Mauro Ronco, Cristianità n. 155 (1988)
Poiché l’uso degli stupefacenti a scopo voluttuario non costituisce una possibile libera opzione per l’individuo e, quindi, non può assolutamente essere riconosciuto come un diritto, si fa sempre più urgente che — contro le prospettazioni fuorvianti del fenomeno e oltre il sensazionalismo appassionato ma inconcludente — i pubblici poteri ottemperino a propri doveri fondamentali impedendo la diffusione della droga con adeguati mezzi sia preventivi sia repressivi.
Mentre la situazione si aggrava
Il flagello della droga. Note su cause, effetti e rimedi
Il fenomeno della diffusione degli stupefacenti per uso voluttuario ha assunto negli ultimi decenni dimensioni estremamente preoccupanti, al punto che i governi di molte nazioni e gli organismi di cooperazione internazionale hanno ormai posto l’obbiettivo della lotta contro la droga fra quelli più importanti e decisivi per l’avvenire dell’umanità (1).
Si tratta di un vero e proprio flagello sociale, sia perché è causa del deterioramento fisico e psichico di masse sempre più vaste, sia perché costituisce il terreno idoneo per il sorgere e l’ingrandirsi di organizzazioni criminali, che traggono dallo smercio degli stupefacenti enormi profitti illeciti.
Nonostante la gravità delle conseguenze, personali e sociali, legate all’uso delle droghe, sia sotto gli occhi di tutti e provochi, di tanto in tanto, la vibrante denuncia dei mezzi di comunicazione di massa, tuttavia cresce, di anno in anno, la dimensione quantitativa del fenomeno, lasciando quasi l’impressione che si tratti di un processo inarrestabile. D’altra parte, non si può negare che l’impegno delle forze di polizia e della magistratura contro il diffondersi della droga sia stato in Italia, soprattutto a partire dall’inizio degli anni Ottanta, veramente eccezionale, fino a sfociare nel sequestro di decine di chilogrammi di eroina e di cocaina e di tonnellate di haschisch, nello sradicamento di potenti organizzazioni dedite al traffico illecito e nell’individuazione dei collegamenti che le bande degli importatori hanno con alcuni centri della produzione internazionale. Se, dunque, uno sforzo così intenso, dispiegato con l’ausilio della più avanzata tecnologia investigativa, della più rigida coercizione processuale e della minaccia di gravissime sanzioni punitive, non è riuscito neppure a scalfire le dimensioni del traffico, anzi, se quest’ultimo si è con gli anni via via esteso, significa che cause di portata gigantesca sollecitano ed esaltano il dinamismo del fenomeno.
Purtroppo la riflessione intorno a un problema di così vasta portata quasi mai si è data carico di ricercare le cause, ma si è limitata a catalogare gli effetti, oscillando ciecamente fra la sottovalutazione della questione e l’allarmismo panico legato al singolo avvenimento drammatico.
Un’iniziativa «liberalizzatrice» del Partito Radicale
Non mancano, poi, di tanto in tanto, le apparizioni pubbliche di qualche mèntore della democrazia italiana, che proclama con arroganza senza ritegno la tesi secondo cui la diffusione del veleno per opera dei pubblici poteri dovrebbe costituire il rimedio contro la recrudescenza del male. Nel mese di agosto del 1987, il Partito Radicale ha fondato una Lega internazionale antiproibizionista contro la criminalità e la droga (2). L’on. Marco Pannella, leader radicale, illustrando gli scopi del nuovo organismo, ha fatto sapere che la proposta del suo partito consiste nel liberalizzare la droga per stroncare il mercato nero, e ha promesso che essa sarà uno dei prossimi cavalli di battaglia radicali «come lo sono stati il divorzio e l’aborto» (3). Secondo il parlamentare radicale, infatti, sarebbe il «regime proibizionista» ad aver tramutato «la droga in un flagello» (4). Se, invece, la vendita fosse consentita e regolamentata, la grande criminalità che si arricchisce con la droga perderebbe una formidabile fonte di lucro e dovrebbe «riconvertire la sua attività» (5). I tossicodipendenti, che tutti conoscono per essere fra i più insidiosi veicoli della diffusione delle droghe, non dovrebbero più, vedendosi messe le sostanze a disposizione dallo Stato, trasformarsi in spacciatori per procurarsi il loro «buco» (6) quotidiano. «La droga sarebbe libera», proclama sempre l’on. Marco Pannella, «come lo sono l’alcol, gli psicofarmaci e il tabacco. Libera, ma controllata dalla coltura alla produzione, dal trasporto alla vendita e al consumo. E questo significherebbe ricondurla sotto il controllo legale» (7).
Il dibattito culturale e politico sul tema degli stupefacenti rischia di restare nuovamente inquinato dalla fuorviante prospettazione fattane dalle avanguardie del processo di degrado morale della società italiana. Il problema vero e angoscioso, consistente nell’onnipervadente progredire della schiavitù della droga fra i giovani, è implicitamente accantonato come inesistente nel momento stesso in cui la legale accettazione del male viene proposta come suo fondamentale rimedio. Secondo la tesi dell’on. Marco Pannella, il male non starebbe nell’annientamento del corpo e nella corrosione della psiche, prodotti dalla assunzione reiterata delle sostanze velenose, ma esclusivamente nell’opera di sfruttamento del vizio da parte delle organizzazioni criminali. Come a proposito della «legalizzazione» dell’aborto si sarebbe dovuto promulgare una «legge» permissiva per combattere il male degli aborti clandestini, così ora si dovrebbe «legalizzare» la distribuzione degli stupefacenti allo scopo di combattere la malvagia operosità delinquenziale dei mercanti di morte. Ma tanto la lotta contro gli aborti clandestini, quanto quella contro gli spacciatori di sostanze stupefacenti sono falsi scopi, proposizioni-talismano (8) lanciate e ripetute per rendere storicamente inevitabile, socialmente normale, moralmente accettabile, giuridicamente indifferente l’assunzione degli stupefacenti per scopo voluttuario. I profitti illeciti dei venditori di droga, così come i guadagni perversi degli uccisori clandestini dei feti nel grembo materno, sono mali che possono essere combattuti nella realtà — e non in modo solo apparente — soltanto sul presupposto di un rigido giudizio di illiceità nei confronti dei comportamenti — il consumo degli stupefacenti e l’interruzione volontaria della gravidanza — sulla cui diffusione si innesta l’opera di sfruttamento da parte degli spacciatori e degli operatori sanitari disonesti. Per esempio, per ridurre il numero di coloro che sfruttassero una malattia, occorrerebbe anzitutto cercare di curare chi ne è affetto, onde circoscrivere le occasioni e le possibilità che la cupidigia degli sfruttatori potesse essere soddisfatta, e non aumentarne indiscriminatamente il numero.
Lo stesso discorso deve valere quando si voglia realmente trattenere il male morale e impedire che esso dilaghi nella società senza limiti e freni. Qualora, invece, si pretenda di limitare il fronte alla lotta contro gli sfruttatori dell’umana debolezza, abbandonando il terreno della resistenza sociale contro il vizio che si diffonde, e, anzi, proclamando la «legittimità» di esso, come se ciascuno avesse un «diritto» o una «aspettativa» giuridicamente protetta alla sua pratica, allora è inevitabile non soltanto che il vizio si socializzi sempre più e divenga addirittura costume, contaminando strati sempre più vasti della popolazione, ma che pure si ingigantiscano i guadagni di quanti fanno della gestione del vizio la loro professione.
Sennonché, mentre pochi osano approvare nella sua drastica radicalità la tesi secondo cui occorre «legalizzare» la distribuzione degli stupefacenti per risolvere il problema posto dalla loro diffusione, molti uomini politici e di cultura condividono, esplicitamente o implicitamente, entrambe, o almeno una, delle due premesse fondamentali di tale tesi, cioè che 1. l’uso degli stupefacenti esprimerebbe una delle possibili libere opzioni dell’individuo e non rappresenterebbe, pertanto, un male morale (9), e che 2. in ogni caso la società non avrebbe alcun diritto di contemplare sanzioni per chi decidesse liberamente di dedicarsi alla propria autodistruzione attraverso l’uso degli stupefacenti (10).
Ritengo che una delle cause dell’insuccesso patito nella lotta contro la droga a livello di prevenzione stia nella mancanza di convinzione relativamente alla sussistenza di uno stretto dovere morale e di giustizia per i pubblici poteri di impedire con mezzi preventivi e repressivi adeguati la diffusione degli stupefacenti.
Poiché, dunque, interessa riannodare le fila di un discorso che pervenga, in qualche modo, alla conoscenza delle cause di un flagello sociale, e all’individuazione dei rimedi, di costume e giuridici, che possano ostacolarne il progresso, mi pare di fondamentale importanza esporre brevemente le ragioni per cui il consumo della droga non esprime una delle possibili libere opzioni dell’individuo, ma costituisce, tutto al contrario, un ostacolo allo sviluppo della personalità dell’uomo. Vanno, poi, ricordate le ragioni per cui le autorità dello Stato hanno il dovere giuridico, oltreché morale, di operare per stroncare il fenomeno della diffusione degli stupefacenti.
Gli effetti dell’assunzione di stupefacenti
Per rispondere al primo problema — relativo, in ultima analisi, alla qualità morale di un certo tipo di contegno — occorre anzitutto conoscere bene la natura del fatto, cioè le caratteristiche e gli effetti dell’assunzione di stupefacenti, natura che spesso è quasi sconosciuta, non soltanto alla massa di coloro che si limitano alle notizie offerte dalla divulgazione spicciola, ma anche agli operatori politici e giuridici.
La letteratura scientifica ha consentito di evidenziare sia i danni arrecati dalle sostanze tossiche alla componente psichica e a quella organica dell’uomo, sia la struttura fondamentale dell’atto che dà soddisfazione alla pulsione tossicomanica.
Dal punto di vista psichico le droghe hanno un impatto brutale sul sistema nervoso (11). Alterano in primo luogo la percezione, falsando le relazioni di spazio e di tempo e allontanando via via il soggetto dalla realtà. Incidono, poi, sulla memoria, provocando stati di amnesia. Producono anche disordini nella funzione psicomotoria, arrecando un deterioramento di tutti i meccanismi di risposta, altamente integrati, del sistema nervoso, che controllano gli atti complessi. Cagionano anche profondi mutamenti delle funzioni mentali, sia transeunti che permanenti, e drastici cambiamenti negli status psicologici. Si indeboliscono talora i freni inibitori, si accresce tal’altra l’irritabilità del soggetto; droghe come le anfetamine e la cocaina possono accentuare il senso di spavalderia, fino a far compiere intenzionalmente atti temerari; esperienze iniziali di oppiacei possono scatenare atti imprudenti o indiscriminati. Le anfetamine producono logorrea, iperattività, millanteria; stati depressivi e mania di suicidio sono associati particolarmente alle sostanze sedative e ipnotiche. La quasi totalità delle droghe psicoattive possono provocare stati confusionali e delusionali transeunti, ovvero reazioni di panico come se venisse a mancare completamente il rapporto con l’ambiente circostante. Reazioni paranoiche di tipo persecutorio si associano all’uso di droghe stimolanti, come la cocaina e le anfetamine. Un uso prolungato di stimolanti può provocare psicosi simili a quelle prodotte da allucinogeni come l’LSD (12).
Agli effetti psichici si associano ben presto gli effetti organici. L’incidenza della droga sul fisico è provata dai meccanismi di difesa dell’organismo alle prime assunzioni, che perdurano finché si produce l’assuefazione. Poi si instaura un apparente equilibrio, durante il quale l’azione tossica provoca subdolamente danni all’apparato digerente, al sistema vascolare-circolatorio, e così via, fino a portare l’individuo lentamente anche alla morte (13).
Per quanto riguarda la struttura dell’atto che dà soddisfazione, tramite il consumo di stupefacenti, all’appetizione tossicomanica, le ricerche antropologiche nello studio psicopatologico delle tossicomanie hanno dimostrato che il terreno di approdo della pulsione tossicomanica — e insieme ciò che ne costituisce l’aspetto attraente, irrefrenabile e rischioso — è l’ottundimento euforico-sognante dell’io, che evade dal reale e si rifugia nel mondo inconsciamente figurato dagli effetti psichici e somatici provocati dalla droga (14). Questo particolare stato di uscita dell’io da sé esprime la rinuncia a perseverare nell’essere e tende ad annientare la coscienza individuale in un continuum di rappresentazioni effimere in cui sono soppressi tanto il soggetto che l’oggetto (15). La ricerca di questa fuoriuscita da sé stessi fonda una modalità di esistenza contrassegnata non più dal procedere e dal fare volontario, in cui l’uomo si presenta come la causa cosciente della sua propria causazione, bensì dal divenire involontario, in cui l’uomo è oggetto di qualcosa che accade in lui. Il correlato strutturalmente polare dell’ottundimento euforico-sognante è rappresentato dall’angoscia (16).
Se si esamina con attenzione la correlazione fra la struttura dell’atto che dà soddisfazione alla pulsione tossicomanica e gli effetti sul corpo e sulla psiche dell’assunzione di stupefacenti, ci si può rendere conto del circolo vizioso che si instaura nel rapporto fra la persona e il reale, a seguito delle ripetute assunzioni, nonché della perdita irreparabile che si produce nell’interiorità dell’uomo (17). Mentre, da un canto, nell’atto che dà sfogo alla pulsione appetitiva, la struttura del fare volontario scompare per lasciare dominante la struttura di accadere che sovrasta la coscienza, da un altro canto gli effetti chimici delle sostanze distruggono progressivamente le funzioni psichiche e i centri organici che costituiscono il supporto di quell’attività libera, a cui si era voluto, in primo momento con decisione libera, rinunciare. In questo processo viene perduto ciò che è più prezioso nell’uomo, cioè la sua capacità di possedere la struttura portante degli atti di libera decisione. Ora, questo processo di annientamento, che non possiede la radicalità del suicidio, ma che, per qualche verso, è più insidioso di esso, perché si sviluppa a partire dalla corrosione dei nuclei interiori che rendono possibili azioni di libera scelta, fino a pervenire alla distruzione delle funzioni organiche, non esprime alcun tipo di libertà, ma ne costituisce la più totale negazione. Se la libertà, infatti, è definita dall’agire consapevole e razionale in vista del conseguimento di un bene, il processo che insorge a seguito del consumo reiterato di stupefacenti è definito dall’agire via via sempre meno consapevole e sempre più irrazionale in vista dell’annichilimento di sé e, quindi, in vista del nulla.
Libertà e schiavitù di fronte alla droga
Soltanto una falsa idea della libertà, come possibilità di fare quello che si vuole, indipendentemente da ogni costrizione esterna, potrebbe in qualche modo far apparire l’assunzione degli stupefacenti come un’opzione libera, accettabile al pari di tante altre (18). In ogni caso, proprio il processo di degradazione psichica e fisica del tossicodipendente mostra l’intima contraddittorietà di un’idea di libertà assoluta, come possibilità dell’uomo di fare quello che gli aggrada, indipendentemente dalla finalità dell’atto compiuto. Invero, gli effetti dell’atto di «libertà» assoluta tolgono via via al tossicodipendente la stessa possibilità di compiere altri atti espressivi del suo arbitrio, fino a ridurlo totalmente vittima dell’oggetto materiale del suo contegno. In questo modo, la frase, frequentemente ripetuta, secondo cui il tossicodipendente è «schiavo della droga» non potrebbe suonare più esattamente espressiva della tragica realtà di inversione nel rapporto soggetto-oggetto, inversione che si verifica nella relazione fra l’assuntore abituale di sostanze stupefacenti e il mondo delle cose materiali.
Le considerazioni svolte consentono di comprendere perché la cultura contemporanea, pur pronta a riconoscere gli effetti dannosi delle droghe sulla salute, tenda invece a sottrarsi a un discorso globale sulle conseguenze, individuali e sociali, del loro uso, e sui rimedi che potrebbero essere apportati per un risanamento effettivo. Infatti, come più sopra ho cercato di dimostrare, l’opposizione alla pretesa dell’individuo di vedersi riconosciuto come un «diritto» il soddisfacimento dell’impulso di appetizione tossicomanica, mette in discussione l’idea di libertà che è socialmente e giuridicamente prevalente nel mondo sorto dal processo rivoluzionario moderno (19). Ora, proprio quest’idea di libertà non può essere messa fino in fondo in discussione, perché su di essa si reggono le strutture politiche ed economiche della società contemporanea. Così, la prospettiva dell’irrogazione di una sanzione coercitiva nei confronti dell’utente di droghe è respinta dalla coscienza di molti come se essa conducesse alla violazione dei diritti essenziali dell’individuo. Le ragioni fondanti la repressione dello stesso traffico di stupefacenti appaiono, perfino a giuristi di vaglia, sempre più problematiche e discutibili (20). Rientra nella stessa tendenza l’orientamento, ampiamente diffuso anche nella letteratura giuridica italiana, volto a delegittimare ogni forma di coercizione nei confronti dell’utente di stupefacenti, quasi che quest’ultimo fosse inevitabilmente un malato, bisognoso al massimo di cure — che gli saranno praticate solo se la sua volontà lo consente —, ma non assolutamente un soggetto da correggersi nei comportamenti o da sanzionarsi a causa di essi (21).
Su quest’ultimo aspetto occorre spendere qualche parola, perché la tematica concernente il tossicodipendente-malato costituisce spesso una scorciatoia per rimuovere o non affrontare alcuni problemi di fondo. E indubbio, infatti, che l’assunzione reiterata degli stupefacenti provoca una condizione di malattia e, nei casi estremi, addirittura la morte. Ma i tossicomani non costituiscono un gruppo umano che si distacca dalla norma per portare in sé stesso le stigmate di una ineluttabile malattia. Il continuo aumento del numero di costoro, appartenenti a tutte le categorie sociali e culturali, «significa che la tendenza verso questa particolare modalità di esperire, non può essere la risultante né di una devianza in senso biologico, né di una irripetibile situazione individuale, bensì una qualità comune a tutti gli individui della specie» (22). Ciò vuol dire, da un lato, che nessuno è esente dal rischio di restare maniacalmente attratto dall’uso delle sostanze psicoattive, e, da un altro lato, che, prima di pervenire allo stadio più grave della malattia, la maggior parte di coloro che diverranno tossicodipendenti sono persone psichicamente e fisicamente sane, pur essendo portatrici di problemi economici, psicologici, morali e affettivi. Ancor più meritevole di rilievo è il fatto che la degradazione delle strutture psichiche e organiche non si consuma tutta in un momento (23), ma è la risultante di un processo nel corso del quale si verificano arresti e arretramenti, per lo più determinati dal timore della persona di sprofondare definitivamente nell’abisso dell’uso compulsivo dello stupefacente, e, quindi, della perdita completa della libertà del volere. L’analisi differenziale dei consumatori di droghe ha consentito di enucleare vari modelli comportamentali, di cui soltanto alcuni esprimono una condizione di malattia conclamata. Si sono così distinti l’uso sperimentale, l’uso socio-ricreazionale, l’uso circostanziale-situazionale, l’uso intensificato e l’uso compulsivo (24). Soltanto in quest’ultimo tipo di situazione si produce una dipendenza fisica e psichica dalla sostanza, tale che l’individuo non può interrompere l’uso senza provare un grave disagio fisico o uno squilibrio psichico. Il quadro comportamentale sopra menzionato può essere discusso e contestato (25), ma «dimostra l’errore fondamentale di voler formulare schemi di controllo giuridico in funzione di un tipo standard di utente di droga» (26). Se è vero che la tossicodipendenza è una malattia, è anche vero che tossicomani non si nasce ma si diventa, e che, comunque, tossicomani non si diventa tutto a un tratto, ma per gradi successivi. La norma giuridica, pertanto, non può appiattirsi sull’erronea considerazione dell’ineluttabilità di una malattia e disporre soltanto, in via riabilitativa, in relazione all’ipotesi di un processo patologico in atto. Essa deve, anzitutto, prendere in considerazione la possibilità reale di impedire la diffusione epidemica della malattia e disporre, anche attraverso il dispiegamento della minaccia penale, in relazione all’ipotesi che un processo patologico non sia attuale, ma soltanto probabile sulla base del contegno del soggetto.
La società e lo Stato davanti all’uso della droga
Si staglia qui, in tutta la sua gravità, quel che mi pare veramente il nodo fondamentale dell’intera questione. Se l’uso individuale degli stupefacenti non potesse o non dovesse interessare alla società, e quindi non fosse esigibile che lo Stato lo reprimesse con mezzi proporzionati, allora sarebbe assurda e arbitraria la stessa lotta contro gli spacciatori di tali sostanze. Un divieto, infatti, si regge in vista di un bene da conseguire, bene che il contegno vietato impedisce di raggiungere. Ora, se l’uso individuale della droga fosse qualcosa di indifferente per la società, il divieto del traffico non sarebbe posto in vista del perseguimento di un bene, ma costituirebbe espressione del puro arbitrio dello Stato. Ma l’uso della droga non può e non deve essere indifferente per la società. Se l’effetto di essa consiste principalmente nello strappare all’uomo la struttura portante degli atti di libera decisione, allora è compito dello Stato impedire il più possibile che si producano le condizioni sociali perché si diffonda una situazione in cui gli uomini perdano il possesso di tale struttura fondante dell’essere. Abbandonare gli uomini alla propria autodistruzione significherebbe misconoscere il principio fondamentalissimo di tutti i principi sociali, che esprime la stessa essenza metafisica della società, cioè il principio di solidarietà (27). La naturale socialità della persona umana manifesta che il destino dell’uomo si compie nella realizzazione dei valori in unione con le altre persone, secondo l’ordinazione essenziale del singolo nei confronti della società, e nel contempo secondo l’ordinazione parimenti essenziale della società nei confronti dei singoli membri (28). Ora, questa reciproca correlazione fra la persona e la società ha carattere non soltanto ontologico, perché esprime il vincolo essenziale che sussiste fra i membri e la società, ma anche morale e normativo, perché esprime ciò che deve essere nella concretezza storica della vita della società (29). In questo senso i singoli uomini hanno dei doveri nei confronti della società, così come quest’ultima ha dei doveri verso di loro. Ma strappare da sé stessi la struttura portante degli atti che possono concretamente attuare le varie ipotizzabili forme di collaborazione con gli altri uomini e consegnarsi all’autodistruzione, significa sottrarsi, in modo radicale e tendenzialmente irrimediabile, ai più fondamentali doveri di solidarietà che sono imposti dalla socialità della persona e dall’essenza della vita in comune.
Lo Stato, per altro verso, che trascurasse di orientare i suoi membri verso il rispetto di tali doveri e non si preoccupasse del loro adempimento, violerebbe, a sua volta, il fondamentale dovere di orientare la propria condotta al bene non soltanto di un singolo membro, ma di tutti i membri, assunti collettivamente. E, invero, se i singoli si mettessero nella condizione di non adempiere ai propri doveri di solidarietà sociale, e se lo Stato tollerasse che ciò accadesse, non si comprenderebbe chi, alla fine, potrebbe realmente svolgere opera di sostegno e di aiuto verso gli altri, e come la società potrebbe ancora sussistere. Con ciò lo Stato porrebbe le basi per l’innesco di un processo di autodistruzione della società intera. In realtà, la tolleranza da parte dello Stato del processo di distruzione che i singoli mettessero in opera contro di sé, si riverberebbe sulla Collettività, infradicita da un processo di autodemolizione fino all’annichilimento di qualsiasi forma organizzata di società.
Il fondamento dell’intervento dello Stato, in via preventiva e repressiva, contro l’uso di stupefacenti è imposto, in ultima analisi, dal principio di solidarietà: se una modalità di vita tossicomanica impedisce l’adempimento delle più essenziali obbligazioni di tipo familiare e sociale (30), allora è giusto e doveroso che sia proibito l’uso di quelle sostanze che ineluttabilmente conducono a una tale situazione. Se è vero che il principio di solidarietà impone alla società di accogliere, mantenere e assistere tutti i soggetti che, per le cause più varie, anche riconducibili a una loro eventuale colpevolezza, siano incapaci di vivere in modo autosufficiente, per non essere in grado di avere rapporto con il reale secondo modalità di autodominio e di signoria delle proprie azioni, è anche vero che tale principio impone a ciascuno un dovere di collaborazione e di sostegno verso gli altri, che è compito della società custodire e garantire anche con la minaccia della sanzione e l’applicazione della coercizione personale. La mentalità corrente induce a ravvisare le esigenze della solidarietà soltanto nel momento in cui esse si concretizzino nella fornitura di prestazioni dello Stato o dell’ente pubblico a favore dei singoli; occorre, invece, per riacquisire una dimensione integrale della vita sociale, rendersi conto che esistono anche dei doveri di solidarietà dei singoli reciprocamente fra loro, isolatamente considerati o riuniti nelle varie formazioni sociali, e che lo Stato ha il dovere di garantire questi obblighi di solidarietà con la forza che inerisce alla sua funzione.
Mancanza di solidarietà e un’errata concezione della libertà all’origine del flagello della droga
Il problema della diffusione della droga, variegato e complesso e di difficilissima soluzione per la molteplicità di aspetti che involge, potrà essere circoscritto e reso meno drammatico soltanto quando la nostra società e la nostra mentalità saranno nuovamente impregnate di un operoso e non demagogico spirito di solidarietà. La completa assenza di un tale spirito, fin dalle basi strutturali della società contemporanea e della forma di Stato che la caratterizza, spiega perché la diffusione dell’uso della droga appaia quasi inarrestabile.
Molti studiosi mettono in luce che l’itinerario personale conducente all’esperienza tossicomanica è spesso costellato dalla dolorosa e ripetuta constatazione che intorno a sé, nel deserto della metropoli avanzata — e tutto il mondo occidentale, ormai, è, dal punto di vista concettuale, una metropoli sconfinata — non si trova il volto amico di chi presti disinteressatamente la propria solidale partecipazione ai problemi degli altri. Si può condividere senz’altro un siffatto modo di accostare il problema dell’iniziazione e della protrazione nell’uso degli stupefacenti. Assai raramente, però, viene ricordato che l’assenza di solidarietà — come tensione verso la giustizia, prima ancora che come espressione della carità — costituisce la ragione fondamentale, a livello strutturale, dell’apparentemente inarrestabile avanzata della droga. L’individuazione, sul piano scientifico, degli scopi del vivere associato al di fuori e indipendentemente da ogni aspirazione verso il bene e verso I’acquisizione delle virtù morali; la propagazione, da parte dei mezzi di comunicazione di massa, di un modello di uomo, perfettamente coerente a quell’immagine di società (31), che realizza sé stesso nella misura in cui si rende libero dagli altri e individualistico consumatore dei beni materiali che la produzione industriale gli somministra, costituiscono le cause profonde tanto dell’epidemico diffondersi dell’uso della droga in ogni strato della vita sociale, quanto dell’omissione della sua efficace repressione. Quello Stato, infatti, che pretende di «legittimarsi» sulla base del puro funzionalismo produttivistico e consumistico che garantisce, non possiede le categorie giuridiche idonee per frapporre un ostacolo reale all’ingiustizia radicale consistente nell’egoistico sottrarsi del singolo ai propri doveri di solidarietà verso gli altri.
Soltanto la riacquisizione della vera nozione della giustizia sociale, basata sui principi della solidarietà, della sussidiarietà e del primato del bene comune (32), potrà ridare coraggio a tutti coloro che operano per la pace sociale e concorrere a debellare il flagello della droga (33).
Mauro Ronco
Note:
(1) Testimoniano l’importanza attribuita in sede internazionale alla lotta contro la droga le Convenzioni fra gli Stati, che si susseguono ininterrottamente a partire da quella firmata a L’Aia il 23 gennaio 1912. Le più rilevanti sono attualmente la Convenzione Unica sugli stupefacenti sottoscritta a New York il 30 marzo 1961, il Protocollo sulle sostanze psicotrope sottoscritto a Vienna il 21 febbraio 1971, e quello sottoscritto a Ginevra il 25 marzo 1972.
(2) Cfr. la Repubblica, 19-8-1987.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem.
(5) Ibidem.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) sul concetto di parola-talismano. cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo, trad. it., Edizione de L’Alfiere, Napoli 1970, pp. 40-49.
(9) Cfr. GIANCARLO ARNAO, Rapporto sulle droghe, Feltrinelli, Milano 1976; e GUIDO BLUMIR, La marijuana fa bene, Tattilo, Roma 1973.
(10) Cfr., fra i tanti, GIOVANNI COSI, La liberazione artificiale, L’uomo e il diritto di fronte alla droga, Giuffrè, Milano 1979; e GAETANO INSOLERA e LUIGI STORTONI, Un’altra legge «speciale»: la legge sulla droga, in La Questione criminale, 1976, pp. 97 ss. Per una ricerca approfondita sui disturbi esistenziali di natura medico-internistica e psicopatologica, cfr. UGO FORNARI e ROSANNA ROSSO, La sindrome di astinenza (S.d.A.) in psichiatria forense. Parte prima: aspetti clinici, in Rivista italiana di medicina legale, 1987, pp. 37 ss.; Parte seconda: aspetti medico-legali e psichiatrico-forensi, ibid., pp. 410 ss.
(11) Cfr. TULLIO DELOGU, La problematica giuridica delle tossicomanie, in Rivista italiana di diritto e di procedura penale, 1973, p. 523. Lo scritto non è recente, ma ancora oggi valido, perché attentamente basato su uno dei più approfonditi «rapporti» americani, Drug use in America: problem in perspective. Second Report of the National Commission on Marihuana and Drug Abuse, U.S. Government Printing Office, Washington 1973, I. Sul tema cfr. anche BRUNO BISIO, Psiche e droga, Bulzoni, Roma 1976: e IDEM, Cause predisponenti e determinanti delle tossicomanie, in La Giustizia penale, 1975, I, coll. 121 ss.
(12) Cfr. T. DELOGU, art. cit., p. 525.
(13) Cfr. ibidem.
(14) Cfr. ALDO SEMERARI e ANTONIO CASTELLANI, Impostazioni vecchie e nuove in tema di tossicomanie, in La Giustizia penale, 1970, I, coll. 22 ss.
(15) Cfr. MASSIMO INTROVIGNE, La rivoluzione della droga e la «filosofia chimica», in Cristianità, anno VI, n. 36, aprile 1978.
(16) Cfr. A. SEMERARARI e A. CASTELLANI, art. cit., col. 24.
(17) Ibid.; «L’esistenza del tossicomane perde […] definitivamente la struttura del fare volontario ed il suo essere alla deriva, in balia di se stesso e del mondo-ambiente, è il simbolo della sua incapacità di procedere decidendo. Al tossicomane fa quindi difetto la capacità all’autodominio […], il significato antropologico della condotta tossicomanica è perciò costituito dal non poter rinunciare, dal vanificarsi appunto della capacità all’autodominio».
(18) Per le linee fondamentali del concetto di libertà, cfr. SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su libertà cristiana e liberazione «Libertatis conscientia», del 22-3-1986, nn. 25-27. Cfr. anche CARD. JOSEPH RATZINGER, Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, Edizioni Paoline. Torino 1987, pp. 180-181.
(19) Cfr. P. CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977.
(20) Cfr., per esempio, GIOVANNI MARIA FLICK, Miti e realtà di una repressione, Giuffrè, Milano 1979, passim e soprattutto pp. 151 ss.
(21) Cfr., per tutti, ISTITUTO PER LA DOCUMENTAZIONE E GLI STUDI LEGISLATIVI (I.S.L.E.) (a cura di), Nuova normativa sugli stupefacenti. Aspetti giuridici e sanitari, Giuffrè, Milano 1976; e GIUSEPPE DI GENNARO e RENATO BREDA, Considerazioni per una riforma legislativa in materia di droghe, in AA. VV., Droga e società italiana, Giuffrè, Milano 1974, pp. 451 ss.
(22) A. SEMERARI, Tossicomanie, in AA.VV., Trattato di psicopatologia e psichiatria forense, I, Istituto Editoriale Italiano, Roma 1972, p. 341.
(23) Cfr. T. DELOGU, art. cit., p. 521.
(24) Cfr. ibid., p. 519, che segue la classificazione del citato Second Report of the National Commission on Marihuana and Drug Abuse.
(25) Per l’approfondimento del tema relativo al tossicomane e alle tossicomanie, cfr. B. BISIO, Tossicomanie: definizione e classificazione, in La Giustizia penale, 1976, coll. 86 ss.; GIUSTO GIUSTI e DOMENICO SICA, Gli stupefacenti e le tossicomanie, CEDAM, Padova 1979; e FRANCESCO MARI, Tossicologia clinica e forense, CEDAM, Padova 1980.
(26) T. DELOGU, art. cit., p. 521.
(27) Cfr. JOSEPHUS GOENAGA S.J., Philosophia socialis, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1964, p. 79.
(28) Cfr. ibidem.
(29) Cfr. ibidem.
(30) Sotto un profilo di diritto positivo-italiano, il dovere di prevenire e reprimere le condotte tossicomaniche si ricava dall’articolo 2 della Costituzione, che recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
(31) Per il rapporto fra l’immagine antropologica e il modello politico, cfr. le splendide pagine di ERIC VOEGELIN, Ordine e Storia. La filosofia politica di Platone, trad. it., il Mulino, Bologna 1986.
(32) Sui principi sociali, cfr. J. GOENAGA S.J., op. cit.. pp. 76 ss.
(33) Mette in luce il profondo collegamento fra l’abuso degli stupefacenti e l’impoverimento morale e materiale delle nazioni Papa Giovanni Paolo II nel messaggio inviato alla Conferenza internazionale sull’abuso e il traffico illecito della droga, Icdait, tenutosi a Vienna dal 18 al 26 giugno 1987: «L’abuso della droga impoverisce ogni comunità dove esiste. Sminuisce la forza umana e la fibra morale. Mina i valori apprezzati. Distrugge la voglia di vivere e di contribuire a una società migliore. L’abuso della droga è inoltre un flagello, ancor più di una carestia, una siccità o un’epidemia. Ogni anno miete un numero crescente di vite umane» (L’Osservatore Romano, 18-6-1987).