Il Gambia non è un paese che sentiamo nominare spesso: è una enclave anomala, circondata per tre lati dal Senegal e per il quarto dalla costa atlantica africana, adagiato sul corso finale del fiume omonimo. E’ piccolo da tutti punti di vista: è esteso poco più dell’Abruzzo, ha gli abitanti della Sardegna e un PIL pro-capite di circa 500 $ annui. In Gambia il 1 dicembre si sono svolte le elezioni presidenziali ed ha vinto Adama Barrow, il candidato dell’opposizione al regime del Presidente Yahya Jammeh.
Jammeh è salito al potere nel 1994 con un colpo di stato e poi rieletto per quattro volte, con una modifica costituzionale del 2002 che gli avrebbe permesso di non avere limiti sul numero dei mandati. E’ stato più volte accusato dalle organizzazioni internazionali di adottare politiche repressive nei confronti degli oppositori. Sul piano della libertà religiosa si segnala una svolta recente: a dicembre 2015 il Presidente uscente ha proclamato il Gambia “Repubblica Islamica”; questo ha fatto temere un certa deriva fondamentalista, nuova nell’islam gambiano tradizionalmente egemonizzato da correnti sufi con un approccio tollerante nei confronti dei non islamici. L’unica vera fiammata di interesse nella comunità internazionale per la situazione dei diritti umani in Gambia si è verificata in occasione delle affermazioni violente del Presidente Jammeh contro l’omosessualità. Questi atteggiamenti hanno comunque portato l’Unione Europea a tagliare i fondi destinati al piccolo paese africano.
Il nuovo eletto è Adama Barrow, leader del partito di opposizione UDP. Classe 1965, imprenditore del settore immobiliare, studi islamici in loco e studi universitari a Londra, Barrow ha condotto tutta la campagna elettorale all’insegna della promessa di eliminare gli elementi dittatoriali del regime precedente e di rendere il Gambia un paese migliore nel quale poter vivere. Nel 2015 quasi 12.000 persone hanno lasciato il paese, che ha appena 1.800.000 abitanti, per le difficili condizioni economiche e politiche. L’8 dicembre l’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’UE, Federica Mogherini, ha rilasciato un nota nella quale mostra soddisfazione per il cambio di regime, si augura un tranquillo passaggio di poteri, e dichiara che l’UE è pronta a supportare pienamente il nuovo Presidente.
Il condizionale è d’obbligo perché la politica africana ha una grammatica tutta sua, della quale spesso in Europa non si tiene il debito conto. Jammeh potrebbe resistere alla sconfitta ed innescare quella parte dell’esercito che gli è vicina per ragioni di clan. L’ingombrante vicino senegalese, che ha inviato delle guardie del corpo a proteggere la residenza di Barrow, guarda al nuovo Presidente come ad un sicuro alleato. Il Presidente del Senegal, Macky Sall, è stato il primo a congratularsi con il nuovo eletto sottolineando il fatto che Barrow, la cui madre apparteneva alla tribù Fulla, parla correntemente il dialetto omonimo. Dettagli apparentemente banali ma in realtà fondamentali nella politica molto tribalizzata della fascia sub-sahariana.
A questo punto anche il più educato dei nostri lettori si starà chiedendo che cosa ci importa, in Italia, del Gambia. Ci importa, o almeno dovrebbe. Delle 12.500 persone che nel 2015 hanno lasciato il Gambia poco meno di 9.000 figurano fra i richiedenti asilo in Italia nello stesso anno. Dal 2013 questo paese occupa tra il quinto e il terzo posto nella classifica delle nazionalità di chi chiede protezione nel nostro paese, con un costante 9-10 % sul totale. Alla luce di questo fatto il cambio di regime descritto, secondo alcuni commentatori, potrebbe rappresentare una conferma sperimentale, piccola ma esemplificativa. Se il processo di transizione democratica, anche secondo stilemi tipicamente africani, andrà avanti, da questo lato del Mediterraneo potremmo trovarci a constatare una diminuzione dei flussi di gambiani in entrata o, addirittura, una inversione del trend. Se, e sottolineo il se, ciò dovesse accadere rappresenterebbe la prova fattuale che il migliore antidoto al fenomeno migratorio non è quello di mandare miliardi a pioggia ma quello di favorire, anche ma non solo con aiuti concreti, una via autoctona al miglioramento delle condizioni sociali, politiche ed economiche dei paesi di origine.
Nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2013, del 12 ottobre 2012, Benedetto XVI, dopo aver ricordato il magistero dei predecessori sulla necessità di uno sviluppo “integrale” dei popoli, affermava: “Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il Beato Giovanni Paolo II che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» ”.
Valter Maccantelli