente in disaccordo con le dottrine e le pratiche del movimento (27). E il Tribunale ha considerato queste testimonianze irrilevanti, neppure menzionandole nella sentenza.
È necessario, a questo proposito, evitare alcuni equivoci in cui è facile cadere. Anzitutto, gli specialisti universitari non pretendono affatto un monopolio del sapere in materia di nuovi movimenti religiosi. I sociologi, in particolare, sono certamente capaci di applicare a sé stessi il loro metodo, e di “esaminare la loro stessa funzione nel processo di costruzione del sapere in materia di nuovi movimenti religiosi dal punto di vista della sociologia della conoscenza” (28). Gli specialisti universitari costituiscono, nel loro insieme — e senza trascurare il fatto che nel loro mondo coesistono opinioni diverse —, una delle diverse agenzie che producono narrative in tema di nuovi movimenti religiosi. Certamente anche le loro teorie sono culturalmente condizionate, se non altro dal desiderio di “proteggere il proprio campo professionale” contro le intrusioni di militanti dilettanti che propongono “un’ideologia che cerca di mascherarsi da scienza”, il che normalmente disturba gli accademici (29). Certo, si potrà ritenere che le narrative degli specialisti universitari che osservano e descrivono i nuovi movimenti religiosi con una specifica professionalità debbano essere prese in considerazione con particolare attenzione. Allo stesso modo — confrontando narrative diverse a proposito dei problemi che riguardano i nostri denti — si potrà ritenere particolarmente interessante l’opinione dei dentisti. Ma — in un contesto dove si tende semmai a insistere sul fatto che anche l’esperto non è immune da condizionamenti culturali e professionali — sarebbe certamente sbagliato affidarsi unicamente alle narrative che provengono dagli specialisti universitari di scienze religiose, né essi avanzano pretese monopolistiche di questo genere.
D’altro canto, è ancora più sbagliato affidare un ruolo privilegiato — o addirittura esclusivo — alle narrative degli ex membri ostili di un movimento religioso. Anzitutto, i nuovi movimenti religiosi hanno normalmente un enorme turnover. Assomigliano a grandi stazioni, dove vi è sempre qualcuno, perché — se molti viaggiatori arrivano — altri partono. Gli ex membri di nuovi movimenti religiosi sono, pertanto, milioni. Devono essere studiati nel loro insieme, senza concentrarsi sulla piccola minoranza di qualche centinaio di persone che brucia gli idoli che un tempo aveva adorato e s’impegna attivamente nei movimenti anti-sette. La maggioranza delle persone che lascia un nuovo movimento religioso rifluisce tranquillamente nella società — o si cerca un’altra fede —, senza intraprendere alcuna iniziativa polemica nei confronti del gruppo che ha lasciato. Gli ex membri ostili possono talora offrire narrative interessanti — e il loro tormentato itinerario umano merita comunque rispetto —, ma hanno evidentemente buone ragioni per spiegare con “storie di atrocità” scelte del loro passato che oggi giudicano aberranti (30). È del tutto mitologico ritenere che gli specialisti universitari di scienze religiose si disinteressino dei resoconti degli ex membri ostili. Tutti gli studi monografici di livello universitario su questo o quel movimento ne tengono conto. Ma li trattano con circospezione e non li considerano una fonte privilegiata né unica. In realtà, qualunque specialista ha intervistato, durante la sua carriera, decine o centinaia di ex-membri di nuovi movimenti religiosi, alcuni ancora disponibili a esprimere simpatia per il movimento che hanno lasciato, altri indifferenti oppure ostili. Uno dei miti meno fondati che fa da sfondo al conflitto fra narrative in materia di nuovi movimenti religiosi è quello secondo cui gli specialisti accademici ne avrebbero un’esperienza “teorica”, mentre gli attivisti anti-sette avrebbero un sapere “pratico”, ultimamente più utile. Non è affatto così, perché gli studiosi accademici — se sono autentici specialisti di questo settore — hanno normalmente intervistato centinaia di persone sia fra i membri sia fra gli ex membri, e hanno anche trascorso qualche tempo all’interno dei movimenti. Le informazioni degli attivisti anti-sette, invece, vengono normalmente solo dagli ex membri, dai testi scritti e, talora, da qualche rapida osservazione sotto mentite spoglie, generalmente non molto produttiva.
Da questo punto di vista l’esperienza degli specialisti universitari è molto più “pratica” di quella degli attivisti anti-sette. Questi ultimi obiettano che l’osservazione partecipante non serve a nulla, perché le “sette” fanno vedere all’ingenuo specialista soltanto quello che vogliono. Commenti di questo genere possono essere formulati soltanto da chi non sa neppure che cosa sia l’osservazione partecipante. Certo, esistono segreti di natura criminale all’interno di movimenti religiosi — e non religiosi — che l’osservatore sociologico non scopre. Di solito non li scopre neppure l’attivista anti-sette, né sono noti all’ex membro ostile di basso livello. È il caso delle attività di alcuni dirigenti della Aum Shinri-kyo giapponese relative al traffico di droga e di armi chimiche. Se si eccettuano questi casi limite, lo specialista che trascorre non soltanto qualche ora, ma settimane o mesi frequentando regolarmente un movimento, ne condivide la vita e stringe una rete di rapporti personali con un certo numero di membri, i quali non parlano necessariamente in termini positivi gli uni degli altri. Di solito finisce per accumulare un numero di informazioni veramente ampio, e non tutte favorevoli, sul gruppo che osserva. Forse citare un esempio personale non è di buon gusto. Mi chiedo tuttavia quanti attivisti anti-sette conoscessero le pratiche di magia sessuale di tutta una serie di gruppi occultisti e satanisti prima di averle viste descritte nei miei volumi Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo e Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Seicento ai nostri giorni. Sono volumi da cui attingono a piene mani, spesso dimenticandosi di citare la fonte (31). Mi chiedo pure quanti detrattori di The Family — il movimento un tempo noto come Bambini di Dio — conoscerebbero la dinamica esatta delle pratiche sessuali più controverse e aberranti che avevano corso presso i Bambini di Dio fino a qualche anno fa se non avessero letto gli studi di J. Gordon Melton. Gli stessi detrattori criticano J. Gordon Melton per la sua fiducia — peraltro confermata da sentenze di tribunali di tutto il mondo — nei reali cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi anni in The Family. Questi esempi non dimostrano forse che lo specialista — il quale, naturalmente, ha i suoi limiti — vede, nell’osservazione partecipante, quello che è capace di vedere, non soltanto quello che il movimento vuole che veda? Certo, l’osservazione partecipante non è un metodo che permette di scoprire tutto su un movimento: un tale metodo, semplicemente, non esiste. Ma attraverso l’osservazione partecipante si acquista su una determinata realtà un sapere molto più “pratico” e completo di quello che emerge dal semplice ascolto delle narrative degli ex membri, o dalla semplice lettura di fonti scritte, senza che questi due ultimi elementi debbano essere, peraltro, trascurati.
d. Vi è, infine, un quarto passo che è necessario compiere per evitare equivoci pericolosi. La realtà esiste. L’idealismo e il relativismo sono errori filosofici che si confutano da soli (32). La conoscenza perfetta di un fenomeno complesso non è accessibile agli uomini. Tuttavia è possibile costruire “modelli”, “figure” o “narrative” che hanno un rapporto più o meno accettabile di analogia con la realtà (33). L’analogia — non una presunta corrispondenza “fotografica” — con la realtà diventerà uno degli elementi per valutare il modello insieme alla fecondità scientifica, alla capacità di chiarire e di spiegare, alla coerenza interna. Il relativista ha — paradossalmente — ragione quando denuncia la “fallacia naturalistica” secondo cui esisterebbe una narrativa “vera” in grado di fotografare perfettamente la realtà e di stabilire con il reale un rapporto di identità (34). Il relativista, tuttavia, ha torto quando lascia intendere che tutte le narrative sono di uguale valore. Il sapere umano — e anche le esigenze della semplice convivenza fra gli uomini — si basano sulla continua ricerca di narrative, di modelli e di figure che spieghino e che chiariscano meglio il fenomeno a cui si riferiscono, e il cui rapporto di analogia con il reale sia meno lontano dall’identità, peraltro irraggiungibile.
Le narrative non nascono nel vuoto: sono costruzioni sociali continuamente negoziate dal punto di vista culturale e, lato sensu, politico. La libertà di fronte alle narrative — che insegna a non darne nessuna per scontata, per quanto sembri autorevole la carta su cui è stampata — costituisce una grande ricchezza soggettiva, e un autentico dono che si può acquistare tramite una buona formazione nelle scienze sociali. Perché questa libertà si rifletta e sia garantita anche sul piano oggettivo, è necessario che i poteri pubblici — le agenzie governative, la magistratura e i parlamenti — svolgano, su terreni delicatissimi come quello dei nuovi movimenti religiosi, una funzione di mediatori fra narrative diverse. Questa funzione è tradita — e la libertà, anche in questo caso, si riduce a una larva o a un fantasma — se una commissione parlamentare, un ministero o un tribunale decidono di fare propria, presentandola come “vera”, una delle narrative che si confrontano e si contrappongono, ignorando le altre. È quanto avviene quando un’agenzia governativa, un gruppo di parlamentari o una corte di giustizia ricostruiscono la problematica dei nuovi movimenti religiosi in genere — o di un movimento in particolare — servendosi esclusivamente — qualche volta ostentatamente — della narrativa elaborata dagli ambienti anti-sette e dagli ex membri ostili. Ignorano così le altre narrative, che provengono dagli specialisti universitari, dagli ex membri non ostili e da chi rimane nei movimenti dichiarandosi soddisfatto (35). La situazione è complicata dal fatto che qualche volta certi uomini politici — e certi giornalisti — impegnano la loro credibilità nel sostegno alla narrativa che hanno scelto. La avvertono come loro e aggrediscono chi ha opinioni diverse — in particolare gli specialisti accademici — con espressioni che si vergognerebbero di usare in una normale conversazione fra amici, in nome della semplice buona educazione. Gridare, tuttavia, non risolve i problemi. Di fronte a un conflitto, la libertà è garantita soltanto se i poteri pubblici rinunciano a sposare una delle narrative contrapposte, imparano a riconoscerle tutte come culturalmente condizionate e svolgono la loro funzione propriamente politica, che è di mediazione. Nella controversia sulle “sette” la libertà diventa un fantasma se i poteri pubblici — di fronte al conflitto fra le narrative — non si pongono come arbitri, ma come parti.
3. La libertà politica e il mito della manipolazione mentale
Vi è una terza dimensione della libertà che è minacciata dalle controversie in materia di “sette”. Si tratta della libertà come immunità dall’intervento dello Stato in tutti i settori in cui tale intervento non è indispensabile, in base al principio di sussidiarietà. Questo principio non è solo uno dei cardini della dottrina sociale cristiana, ma è richiamato anche dal diritto comunitario europeo. Mentre si declama a favore della libertà in astratto, le libertà concrete sono minacciate dalla tendenza dello Stato moderno allo statalismo e all’invadenza, che sembra iscritta nel suo codice genetico. Se non si vigila in modo sufficiente contro questa invadenza, vi è il rischio che lo Stato moderno moltiplichi l’arsenale di armi con cui può violare il principio di sussidiarietà e penetrare nella sfera di libertà dei singoli e delle associazioni. Alcune di queste armi — per esempio la pressione fiscale eccessiva e vessatoria, che diventa persecuzione fiscale, e l’attivismo incontrollato degli apparati giudiziari — sono piuttosto note, e oggetto di un vivace dibattito, particolarmente in Italia. Sembra oggi che — proprio agitando la problematica delle “sette” — lo Stato moderno si stia dotando di un’arma, se possibile, ancora più pericolosa. Si tratta del diritto — che certi Stati vorrebbero attribuirsi — di esaminare se l’adesione a una determinata realtà associativa sia libera e ragionevole, ovvero sia così irragionevole da far sospettare la presenza di una forma di manipolazione mentale. Nel secondo caso la realtà associativa in questione è definita una “setta”, religiosa o meno: sempre più spesso si parla infatti di “sette” politiche, economiche e così via. Come “setta”, si dichiara che deve essere sottoposta a tutta una serie di vessazioni amministrative in quanto “pericolosa”. In un primo tempo si parlava di “lavaggio del cervello”. In un secondo momento — dopo che questa etichetta è stata criticata e perfino ridicolizzata dalla psichiatria accademica — sono nate le teorie del lavaggio del cervello cosiddette “di seconda generazione”. Esse abbandonano l’etichetta controversa e la metafora dei cervelli lavati, ma mantengono la stessa sostanza delle teorie precedenti (36). Nelle teorie di “seconda generazione” del lavaggio del cervello la nozione di “seduzione” è molto vasta. Secondo uno psichiatra citato dal rapporto parlamentare francese, e che è stato chiamato a far parte dell’Osservatorio che dovrebbe sorvegliare in Francia le “sette”, è sufficiente che ci si trovi in presenza di tecniche che favoriscono un “processo di identificazione fra il reclutatore e il reclutato”. Rientrerebbero in questa categoria le tecniche messe in atto dai “giovani evangelisti mormoni, con i capelli tagliati corti, il blazer blu e la cravatta discreta di stile club” (37).
Sulle teorie del lavaggio del cervello — di prima o di seconda generazione — sono opportune due osservazioni. La prima è che queste teorie — ancora difese da alcuni psichiatri di provincia, che si atteggiano a grandi esperti di “sette” in Italia come in Germania e in Francia — sono state totalmente rifiutate dalla psichiatria e dalla psicologia universitarie. Nel 1987 la frazione — del tutto minoritaria — della professione psichiatrica statunitense che era favorevole alle teorie del “lavaggio del cervello”, della “manipolazione mentale” o della “persuasione coercitiva” applicate ai nuovi movimenti religiosi chiese all’APA, l’American Psychological Association — probabilmente la più autorevole organizzazione professionale del mondo nel settore —, che fosse formato un comitato ad hoc che si pronunciasse sul valore scientifico di queste teorie. Il comitato, chiamato DIMPAC — Deceptive and Indirect Methods of Persuasion and Control, “[Comitato sui] metodi ingannevoli e indiretti di persuasione e di controllo” — era presieduto da Margaret Singer, la psichiatra americana più attiva nel movimento anti-sette. Nel maggio del 1987 le conclusioni del comitato DIMPAC vennero sottoposte al Board of Social and Ethical Responsibility for Psychology, “Ufficio per la responsabilità sociale ed etica della psicologia”, dell’APA, che le fece esaminare anche da “revisori” neutrali esterni. L’11 maggio 1987 il Board dell’APA scrisse al comitato DIMPAC dichiarando che il rapporto, e più in generale le teorie della manipolazione mentale o lavaggio del cervello, di prima o di seconda generazione, applicate a nuovi movimenti religiosi, mancano di “rigore scientifico” e di “accostamento critico”. Non devono essere presentate come “scientifiche” in nessuna sede, particolarmente nei tribunali (38). La decisione dell’APA del 1987 ha avuto un effetto decisivo e salutare negli Stati Uniti d’America. Da allora le teorie di prima e di seconda generazione sul lavaggio del cervello e sulla manipolazione mentale sono sistematicamente escluse dall’esame dei tribunali americani nei casi che riguardano i nuovi movimenti religiosi. Successivi tentativi di Margaret Singer e di un collega di intentare causa all’APA, ad altre associazioni professionali e a singoli specialisti per rovesciare un verdetto scientifico tramite il ricorso ai tribunali non hanno avuto alcun successo. Dovrebbe essere pertanto chiaro — ma purtroppo non lo è in Europa — che le teorie del lavaggio del cervello, della manipolazione mentale, della persuasione coercitiva, della “destabilizzazione mentale” — il termine preferito dal rapporto parlamentare francese — e simili non sono scientifiche. Fanno parte di quel rejected knowledge, di quel “sapere rifiutato” dalla comunità scientifica di cui talora qualcuno ancora si serve per fini di carattere politico.
Tutto questo non significa — naturalmente — che la propaganda dei nuovi movimenti religiosi sia sempre corretta, pacifica e lineare. Spesso è aggressiva, denigratoria nei confronti di altre esperienze religiose, e anche ingannevole, nel senso che comprende vere e proprie menzogne. Ma, da quando esiste la pubblicità moderna, tecniche pubblicitarie e menzogne — anche sofisticate e astute — avanzano insieme nella storia del costume occidentale, certo non soltanto in campo religioso. In tutti i campi — religione compresa — si possono prendere misure per la protezione dei consumatori: la migliore delle quali sarà l’educazione di questi ultimi perché possano compiere scelte informate. La pubblicità menzognera o scorretta rimane però qualche cosa di ben diverso da una tecnica asseritamente “magica” e “irresistibile” di manipolazione mentale. Le relative teorie devono essere considerate piuttosto come vere e proprie superstizioni, singolari versioni moderne della credenza nel malocchio.
Il lavaggio del cervello e la manipolazione mentale hanno due caratteristiche fondamentali. La prima è che non esistono. La seconda è che chiunque può essere accusato di utilizzarle, così come a qualunque persona può essere rimproverato di servirsi di un’arma inesistente e invisibile. Di fronte a qualunque credenza, movimento, associazione si troverà sempre qualcuno disponibile a sostenere che si tratta di realtà talmente aberranti e irragionevoli che soltanto tecniche raffinate di manipolazione mentale possono convincere qualcuno a farne parte. Non sarà certamente difficile trovare qualche esponente marginale della professione psichiatrica pronto a tradurre queste accuse in un gergo pseudo-scientifico. Spesso si troverà anche qualche attivista politico che tradurrà il tutto in un gergo ulteriormente diverso. Affermerà che ci si trova di fronte a gruppi “totalitari”, che tramite la manipolazione mentale violano la libertà delle persone e i “diritti umani”. Sostenute dalle testimonianze degli ex membri ostili, che trovano nella manipolazione mentale una comoda spiegazione del loro impegno di un tempo, queste accuse possono essere lanciate letteralmente contro chiunque. Non sono coinvolti solo nuovi movimenti religiosi, nati nel secolo XX come la Chiesa dell’Unificazione o nell’Ottocento come i testimoni di Geova. Si tratta ormai, sempre più spesso, di movimenti e di realtà che nascono nell’ambito delle vecchie religioni. Soltanto nel 1996, sono stati attaccati come “sette” dedite alla manipolazione o alla “destabilizzazione” mentale — per tacere di numerose realtà del mondo protestante — l’Opus Dei — sulla scia di una campagna che ha origini antiche —, diverse comunità nate nell’ambito del Rinnovamento nello Spirito in Francia, l’Opera — una congregazione di origine belga —, i Focolarini, i Neocatecumenali, Comunione e Liberazione e perfino le suore di Madre Teresa di Calcutta (39). L’ultimo esempio — tratto da un volume costruito, come sempre, sulla base delle testimonianze di “ex” — è particolarmente indicativo. Se neppure le suore di Madre Teresa, unanimemente rispettate da persone di ogni fede e di ogni opinione, sono al sicuro, allora veramente nessuno lo è. La cartina di tornasole della manipolazione mentale — o comunque la si voglia chiamare — è truccata. Inserita in qualunque bicchiere dà sempre lo stesso responso: qualunque realtà è una “setta”. Tutto dipende, a questo punto, da chi ha in mano la cartina di tornasole, da chi vuole colpire, da quali sono le sue simpatie e le sue antipatie. Il bastone della lotta contro la “manipolazione mentale” — o qualunque altro nome “di seconda generazione” si preferisca dare al “lavaggio del cervello” — può calare sulla testa di chiunque: anche di coloro che oggi applaudono chi lo tiene in mano. Se allo Stato moderno — già, come accennato, invadente per natura — si mette o si lascia in mano un bastone di questo genere, i pericoli per la libertà non potranno che diventare intollerabili. Si tratta — veramente — di una di quelle armi troppo letali per essere lasciate in circolazione, che vanno strappate di mano, il più in fretta possibile, a chiunque sia tentato di servirsene. Certo, lo Stato ha diritto di punire i malfattori, anche quelli — e non ne mancano — che hanno eletto domicilio all’interno di un movimento religioso vecchio o nuovo. Ma per colpirli esistono altri strumenti. La teoria della manipolazione mentale è un bastone che, per sua stessa natura, ha tendenza a colpire chiunque, colpevole o innocente che sia, ed è un’arma pericolosa chiunque la impugni.
I processi — peraltro inevitabili — di integrazione sovranazionale e di globalizzazione rendono giustamente inquieti molti nostri contemporanei di fronte alle minacce che gravano non su una nozione astratta e illuministica di libertà, ma sulle libertà concrete, le piccole — e vere — libertà di ogni giorno. La campagna contro le “sette” in corso in Europa dovrebbe attirare l’attenzione anche di quanti non si interessano particolarmente al problema dei nuovi movimenti religiosi. Infatti, la mentalità e le organizzazioni anti-sette hanno scarsa relazione con una critica fondata su ragioni dottrinali e teologiche delle tesi dei nuovi movimenti religiosi, che personalmente — come cattolico — non soltanto condivido, ma auspico e promuovo. Le campagne anti-sette sembrano piuttosto pretesti per ridurre ulteriormente la già precaria consistenza delle libertà individuali e associative. Quando la libertà è in pericolo, nessuno ha il diritto di tacere, magari invocando valori pure apprezzabili come la neutralità accademica e il dovere degli studiosi di non trasformarsi in militanti.
La libertà diventa un fantasma quando la libertà religiosa viene riconosciuta soltanto nei limiti dell’ordine pubblico e delle leggi in vigore. Si tratta invece di giudicare le leggi in vigore — qualificandole come giuste o ingiuste — a seconda della loro capacità di rispettare la libertà religiosa. Quest’ultima è un valore superiore al semplice ordine pubblico, e trova i suoi limiti soltanto nelle esigenze fondamentali del bene morale oggettivo e comune. La libertà diventa un fantasma quando — nel conflitto fra narrative a proposito di movimenti religiosi vecchi o nuovi — le autorità pubbliche decidono di fare proprie le narrative di tipo ostile. Si fanno parte anziché arbitro, rinunciano a mediare fra le diverse narrative che si contrappongono, prendono — o affermano di prendere — per oro colato le versioni degli ambienti anti-sette o degli ex membri ostili. La libertà si riduce a un fantasma se un potere dello Stato adotta le teorie del lavaggio del cervello o della manipolazione mentale, dotandosi così di un bastone truccato che permette di colpire qualunque realtà associativa sgradita ai potenti del momento. Non viviamo un’epoca qualunque della storia. Viviamo un’ora cruciale e difficile, in cui — a costo di diventare impopolare anzitutto di fronte ai propri amici — ciascuno è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità. E proprio sulla questione delle cosiddette “sette” emerge, ultimamente, la differenza fra chi ama veramente la libertà e chi si accontenta del suo fantasma.
Massimo Introvigne
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(1) Cfr. J. Gordon Melton, Historique des associations modernes anti-sectes aux États-Unis, relazione al convegno internazionale Les controverses en matière de “sectes” ou nouveaux mouvements religieux: un regard sur les mouvements anti-sectes, organizzato dal CESNUR France — Centre d’Études sur les Nouvelles Religions —, Parigi 17-9-1996.
(2)Cfr. Assemblée Nationale, Rapport fait au nom de la Commission d’Enquête sur les sectes (document n. 2468): Les Sectes en France – Président: M. Alain Gest, Rapporteur: M. Jacques Guyard, Député, Documents d’information de l’Assemblée Nationale, Parigi 1996; cfr. una critica, in Massimo Introvigne e J. Gordon Melton (a cura di), Pour en finir avec les sectes. Le débat sur le rapport de la commission parlementaire, 3ª ed., Dervy, Parigi 1996; e M. Introvigne, “Sette” e “diritto di persecuzione”: le ragioni di una controversia, in Giovanni Cantoni e M. Introvigne, Libertà religiosa, “sette” e “diritto di persecuzione”. Con appendici, Cristianità, Piacenza 1996, pp. 59-116.
(3) John R. Hall, Gone from the Promised Land. Jonestown in American Cultural History, Transaction Books, New Brunswick (New Jersey)-Oxford 1987, pp. 26-27.
(4) Ibid., p. 100.
(5) Ibid., p. 144; cfr. anche il mio Idee che uccidono. Jonestown, Waco, il Tempio Solare, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1995, pp. 17-36.
(6) Cfr. ibid., pp. 63-107; e Jean-François Mayer, Les Mythes du Temple Solaire, Georg, Ginevra 1996.
(7) Cfr. il mio Mille e non più mille. Millenarismo e nuove religioni alle soglie del Duemila, Gribaudi, Milano 1995, pp. 184-200; e Susumu Shimazono, In the Wake of Aum. The Formation and Transformation of a Universe of Belief, in Japanese Journal of Religious Studies, vol. 22, n. 3-4, autunno 1995, pp. 381-414.
(8) Sui movimenti anti-sette, di origine laicista, da non confondere con quanti criticano i nuovi movimenti religiosi partendo da una prospettiva cristiana, cattolica o protestante, cfr. il mio Il sacro postmoderno. Chiesa, relativismo e nuova religiosità, Gribaudi, Milano 1996, pp. 141-193.
(9) In alcuni casi — come in quelli degli Hare Krishna o della Soka Gakkai — l’espressione “nuovi movimenti religiosi” è inadeguata, perché si tratta di gruppi radicati in forme antiche e tradizionali, rispettivamente, dell’induismo e del buddhismo. Sarebbe dunque più preciso parlare semplicemente, quando questi gruppi si presentano in Occidente, di “minoranze religiose”.
(10) Si noti, peraltro, che le religioni precolombiane fondate sul sacrificio umano erano certamente, appunto, religioni, per palese consenso degli storici. Questa osservazione dovrebbe aiutare a comprendere come sia nominalistico e inutile lo sforzo di determinare, nel caso di nuovi movimenti religiosi controversi, se si tratti “veramente” di religioni, o non invece di “pseudo-religioni”. Un’organizzazione può essere di tipo non religioso e nello stesso tempo benemerita — come la Croce Rossa —, così come una religione — per esempio, appunto, in quanto fondata sul sacrificio umano — può essere contraria alla morale o al diritto naturale, aberrante e nociva, senza per questo cessare di essere una religione.
(11) Assemblée Nationale, doc. cit., p. 13. Più brutalmente, un militante fra i più noti dell’ambiente anti-sette francese, nominato fra i membri dell’ “Osservatorio” governativo nel 1996, pensa che “non esiste in realtà alcuna autentica pratica religiosa se questa non si inserisce nel quadro legale della società nella quale si esprime e non lo rispetta” (Jean-Marie Abgrall, La Mécanique des sectes, Payot, Parigi 1996, p. 17). Se ne dovrebbe concludere che, per esempio, la celebrazione della Messa cattolica nell’Albania comunista — dove era severamente vietata dal “quadro legale” vigente — non era una “autentica pratica religiosa”, ma “pseudo-religiosa” o “settaria”.
(12) Giovanni Paolo II, Discorso a rappresentanti di Organizzazioni non-governative e di Agenzie internazionali, a Roma in concomitanza con il vertice della FAO, del 12-11-1996, in L’Osservatore Romano, 13-11-1996, n. 3; sottolineatura nell’originale.
(13) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2109.
(14) Ibidem.
(15) Ibidem.
(16) Cfr. Sherbert v. Verner, 374 U.S. 398 (1963).
(17) Cfr. Wisconsin v. Yoder, 406 U.S. 209, 215 (1972).
(18) Cfr. Employment Division v. Smith, 494 U.S. 872 (1990). Questa sentenza — come le due citate nelle note precedenti — può ora essere letta, in un’utile edizione annotata, nel volume di Terry Eastland (a cura di), Religious Liberty in the Supreme Court. The Cases That Define the Debate Over Church and State, Ethics and Public Policy Center, 2a ed., Washington, e William B. Eerdmands Publishing Company, Grand Rapids (Michigan)-Cambridge 1995.
(19) Cfr. Vincenzo Cesareo e altri, La religiosità in Italia, Mondadori, Milano 1995, p. 324.
(20) Cfr. Luigi Berzano e M. Introvigne, La sfida infinita. La nuova religiosità nella Sicilia centrale, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1994, pp. 87-97.
(21) Cfr. Peter Novick, That Noble Dream. The “Objectivity Question” and the American Historical Profession, Cambridge University Press, Cambridge 1988.
(22) Cfr. Arthur Conan Doyle, The Adventure of the Sussex Vampire, in Idem, The Case-Book of Sherlock Holmes, Murray, Londra 1927, pp. 100-127 (trad. it.: Il vampiro del Sussex, in Idem, Il ritorno di Sherlock Holmes, Mondadori, Milano 1978, pp. 139-158).
(23) Cfr. M. Introvigne e J. G. Melton (a cura di), op. cit., passim.
(24) Cfr. Tribunal de Grande Instance de Lyon, sentenza del 22 novembre 1996.
(25) Ibid., p. 21.
(26) Ibid., p. 20.
(27) Per quanto mi riguarda, ho fatto pervenire al Presidente del Tribunale di Lione e alla stampa, al momento della mia testimonianza, una lettera — di cui ho letto i passi salienti nel corso della testimonianza stessa — nella quale, dopo aver espresso il mio rammarico perché “la pratica francese non permette agli specialisti universitari di presentarsi davanti ai tribunali, come avviene in altri paesi, come amici curiae, cioè come testimoni indipendenti dalle parti”, e aver precisato di considerarmi “in ogni caso un testimone di questo tipo”, “testimone sulla Scientologia e certamente non per la Scientologia”, aggiungevo che “come specialista cristiano, considero la cosmologia fondamentale della Chiesa di Scientology come incompatibile con quella della Bibbia”. Sottolineavo pure che “gli insegnamenti della Chiesa cattolica e della Chiesa di Scientology sono in contraddizione tra loro su parecchi punti fondamentali” (lettera del 4 ottobre 1996).
(28) David G. Bromley e Anson D. Shupe, Organized Opposition to New Religious Movements, in The Handbook of Cults and Sects in America, JAI Press, Greenwich (Connecticut) 1993, pp. 177-198 (pp. 194-195).
(29) Ibid., p. 194.
(30) “Il membro deluso, e l’apostata, in particolare, sono informatori le cui prove devono essere utilizzate con circospezione. L’apostata ha generalmente bisogno di giustificare se stesso. Cerca di ricostruire il suo passato, di scusare le sue affiliazioni precedenti e di biasimare coloro che erano stati i suoi colleghi più prossimi. Non è dunque raro che impari a fabbricarsi una “storia di atrocità” per spiegare come — attraverso la manipolazione, l’inganno, la coercizione o le frodi — è stato prima condotto ad aderire, quindi gli è stato impedito di abbandonare un’organizzazione che oggi disapprova e condanna. Gli apostati, le cui narrative sono sensazionalizzate dalla stampa, cercano talora di trarre profitto dalle loro esperienze vendendo i loro racconti ai giornali o pubblicando libri (spesso scritti da “negri”)” (Bryan R. Wilson, The Social Dimensions of Sectarianism, Clarendon Press, Oxford 1990, p. 19).
(31) Cfr. i miei Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo, SugarCo, Milano 1990; e Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Seicento ai nostri giorni, Mondadori, Milano 1994.
(32) Cfr., per un primo accostamento, Arturo Damn Arnal, Falacias Filosoficas, MiNos, Città di Messico 1991, pp. 49-50; cfr. pure G. Cantoni, Relativismo, realismo e verità, in Adveniat Regnum. Rivista di studi cattolici, anno 4, n. 3-4, inverno 1966-67, pp. 45-52.
(33) Cfr. su questo punto le osservazioni di Enrico di Robilant, Modelli nella filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna 1968.
(34) La narrativa perfetta può esistere, per il credente, ma appartiene alla teologia: è il modo in cui Dio vede eternamente il reale che ha creato.
(35) Il carattere ostentato della preferenza per le narrative che provengono dagli ambienti anti-sette è, per esempio, evidente in un opuscolo pubblicato dal ministero della Famiglia federale tedesco sulla Chiesa dell’Unificazione: Die Mun-Bewegung [Il movimento Moon], Herausgegeben im Auftrag des Bundesministeriums für Familie, Senioren, Frauen und Jugend vom Bundesverwaltungsamt, Colonia 1996. Migliore, in quanto certamente più problematico — ma sempre un poco sbilanciato nella scelta fra le narrative — è l’opuscolo del ministero della Gioventù e della Famiglia austriaco: Sekten. Wissen schützt! [Sette. Sapere protegge!], Bundesministerium für Jugend und Familie, Vienna 1996. Questi opuscoli forniscono anche gli indirizzi di movimenti anti-sette, insieme a quelli degli organismi pastorali cattolici e protestanti che svolgono un’attività apologetica e polemica nei confronti delle “sette”.
(36) Cfr. James T. Richardson, Une critique des accusations de “lavage de cerveau” portées à l’encontre des nouveaux mouvements religieux: questions d’éthique et de preuve, in M. Introvigne e J. G. Melton, op. cit., pp. 85-97, con ampia bibliografia. Com’è suo solito più rozzamente — ma, insieme, più sinceramente — di altri, il dottor Jean-Marie Abgrall informa che “la manipolazione mentale — o condizionamento psichico, o ancora lavaggio del cervello (in inglese brainwashing) — è la base dell’indottrinamento settario” (op. cit., p. 20). L’uso delle particelle “o […] o ancora” mostra chiaramente che si tratta di sinonimi, e che l’uso dell’una o dell’altra espressione risponde a semplici strategie di comunicazione. Cfr. una critica alle posizioni del dottor Abgrall pure in Ermanno Pavesi, La psichiatria e i movimenti anti-sette, in Cristianità, anno XXV, n. 263, marzo 1997, pp. 7-21.
(37) Dichiarazione del dottor Jean-Marie Abgrall, cit. in Assemblée Nationale, doc. cit., p. 83.
(38) Cfr. Board of Social and Ethical Responsibility for Psychology. American Psychological Association, Memo al comitato DIMPAC, 11 maggio 1987; cfr. Dick Anthony e Thomas Robbins, Law, Social Science and the “Brainwashing” Exception to the First Amendment, in Behavioral Sciences and the Law, vol. 10, 1992, pp. 5-29; e J. Gordon Melton, The Modern Anti-Cult Movement in Historical Perspective, The Institute for the Study of American Religion, Santa Barbara 1995.
(39) Sugli attacchi all’Opus Dei, cfr. il mio Il sacro postmoderno. Chiesa, relativismo e nuova religiosità, cit., pp. 157-177; su comunità francesi nate dal Rinnovamento nello Spirito, cfr. Thierry Baffoy, Antoine Delestre e Jean-Paul Sauzet, Les Naufragés de l’Esprit. Des sectes dans l’Église catholique, Seuil, Parigi 1966 (cfr. una critica nel mio I naufraghi del buon senso, in Cristianità, anno XXIV, n. 254-255, giugno-luglio 1996, pp. 13-15). Sui focolarini, i neocatecumenali e Comunione e Liberazione, cfr. Gordon Urquhart, The Pope’s Armada, Bantam Press, Londra 1995 (trad. it., Le armate del Papa. Focolarini, Neocatecumenali, Comunione e Liberazione. I segreti delle misteriose e potenti nuove sette cattoliche, Ponte alle Grazie, Firenze 1996); sulle suore di Madre Teresa, cfr. Christopher Hitchens, The Missionary Position. Mother Theresa in Theory and Practice, Verso, New York-Londra 1995: cfr. una critica a queste ultime opere nel mio “Sette cattoliche”: l’equivoco continua, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, pp. 3-5.