PIETRO CANTONI, Cristianità n. 174 (1989)
Il “clima”: le condizioni dell’ascolto e della comprensione
La comparsa, in un breve arco di tempo, di una serie di “manifesti” di protesta sottoscritti da teologi di tutto il mondo, ha richiamato l’attenzione su una componente importante della vita della Chiesa, il Magistero. Poiché di questo si tratta, come hanno rilevato i commentatori più attenti e profondi, un esame di tali manifesti, che non si voglia previamente condannare alla superficialità, deve cominciare dalla riflessione sul Magistero, realtà che si accompagna alla fede della Chiesa come elemento strutturale. È difficile parlarne, perché il discorso rischia di diventare troppo lungo per la complessità oggettiva del tema e soprattutto perché molti sono i pregiudizi da contrastare, ma è vano affrontare una discussione eludendone il nocciolo.
Capire una realtà dipende pure dal modo con cui la si guarda, dai sentimenti che suscita, quasi inavvertitamente, il solo fatto di occuparsene. L’uomo non è solo intelligenza, ma anche volontà e sensibilità: tutta una sfera dell’”io” è pesantemente influenzata dall’ambiente, dal “clima” culturale — assumo il termine “cultura” in un senso molto lato, che comprende non soltanto la sfera dell’intelletto, ma tutto l’umano, tutto quanto è, in qualche modo, frutto della coltivazione delle potenzialità umane — e, a sua volta, influenza l’esercizio dell’intelligenza. Indubbiamente un termine come “Magistero”, che significa semplicemente “autorità dottrinale”, produce in chi è immerso nell’attuale clima culturale un’eco emotiva sfavorevole. Il termine “autorità” evoca oggi l’idea di limite, di ostacolo alla libertà. Non che si voglia, per lo più, negare questa realtà, ma essa è accettata come realtà tollerata, come qualcosa di cui — di fatto — non si può fare a meno, ma della quale si farebbe volentieri a meno. Poiché la libertà è spesso concepita come un “poter fare quello che si vuole”, come un’”assenza di limite”, e poiché — ancora — la libertà è intesa come un valore assoluto, come il valore che conferisce valore a tutti gli altri, l’autorità diventa un valore negativo, qualcosa di necessario, ma di mal sopportato.
Evidentemente le cose cambiano se si cerca di criticare questa “filosofia circostante”, di sottoporre questi valori al vaglio dei criteri che per i cristiani dovrebbero essere determinanti. Il primo passo consiste nel mettere a nudo i presupposti dei “si dice”, dei “si crede” e dei “si pensa” contemporanei, per quindi sottoporli al vaglio della fede, nel togliere i pregiudizi dall’ombra compiacente dell’ovvio massmediatico, per metterli in luce ed esaminarli con la ragione e con la fede. Qui appare la verità profonda di tre passi della Sacra Scrittura: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv. 8, 31-32); “E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna” (1 Gv. 2, 27); “L’uomo spirituale […] giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno” (1 Cor. 2, 15).
La fede dispone a un continuo atteggiamento critico e autenticarnente anticonformista nei confronti del “mondo”, e la visione delle cose che scaturisce dalla fede presenta un quadro completamente diverso: l’uomo è uscito dalle mani di Dio; non si è fatto da sé; Dio lo ha pensato e lo ha voluto; la “verità” dell’uomo consiste dunque nella conformità al progetto che ha presieduto alla sua creazione. Il peccato è scaturito proprio dalla pretesa di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male: “Sarete come dei, conoscitori del bene e del male” (Gn. 3, 5); cioè il bene e il male non saranno più desunti dalle cose e dalla parola di Dio, ma verranno decisi dall’uomo in piena autonomia, “come dei” appunto. È nella natura dell’uomo — e costituisce la sua “dignità” — essere intelligente e quindi libero, cioè capace di scelte che scaturiscono non da imposizioni esteriori, ma dal profondo del suo “io”, da quel santuario nascosto che è la sua coscienza. Ma se l’uomo compie scelte non in ubbidienza alla verità delle cose e, quindi, di sé stesso — verità che non dipende da lui, perché non è lui che ha fatto le cose e neppure sé stesso — allora fatalmente si snatura, si allontana dalla sua verità, cioè dal suo essere intelligente e libero e cade nelle tenebre dell’ignoranza e della schiavitù: “Chi fa il peccato è schiavo del peccato” (Gv. 8, 34). Se invece l’uomo compie scelte conformi alla verità delle cose e alla parola di Dio che ne è lo specchio e la sorgente, realizza ciò che deve essere e compie e perfeziona il suo essere libero: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”! Il fatto di agire in conformità a dati, di adeguare la coscienza a una legge, non è contro la libertà, ma il cammino del suo inveramento e del suo perfezionamento. La coscienza non è legislatrice autonoma, ma piuttosto araldo della legge di Dio, e la libertà non è innanzitutto “libertà da” ma “libertà per”, per il vero e per il bene oggettivi, che non sono frutto del capriccio dell’uomo, ma opera dell’intelligenza creatrice di Dio e, in definitiva, sono Dio stesso.
Cosa significa credere
Dunque, la fede è il fondamento ultimo del pensare e dell’agire del cristiano: “Il giusto vivrà per la sua fede” (Ab. 2, 4; Rm. 1, 17; Gal. 3, 11; Eb. 10, 38) (1) e perciò la fede è il fondamento della Chiesa. Secondo san Tommaso “Ecclesia instituta per fidem et fidei sacramenta”, “La Chiesa [è] istituita mediante la fede e i sacramenti della fede” (2).
Ma cos’è la fede? Il Concilio Ecumenico Vaticano II ne dà questa definizione: “A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede, con la quale l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela” e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui” (3). Se ne evince immediatamente che la fede è un’ubbidienza, e un’ubbidienza a Dio, non all’uomo. Qual è dunque il significato di un magistero di uomini? Per rispondere adeguatamente a questa domanda si deve anzitutto meditare un passo di san Paolo, secondo cui non si può essere “giustificati”, cioè “resi giusti”, senza credere: credere è fondamentale, ma “come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati?” (Rm. 10, 14-15). Importa fare attenzione alla sequenza: com’è evidente, la fede dipende dall’annuncio, dal momento che nessuno può credere a qualcosa o a qualcuno che non ha mai visto né conosciuto. Si deve pure notare che l’annunciatore delle cose della fede non può essere una persona qualsiasi, ma solo qualcuno che sia inviato, cioè autorizzato, abilitato: la necessità del mediatore non è soltanto di ordine pratico, ma di ordine più profondo, “ontologico”. Tuttavia ci si può chiedere se Dio non avrebbe potuto scegliere un’altra modalità per portare gli uomini alla fede, per esempio rivelandosi a ciascuno di loro direttamente, o abilitando di volta in volta colui che occasionalmente parla a un altro delle cose di fede. Sarebbe stato certamente possibile ma, di fatto, non è accaduto così: la tradizione cristiana ha sempre ripetuto, basandosi su questo passo della Sacra Scrittura, che la fede viene dall’ascolto e questo significa che vi deve sempre essere un annuncio esterno, visibile e sensibile, anche se, naturalmente, non può mancare un’ispirazione interiore. Inoltre vi deve essere una missio: per parlare con autorità delle cose di Dio bisogna essere autorizzati; e scrutando il modo che Dio ha scelto per salvare gli uomini, si deve dire che tutto è straordinariamente coerente, profondamente sapiente e corrisponde a un bellissimo disegno unitario.
La mediazione della Chiesa e la funzione del Magistero
Dio ha scelto di trasmettere una dottrina e una vita nella storia degli uomini humano modo, “in modo urnano” (4), cioè facendo sì che avvenisse nel contesto di una particolare comunità di uomini da lui creata ad hoc, da lui animata e da lui assistita: la Chiesa, la “convocazione”. Ovviamente la Chiesa, anche se ha una struttura sociale, non è una società come le altre e non è neppure solo società: san Paolo la descrive come il corpo di Cristo e questa è certamente la formula più comprensiva e più significativa per designarla. Poiché si tratta di un corpo non è un coacervo informe, ma ha una struttura che non è democratica, almeno nel significato modemo, “ideologico”, del termine. A questo proposito la fede insegna, ancora una volta, a non essere succubi degli idoli del tempo, dal momento che una forma di governo — ma la democrazia moderna non è soltanto questo —, per quanto possa essere ritenuta dagli uomini di un certo tempo come la migliore in assoluto, non è un assoluto: comunque, non è la struttura della Chiesa.
Se la Chiesa è un corpo, non tutti i suoi membri hanno le stesse funzioni: vi è chi guida e chi è guidato, senza con questo configurare un rapporto meccanico, per cui vi è chi è solo attivo e chi è solo passivo. Infatti “corpo” dice organicità, cioè struttura, differenziazione e vita, per cui in esso tutto deve essere attivo, ma in modo differenziato.
Fra le varie funzioni vi è quella magisteriale, che comporta il compito di trasmettere la dottrina, di discernere quanto è conforme a essa e quanto a essa non è conforme, di giudicare di volta in volta come tale dottrina deve essere tradotta nella vita. Ma chi sono i depositari concreti del Magistero, cioè di questa vitale funzione di insegnamento? Per esempio, san Clemente, vescovo di Roma, verso il 95-98 — quindi certamente prima del Vangelo di san Giovanni, scritto all’inizio del secolo II —, indirizza una lettera, di tono omiletico, ai cristiani di Corinto, in cui afferma che “gli apostoli predicavano il vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio. Cristo da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose ordinatamente dalla volontà di Dio. […] Predicavano per le campagne e le città e costituivano le loro primizie, provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. E questo non era nuovo” (5). “I nostri apostoli — aggiunge — conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l’avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati” (6).
Dunque, poiché il mandato di Cristo non poteva spegnersi con la morte degli Apostoli, ecco allora la promessa: “[…] io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo” (Mt. 28, 20); ecco allora gli Apostoli imporre le mani a successori, i vescovi, ed è bene che fossero molti i successori degli Apostoli, perché la Chiesa doveva diffondersi in tutto il mondo. Inoltre, poiché la dottrina doveva rimanere rigorosamente una, era necessario un principio di unità: nel collegio degli Apostoli Gesù aveva scelto Pietro, e il suo ministero doveva continuare nei Papi di Roma, nei quali doveva risiedere il fondamento visibile della Chiesa, un fondamento che, partecipando della solidità della pietra che è Cristo, doveva garantire fino alla fine dei secoli stabilità e unità. Infatti, poiché fra molti possono sorgere divergenze e conflitti, il criterio visibile per sapere da che parte è la ragione e a chi fare riferimento, se sorgono differenze di dottrina o scismi, è alla portata di tutti: il vescovo di Roma, il Papa. Anche il Magistero dei vescovi è vincolante quando è “in comunione con il Papa”, e solo a questa condizione.
Questo insegnamento è impartito humano modo. Nell’opera del domenicano spagnolo Melchor Cano, uno dei teologi più importanti della Controriforma, si trova questo “assioma”: “Come Dio non manca nelle cose necessarie, così non abbonda in quelle superflue” (7). Certamente l’insegnamento autentico è garantito da Dio, ma ciò non significa che lo sia sempre nello stesso modo e che qua o là i limiti dell’uomo non possano segnarne l’esercizio.
A questo proposito bisogna però distinguere accuratamente due problemi:
a. l’assistenza dello Spirito Santo, che garantisce la conformità fra quanto insegna oggi la Chiesa e quanto ha insegnato Gesù: “Chi ascolta voi ascolta me” (Lc. 10, 16);
b. la certezza che ogni e singolo insegnamento della Chiesa sia conforrne a quanto ha insegnato Gesù.
Si tratta di due problemi distinti: non era assolutamente necessario che ogni e singolo insegnamento dei vescovi, e anche del Papa, avesse la garanzia dell’infallibilità. Vi è spazio per la debolezza dell’uomo, e quindi per l’errore, ma è uno spazio tale da non impedire che la “carne” sia portatrice della presenza di Dio: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo”. Non vi è spazio neppure per eclissi temporanee: “tutti i giorni”.
La questione dell’infallibilità
Lo Spirito che Gesù ha lasciato alla sua Chiesa in modo permanente è “Spirito di verità” (Gv. 14, 17), e vi sono casi in cui si ha una certezza assoluta, per esempio quando il pronunciamento del Magistero si presenta nella forma di un giudizio definitivo, cioè quando si ha una definizione: se vi fosse errore, tutta la Chiesa cadrebbe in errore.
D’altra parte, come succede per l’insegnamento umano, non tutto il Magistero della Chiesa è impartito con la stessa autorità: vi sono insegnamenti definitivi e insegnamenti provvisori, o impartiti con minore sicurezza e impegno. Dio vuole salvare gli uomini proprio attraverso l’infermità umana. Stando così le cose, come ci si deve comportare se non si può essere sempre sicuri? Si deve avere fiducia, la fiducia teologale nel fatto che, al di là di qualche sdrucciolone accidentale, il cammino della Chiesa porta infallibilmente alla meta.
D’altra parte, riflettendo, si può notare come la stessa vita quotidiana in società sarebbe impossibile senza fiducia: si va dal medico, dall’avvocato e si fa quanto dicono di fare, non perché si comprendono appieno le loro indicazioni, ma perché ci si fida di loro; se si dovesse verificare sempre tutto e sottoporre tutto al vaglio della propria esperienza e della propria scienza, la vita diventerebbe un peso insopportabile. Anche la vita “profana” sarebbe qualcosa di assolutamente superiore alle forze del singolo, ma la materia in esame si situa in un campo ben più elevato: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1 Cor. 2, 9). In proposito si dà pure una garanzia ben più grande. Quindi il problema vero davanti al Magistero, quello più pratico, non sta nel chiedersi se è o se non è infallibile, ma se la persona che mi parla è o non è inviata da Gesù e quindi da lui assistita: “Chi ascolta voi ascolta me”. Perciò il fedele non deve verificare tutte le volte, puntigliosamente, se quanto gli viene detto è infallibile o meno — non è sempre facile stabilirlo neanche per gli specialisti —, ma se chi gli parla è inviato da Gesù, se gli parla con autorità e, eventuabnente, se è proprio in comunione con il Papa.
Non esiste neppure un confine troppo netto e assolutamente rigoroso fra quanto è infallibile e quanto non è infallibile: a volte è molto difficile dire con certezza se un determinato insegnamento lo è o non lo è. Infatti un insegnamento, e un insegnamento tradizionale, è una realtà vitale, ricca di sfumature, per cui vi possono essere casi in cui ci si avvicina molto a una certezza assoluta, ma non tutto, nell’esercizio del Magistero, è giudizio definitivo. Il modo ordinario in cui si dà è quello dell’insegnamento, e un insegnamento è costituito da molti giudizi, da diverse affermazioni variamente articolate, tanto più articolate quanto più l’insegnamento è ampio, concerne anche realtà contingenti o si dispiega nel tempo. Più il carattere dell’intervento è puntuale, più è preciso, per cui un giudizio è un intervento puntuale che cerca, di sua natura, precisione dogmatica e rigore giuridico. Con ogni evidenza, le modalità del giudizio e dell’insegnamento vanno lette diversamente, e in questo sta tutta la differenza che intercorre fra il Magistero ordinario e quello straordinario.
È un grave errore, condannato dalla Chiesa, ridurre l’infallibilità al Magistero straordinario. Sarebbe anche qualcosa di ridicolo: negli ultimi cento anni, per esempio, si dà, con assoluta certezza, cioè con un consenso sufficientemente ampio di probati auctores, una sola definizione del Magistero straordinario, il dogma dell’Assunzione di Maria Santissima in cielo, contenuta nella costituzione apostolica Munificentissimus Deus, del 1° novembre 1950. Se così fosse non avrebbe poi tutti i torti lo storico del diritto canonico Brian Tierney a ironizzare sulla teologia neoscolastica dell’infallibilità con il suo noto “assioma”: “Ogni pronunciamento infallibile è certamente vero, ma nessun pronunciamento è certamente infallibile…” (8). Ma questo errore è per certo meno grave di quell’altro che riduce il motivo dell’assenso al Magistero alla sua infallibilità. Quando i due errori si sommano — e uno slittamento in questo senso si è massicciamente verificato nella teologia contemporanea —, si giunge a togliere al Magistero stesso ogni reale incidenza nella vita di fede della Chiesa e nella teologia. Se il Magistero si riduce a dare al fedele garanzie saltuarie, a singhiozzo, con ritmi di cento anni, non si vede che rapporto possa avere con quella fede di cui “il giusto vive” e di cui deve vivere quotidianamente. La critica antinfallibilistica recente — quella espressa, per esempio, da Hans Küng, da Brian Tierney, da August Bernhard Hasler — è venuta quasi a portare a compimento un processo, a dare il colpo di grazia a una costruzione che, poggiando sui due colossali equivoci segnalati, era già ampiamente fatiscente.
Anche se non si può attribuire a ogni e singolo pronunciamento del Magistero ordinario la stessa infallibilità di una definizione — questo, d’altra parte, vanificherebbe la stessa differenza fra Magistero straordinario e ordinario —, tuttavia appare ovvio che, quando un insegnamento è di tutta la Chiesa, non si può pensare che, “globalmente preso”, non contenga la verità di Gesù. Così come quando uno stesso insegnamento si protrae a lungo nella Chiesa, viene ribadito e confermato spesso, senza interruzioni, nel corso del tempo, non si può più pensare che non rifletta la Rivelazione divina, senza ipso facto smettere di considerare l’insegnamento autentico, quello degli “inviati”, come la regola del proprio credere, per sostituirvi il proprio pensiero personale. Pensare una cosa del genere equivarrebbe a vanificare tutta l’economia della trasmissione della Rivelazione voluta da Dio: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo”. Un caso del genere è certamente quello costituito dall’enciclica Humanae vitae, pubblicata da Papa Paolo VI il 25 luglio 1968. Si è discusso, e si discute accanitamente, attorno alla sua infallibilità. Ma, se non si vuole restare indebitamente attaccati alle parole e cadere in una lis de verbis, in una “questione di parole”, il problema non è poi così difficile: se, affermando che l’enciclica Humanae vitae non è in sé infallibile, si vuol sottolineare che non si tratta di Magistero straordinario, lo si può agevolmente concedere, ma se si intende sostenere che l’insegnamento in essa contenuto, in quanto riflesso di un Magistero di tutta la Chiesa costante e ininterrotto nei secoli, può essere discusso, allora ciò è aberrante e conduce a conseguenze disastrose, non solo relativamente al problema della contraccezione, rna per rapporto a tutta la vita di fede della Chiesa.
Le contestazioni
Vengo finalmente al fatto di cronaca. Un certo numero di teologi ha reso di pubblica ragione una serie di manifesti in cui non si contesta tanto questo o quel punto di dottrina dell’attuale Magistero della Chiesa, soprattutto pontificio, ma tutto il suo atteggiamento in questi ultimi anni. Dopo un prologo rappresentato da una presa di posizione molto polemica del moralista Bernhard Häring contro il Magistero morale di Papa Giovanni Paolo Il (9), hanno proseguito teologi tedeschi, olandesi, svizzeri e austriaci pubblicando la cosiddetta Dichiarazione di Colonia (10). Poi è stata la volta di francesi (11) e di spagnoli (12). Infine, dopo alcune avvisaglie che si erano potute cogliere nei commenti molto benevoli ai manifesti dei loro colleghi d’oltralpe, si sono espressi teologi italiani con il cosiddetto Documento dei sessantatrè (13). Senza fare un esame dettagliato dei diversi testi, mi limito ad alcuni punti. Cominciando da quello centrale, ribadisco che non si tratta di una discussione circoscritta a questo o quel punto di dottrina, ma di qualcosa di ben più radicale sia quanto alla forma, cioè quanto al ruolo della teologia e del Magistero nella vita di fede della Chiesa, sia quanto al contenuto, dal momento che si giunge a parlare di “forti spinte regressive” (14) e, in definitiva, di tradimento del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Molto si è detto sul “modo” delle diverse prese di posizione, cioè sulla forma di “manifesto” dato in pasto ai mass media. Ma per quanto esso sia importante, ritengo preferibile incominciare dalla “sostanza”.
1. Nella Dichiarazione di Colonia vi è un’aperta contestazione dell’enciclica Humanae vitae. Non si tratta di un aspetto di dettaglio, circoscrivibile a una singola — per quanto importante — questione morale. La posta in gioco è il valore del Magistero della Chiesa: mettere in discussione l’autorità dell’insegnarnento dell’enciclica di Papa Paolo VI significa, in sostanza, vanificare il Magistero ordinario della Chiesa, cioè il modo abituale, costantemente incidente nella vita concreta della Chiesa stessa, della funzione d’insegnamento divinamente istituita. Da un certo punto di vista, si può perfino dire che il Magistero ordinario è più importante di quello straordinario, poiché il Magistero straordinario enuclea soltanto, in singole particolari situazioni, quanto è già patrimonio del Magistero ordinario della Chiesa e quindi si appoggia tutto su questa modalità di esercizio, che ne costituisce come il fondamento. Fra l’altro, vuol dire togliere ogni valore anche al Concilio Ecumenico Vaticano II, che, com’è noto, non ha voluto impegnarsi in definizioni dogmatiche straordinarie, ma essere solo espressione solenne del Magistero ordinario: perciò il Magistero del concilio è Magistero ordinario esattamente come l’enciclica Humanae vitae. Contestare il Magistero pontificio in nome del Magistero conciliare è aberrante e costituisce una petizione di principio.
2. Nel documento reso pubblico dai teologi italiani si contesta l’intervento della Chiesa in materia morale o, più semplicemente — come ha voluto precisare uno dei firmatari in un’intervista (15) — la sua eccessiva estensione. Ma chi decide, in ultima istanza, fino a che punto è legittimo spingersi per giudicare la materia morale? In base a quale criterio oggettivo si possono tracciare confini? Si invoca apertamente il dettato conciliare riguardante la gerarchia delle verità (16). Anche il documento dei teologi tedeschi si richiama con enfasi a questa dottrina, ma proprio in tale documento emerge un’ambiguità assai rivelatrice: “Non tutti gli insegnamenti della Chiesa — vi si legge — hanno pari certezza e peso, sotto l’aspetto teologico. Noi ci opponiamo alla violazione di questa dottrina dei gradi teologici di certezza nei confronti della “gerarchia della verità” nella prassi dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento” (17). In questo passo vengono messi sullo stesso piano due livelli assolutamente distinti di considerazione, cioè, da un lato, la diversa importanza degli insegnarnenti, dall’altro, il loro diverso grado di certezza. Proprio il Concilio Ecumenico Vaticano II ha chiarito, oltre ogni possibile equivoco, che la dottrina della gerarchia delle verità non ha niente a che vedere con quella degli “articoli fondamentali”, propria del protestantesimo secentesco.
La distinzione fra verità principali e verità secondarie non si lascia ricondurre a quella fra verità “obbligatorie” e verità “facoltative”, e riguarda non tanto le verità da proporre — il messaggio deve essere integro! — quanto il modo di questa proposizione, cioè il mostrare la dipendenza di verità “periferiche” da verità “centrali”. E appunto questo è lo sforzo del Magistero di Papa Giovanni Paolo II in materia: mettere in luce come il disattendere certe norme morali “seconde”, implichi la messa in discussione di princìpi fondamentali dell’agire cristiano.
Invocare il principio in questione per “staccare” ciò che è secondario, cioè consequenziale, da ciò che è principale, significa fatalmente staccare il Vangelo dalla vita, favorire un cristianesimo fatto di princìpi astratti, di norme “trascendentali”, che non hanno nessun contenuto concreto e lasciano la coscienza “tranquilla”, quindi un cristianesimo ridotto a essere soltanto un utile ausiliario della secolarizzazione in atto. Invece, nella Dichiarazione di Colonia, tutto il discorso corre sul filo dell’ambiguità: da una parte si richiama il fatto che non tutte le verità di fede sono da mettersi sullo stesso piano — dottrina ribadita dal Concilio Ecumenico Vaticano II ma nient’affatto nuova, basti pensare all’importanza attribuita da san Tommaso alla nozione di articulus fidei (18) —, dall’altra ci si appoggia sul dato, altrettanto scontato, che non tutto, nell’insegnamento della Chiesa, gode dello stesso grado di certezza. L’elaborazione delle differenti note teologiche — “di fede”, “di fede definita”, “prossima alla fede”, e così via — rientra nel bagaglio della teologia classica. Si tratta però di due cose ben distinte: una verità può essere “secondaria” quanto alla sua collocazione nel complesso armonico delle verità di fede ed essere certissima per la sua proposizione ferma da parte del Magistero della Chiesa. Certamente la verità dell’assunzione di Maria al cielo in anima e corpo non si situa “al centro” del credo cattolico, tuttavia essa sta sicuramente al vertice dei gradi di certezza teologici in quanto dogma solennemente definito. Il passaggio dall’uno all’altro punto di vista si consuma all’insegna dell’ambiguità: così le verità “seconde” diventano “Detailsfragen”, “punti di dettaglio”, che “non possono arbitrariamente esser fatti passare come strumenti per definire la congruenza o meno all’integrità della fede” (19).
3. Nello stesso documento tedesco troviamo una posizione molto significativa sul ruolo dei teologi in relazione al Magistero: “La concessione dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento viene usata indebitamente in termini di provvedimento disciplinare”. Dunque, il Papa dovrebbe ritenersi vincolato dall’autorità del vescovo locale e delle autorità accademiche, e la scelta dei docenti di teologia in un’università non dovrebbe essere fatta con criteri “estranei alla scienza”. Ma l’influenza di un teologo che insegna come teologo cattolico in un’università va ben oltre i confini della diocesi in cui l’università risiede, per tacere dell’influenza mondiale dei teologi tedeschi; il ruolo del Papa è quello di “confermare i suoi fratelli” (20), e i criteri “scientifici” in vigore nel mondo accademico profano non si possono considerare decisivi per la scienza sacra. In questa tesi sono contenuti tutti i presupposti per continuare ad accentuare quella secolarizzazione della teologia, che peraltro è già in atto da diverso tempo e i cui princìpi ispiratori si rivelano nel documento in esame con particolare chiarezza.
4. “Non pensiamo — dicono i firmatari italiani — che i teologi assolverebbero al loro compito semplicemente divulgando l’insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione. Essi si pongono infatti al servizio della chiesa anche quando raccolgono e propongono le domande nuove dell’intelligenza che scaturiscono dalle situazioni nuove che la fede attraversa”.
Il problema però è un altro: non si tratta di dire solo quello che dice il Magistero, ma di non dire niente contro. Si possono dire cose diverse, cose anche nuove, purché si sia sempre disponibili a lasciarsi giudicare da chi ne ha il carisma: “sub Ecclesiae Magisterii ductu”, “sotto la guida del Magistero della Chiesa” (21), come dice appunto la lettera — e lo spirito — del Concilio Ecumenico Vaticano II che, a sostegno di questo passo, cita in nota l’enciclica Humani generis, pubblicata da Papa Pio XII il 12 agosto 1950, testo con cui la tesi dei teologi italiani vorrebbe entrare in polemica (22).
5. Un punto ampiamente frainteso dalla stampa nel documento italiano è quello relativo allo “stile” della missione della Chiesa, per cui essa “non solo a livello individuale, ma nella sua strutturazione istituzionale, nei suoi rapporti con gli stati, nello stile della sua predicazione, […] non […] [deve] farsi condizionare dalla logica mondana, ma dallo stile di Cristo, mite ed umile di cuore, povero, venuto per salvare la pecora perduta”, e così via. Per lo più vi si è visto un dissenso nei confronti dei numerosi viaggi dei regnante Pontefice e delle imponenti manifestazioni di folla che li accompagnano, mentre in realtà l’allusione tocca un aspetto ben più sostanziale: quello della proposizione ferma e coraggiosa della verità e della sua conseguente traduzione in termini di cultura, che non si trova affatto in contraddizione con la virtù dell’umiltà e con lo stile di Cristo, come testimonia abbondantemente l’esempio di Chi, pur essendo “mite e umile di cuore” (Mt. 11, 29), parlava “come uno che ha autorità” (Mc. 1, 22), e neppure con il dialogo rettamente inteso, il quale non esclude una coscienza ben definita della propria identità né la “passione della verità”, ma le presuppone. Quanto è preso di mira con la tesi citata è piuttosto il chiaro programma pastorale enunciato per la Chiesa italiana da Papa Giovanni Paolo Il a Loreto: “Occorre superare […] quella frattura tra Vangelo e cultura che è, anche per l’Italia, il dramma della nostra epoca; occorre por mano a un’opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita, in modo che il cristianesimo continui ad offrire, anche all’uomo della società industriale avanzata, il senso e l’orientamento dell’esistenza.
“Ciò potrà avvenire solo a condizione che non si appiattisca la verità cristiana, e non si nascondano le differenze, finendo in ambigui compromessi […].
“[…] Vorrei dire qui agli uomini e alle donne di questa grande Nazione: non abbiate paura di Cristo, non temete il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto anzi della convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica” (23).
6. Vi è però un punto centrale, soprattutto nel documento italiano, e cioè l’autorità del Concilio Ecumenico Vaticano II. Il testo è attraversato dalla convinzione che il Magistero di questo concilio sia tradito dall’attuale Magistero pontificio. Alcuni gesti e prese di posizione non sono visti in sintonia con i dettami del concilio stesso. Viene poi valutato con preoccupazione il fatto che, da parte di qualcuno, si sia cercato di ridimensionare la sua autorità (24).
In proposito vanno fatte alcune osservazioni:
A. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha l’autorità che ha. Non si tratta di ridimensionarlo, ma semplicemente di attribuirgli l’autorità che la Chiesa ha voluto attribuire a esso, niente di più e niente di meno; e l’unica interpretazione autentica, anche in questo campo, è quella del Magistero, che, in definitiva, deve valutare il peso dei suoi atti. E il Magistero — in particolare quello del Papa — non è al di sotto del Concilio Ecumenico Vaticano II, se non in ciò che in questo concilio è definitivo — e in esso non vi sono definizioni in senso stretto — o definitivamente acquisito come termine di uno sviluppo dottrinale del Magistero precedente, e vi sono certamente tante affermazioni di questa portata. Ma nel Magistero del Concilio Ecumenico Vaticano II non vi è solo questo, dal momento che, come in tutti i concili e forse di più — posto il suo indiscutibile carattere accentuatamente pastorale —, vi sono in esso molte scelte contingenti, appunto di carattere “pastorale”. Se il Magistero conciliare fosse al di sopra del Magistero pontificio non solo quanto al suo contenuto dogmatico, ma anche quanto ai suoi aspetti pastorali contingenti, si sarebbe di fronte a un super-concilio, ma un super-concilio non è più fonte di Magistero, ma solamente di ideologia.
Nel “tutto” Concilio Ecumenico Vaticano II vi sono due componenti:
a. vi è la riproposizione di insegnamenti definitivi del passato — per esempio, la dottrina sul primato pontificio proclamata dal Concilio Ecumenico Vaticano I — assieme a sviluppi dottrinali ormai irrinunciabili, come la dottrina sulla sacramentalità dell’episcopato o sulla posizione del laicato nella Chiesa o sul diritto alla libertà religiosa (25). Tutto questo non può cambiare, perché il Magistero non è magistero inventivo, ma tradizionale;
b. vi sono però anche scelte pastorali che lo sviluppo e l’esperienza successivi possono suggerire di cambiare. Dalla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II sono ormai trascorsi più di venticinque anni ed è ammessa da tutti un’accelerazione nel passare del tempo propria del mondo contemporaneo. E il dettato conciliare non può essere considerato un blocco monolitico, come prova con ogni evidenza un fatto, che ha provocato molte reazioni proprio negli ambienti più conservatori: infatti, contro l’esplicita prescrizione conciliare secondo cui “l’uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, […] [doveva essere] conservato nei riti latini” (26), il Magistero seguente ha fatto altre scelte: quindi, allo stesso modo, scelte diverse possono essere fatte in altri campi.
B. Lo sganciamento del Concilio Ecumenico Vaticano II dal contesto che lo sostiene, che è il Magistero della Chiesa nella sua continuità, fino al Magistero vivente attuale, lo trasforma fatalmente in una realtà ideologica, che non nutre più la fede ma ne è parassita. Di fatto, nelle mani di una certa corrente teologica — di cui i firmatari dei manifesti sono un’espressione —, tale concilio è diventato un’arma impropria, come una chiave inglese, la cui funzione propria consiste nello svitare bulloni, ma che può venire impropriamente usata per spaccare la testa del prossimo… La funzione propria del Concilio Ecumenico Vaticano II è di essere un concilio della Chiesa cattolica, uno dei tanti, dotato di una sua autorità, in connessione organica con tutti gli altri concili e con tutte le altre espressioni della vita di fede della Chiesa: quando viene contrapposto al Magistero vivente della Chiesa, sospettato di essergli “infedele”, viene snaturato e viene ad assumere una finalità che non è a esso propria, cioè quella di strumento per l’introduzione di un’ideologia nella vita della Chiesa; quando è sottratto al suo luogo naturale, cioè alla continuità della Tradizione e al controllo del Magistero vivente, anche per la sua vastità e per il suo carattere accentuatamente pastorale, diventa soggetto a tutte le interpretazioni più aberranti e si trasforma in un ideale arnese di scasso del Sacro Deposito.
A volte si ha l’impressione che il Concilio Ecumenico Vaticano II diventi il criterio unico, quando non anche esclusivo, per giudicare dell’ortodossia nella Chiesa. Allora non è più soltanto un super-concilio, ma anche un super-dogma, fra l’altro dimenticando, per l’occasione, l’importante dottrina sui gradi di certezza teologica che ci si affretta invece a richiamare allo scopo di rivendicare libertà nei confronti del Magistero pontificio in campo morale. Suscita veramente indignazione, da questo punto di vista, leggere nel manifesto dei teologi tedeschi che mons. Marcel Lefebvre ha “messo radicalmente in discussione lo stesso magistero”, non tanto per il giudizio in sé e per sé, che è certamente corretto, quanto per il contesto in cui è inserito: infatti, se il prelato francese ha messo in discussione il Concilio Ecumenico Vaticano II e questo significa mettere in discussione radicalmente il Magistero, molti firmatari del manifesto hanno messo in discussione, in più occasioni, dogmi definiti e certamente “centrali” come la divinità di Gesù Cristo, la verginità di Maria e il peccato originale (27), e ora negano globalmente il Magistero ordinario della Chiesa, e questa sarebbe soltanto una proposta di “dialogo”…
7. Venendo finalmente al modo in cui sono stati presentati i manifesti, il disegno è evidente e consiste nell’esercitare una pressione sull’autorità della Chiesa facendo leva sul potere dei mass media, cioè attraverso un appello al “braccio secolare” del- l’opinione pubblica.
Non si tratta di una novità: il primo documento ecclesiastico in cui si usa la parola “Magistero ordinario”, la lettera Tuas libenter, inviata da Papa Pio IX, in data 21 dicembre 1863, all’arcivescovo di Monaco di Baviera — dalla Tuas libenter il termine passa poi definitivamente nel vocabolario della Chiesa con il Concilio Ecumenico Vaticano I —, è una risposta al famoso discorso di Ignaz von Döllinger al congresso dei teologi cattolici, tenuto nel capoluogo bavarese nei mesi di settembre e di ottobre del 1863. Ignaz von Döllinger parlava di un “potere” della scienza teologica accanto a quello ufficiale dell’autorità ecclesiastica, un potere che si esercitava appunto attraverso l’“opinione pubblica” (28). Ma il copione è ancora più antico, dal momento che è stato un po’ il vezzo di tutti i teologi in rotta con l’autorità — si pensi a Guglielmo di Ockham — quello di far pressione sulla Chiesa attraverso il potere mondano: un ternpo poteva essere l’imperatore, oggi è il potere dei mass media e di chi li controlla. Anche allora il richiamo alla libertà favoriva, di fatto, l’asservimento della Chiesa al mondo. A costoro, oggi come ieri, bisogna avere il coraggio di rispondere: non abbiamo bisogno di maestri perché, quando siamo in comunione con colui che Cristo ha posto a fondamento della Chiesa, abbiamo l’unzione del Santo (29).
Pietro Cantoni
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(1) Cfr. anche Eb. 11, 6: “Senza la fede […] è impossibile essergli graditi; chi infatti s’accosta a Dio deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano”.
(2) San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIIa, q. 64, a. 2, ad 3.
(3) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum, n. 5. La citazione nel testo è tratta dal Concilio Ecumenico Vaticano I, Costituzione dogmatica de fide catholica Dei Filius, cap. 2.
(4) Ricavo questa espressione da una meditazione del compianto cardinale Giuseppe Siri, un grande uomo di Chiesa caratterizzato da una straordinaria sensibilità ecclesiologica: cfr. i suoi Esercizi Spirituali, Edizioni Libreria Arcivescovile, Genova 1978, pp. 349 ss.
(5) San Clemente Romano, Lettera ai Corinti, XLII, 1-5, in I Padri apostolici, trad., introduzione e note di Antonio Quacquarelli, Città Nuova, Roma 1981, pp. 76-77.
(6) Ibid., XLIV, 1-2, p. 78.
(7) Melchor Cano O.P., De locis theologicis, l. V., cap. V, concl. 2, cit. in card. Charles Journet, L’Église du Verbe incarné. Essai de théologie speculative, vol. I, La hiérarchie apostolique, 3a ed., Desclée de Brouwer, Parigi 1962, p. 470.
(8) Brian Tierney, Ursprünge derpäpstlichen Unfehlbarkeit [Origini dell’infallibilità papale], in Hans Küng (a cura di), Fehlbar? Eine Bilanz [Fallibile? Un bilancio], Benzinger, Zurigo-Einsiedeln-Colonia 1973, p. 124.
(9) Cfr. Bernhard Häring, Chiedere l’opinione di vescovi e teologi, in Il Regno-Attualità, anno XXXIV, n. 2, 15-1-1989, pp. 1-4.
(10) Il documento è stato firmato il 6 gennaio 1989 e diffuso il 25 dello stesso mese. Mi sono servito dei testo tedesco pubblicato sul Deutsche Tagespost, del 28-1-1989, e delle traduzioni italiane comparse in Il Regno-Attualità, anno XXXIV, n. 4, 15-2-1989, pp. 71-74, e in ADISTA, anno XXIII, n. 11, 9/10/11-2-1989, pp. 3-6. Poiché le dichiarazioni successive non aggiungono pressoché nulla dal punto di vista contenutistico al documento tedesco, essendo apparse come attestazioni di solidarietà, i centocinquantasette teologi francofoni e i sessantadue spagnoli si potrebbero semplicemente sommare ai centosessantatrè firmatari della Dichiarazione di Colonia.
(11) Cfr. ADISTA, anno XXIII, n. 27, 10/11/12-4-1989, p. 5.
(12) Cfr. ibid., anno XXIII, n. 33, 4/5/6-5-1989, pp. 11-12. Restando valida l’osservazione fatta sopra, vale la pena di rilevare un passaggio proprio ai teologi spagnoli: “Il potenziamento, da parte di un importante settore della gerarchia, dei cosiddetti “nuovi movimenti” ecclesiali, di tendenza neoconservatrice, insieme al ripetuto discredito delle comunità di base, di tendenza progressista, sono sintomi chiari di regressione” (ibid., p. 12).
(13) Cfr. Lettera ai cristiani. Oggi nella chiesa…, in Il Regno-Attualità, anno XXXIV, n. 10, 15-5-1989, pp. 244-245.
(14) Ibid., p. 244.
(15) Cfr. Nessuna contestazione al magistero episcopale, intervista al teologo pisano don Severino Dianich, in Toscana oggi, 28-5-1989.
(16) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, n. 11.
(17) Cfr. Carlos Cardona, La “jerarquía de las verdades” y el orden de lo real, in Scripta Theologica, vol. IV, n. 1, gennaio-giugno 1972, pp. 123-142. Fra i documenti che interpretano il dettato conciliare spicca il Direttorio Catechistico Generale, emanato dalla Sacra Congregazione per il Clero l’11 aprile 1971: “Nel messaggio di salvezza esiste una gerarchia delle verità, che la chiesa ha sempre riconosciuto, formulando simboli o compendi delle verità della fede. Ciò non significa che alcune verità appartengano alla fede meno di altre, ma che alcune verità si fondano su altre che sono più importanti e da esse sono illuminate” (Enchiridion Vaticanum, vol. 4, n. 519).
(18) Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa IIae, q. 1, a. 6 ss.
(19) Il testo tedesco è effettivamente molto ambiguo: la frase “Wir wenden uns gegen die Verletzung dieser Lehre von den theologischen Gewißheitsgraden beziehungsweise von der “Hierarchie der Wahrheit”” può infatti essere tradotta — come ha fatto ADISTA — “Noi ci opponiamo alla violazione di questa dottrina dei gradi di certezza nei confronti della “gerarchia della verità””, il che significa equiparare i due punti di vista, oppure — come ha fatto Il Regno-Attualità — “Ci opponiamo a una prassi che […] viola questa dottrina dei gradi di certezza teologica e della contestuale “gerarchia delle verità””, ponendoli su un diverso piano.
(20) Cfr. Lc. 22, 32.
(21) Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, n. 16.
(22) Papa Pio XII afferma in questa enciclica, facendo eco a Papa Pio IX, che “è compito nobilissimo della teologia quello di mostrare come una dottrina definita dalla Chiesa è contenuta nelle fonti” (Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XII, p. 502). È evidente: 1. che questo non è il solo compito della teologia; 2. che il Concilio Ecumenico Vaticano II non ha affatto abrogato questa dottrina. Per rendersene conto basta confrontarla con la netta e inequivocabile affermazione della costituzione dogmatica Dei Verbum al n. 10: “L’ufficio […] d’interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo magistero vivo della Chiesa”, che cita in nota proprio l’enciclica Humani generis. Giuseppe Alberigo, uno dei promotori dell’iniziativa italiana, pretende invece, in un suo scritto di qualche anno fa, di accreditare il contrario, ma è costretto ad ammettere che il testo conciliare non è soddisfacente: “[…] è […] chiaro che esiste un divario innegabile tra le indicazioni di Giovanni XXIII [che sarebbero state nel senso di un Magistero non più autoritativo] e le conclusioni conciliari, divario che ha impacciato considerevolmente i quindici anni del post-concilio, privandoli spesso di motivazioni e indirizzi chiari, grandi e univoci” (Dal bastone alla misericordia. Il magistero nel cattolicesimo contemporaneo (1830-1980), in Cristianesimo nella storia. Ricerche ecclesiologiche esegetiche teologiche, vol. II, n. 2, ottobre 1981, pp. 514-515). A me invece pare chiaro che per Giuseppe Alberigo il punto di riferimento non è più ciò che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha effettivamente detto, ma quello che avrebbe dovuto dire: insomma, il “para” o “meta-concilio”. Lo stesso autore prosegue: “Le comunità confessanti hanno il diritto di riappropriarsi della fede anche nel senso di divenire soggetti — sotto la parola di Dio — della proclamazione evangelica e delle formulazioni che la rendono intelligibile e comunicabile. Nel loro seno i successori degli apostoli sono impegnati a riconoscere, discernere e autenticare, ma sempre nella consapevolezza che solo l’universale comunità dei credenti gode della fedeltà definitiva nella fede” (ibid., p. 518). Questa non è altro che la contraddizione formale del dogma dell’infallibilità del Magistero pontificio così come è formulato nella costituzione Pastor Aeternus del Concilio Ecumenico Vaticano I con la famosa postilla “ex sese non autem ex consensu Ecclesiae” (Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum Definitionum et Declarationum de rebus fidei et morum, n. 3074), che Papa Pio IX volle fosse aggiunta all’ultimo momento proprio per ovviare a un’interpretazione di questo genere. Secondo il Concilio Ecumenico Vaticano I le definizioni del Papa sono irreformabili “per sé stesse”, “ex sese”, e “non per il consenso della Chiesa”, “non autem ex consensu Ecclesiae”. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ripreso questa espressione e l’ha anche ampliata, precisando soltanto che il consenso della Chiesa non può mai mancare per l’azione dello Spirito Santo (cfr. costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 25). Nella Chiesa, dunque, l’ultima parola non sta nel consenso — peraltro sempre difficilmente verificabile e nient’affatto coincidente con l’”opinione pubblica” —, ma nel Magistero, ed è piuttosto il consenso a trovare nel Magistero la sua espressione autentica, oltre che la sua misura. Sul pensiero di Giuseppe Alberigo in questo tema, cfr. anche la voce Papa. I. Sviluppo storico, in Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di G. Barbaglio e S. Dianich, 2a ed., Edizioni Paoline, Roma 1979, pp. 1108 ss. Questo esempio — a cui se ne potrebbero affiancare di analoghi a proposito di altri firmatari — fa capire quanto sia nel torto chi si è meravigliato per questa “improvvisa” levata di scudi. In realtà il “manifesto” non dice niente di nuovo, ma “manifesta” solo che la profonda crisi della teologia cattolica nel mondo non si è arrestata alle Alpi…
(23) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Convegno della Chiesa italiana sul tema: Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, a Loreto, dell’11-4-1985, n. 7.
(24) Certamente si è avuto presente soprattutto quanto il card. Joseph Ratzinger ha affermato il 13 luglio 1988 a Santiago del Cile: “La verità è che lo stesso Concilio non ha definito nessun dogma e ha voluto in modo cosciente esprimersi ad un livello più modesto, meramente come Concilio pastorale; certo, molti lo interpretano come se fosse quasi il superdogma che toglie importanza a tutto il resto” (Il Sabato, anno XI, n. 31, 30-7/5-8-1988).
(25) Il valore di queste dottrine viene tutto dall’essere punti culminanti di un processo di sviluppo tradizionale e quindi dall’essere omogenee con questo stesso processo. Un’interpretazione dialettica, che le ponga in contraddizione con gli insegnamenti passati, mentre falsifica le intenzioni esplicite del concilio, toglie a esse, per ciò stesso, ogni autorità di Magistero. Sulla continuità del Magistero conciliare con la Tradizione in tema di libertà religiosa, cfr. Dominique-Marie de Saint-Laumer, Le droit a la liberté religieuse et la liberté de conscience, Société Saint-Thomas-d’Aquin, Chémeré-le-Roi, Ballée 1987; e Brian W. Harrison, Le développement de la doctrine catholique sur la liberté religieuse. Un précédent pour un changement vis-à-vis de la contraception?, Société Saint-Thomas-d’Aquin-Dominique Martin Morin, Chémeré-le-Roi, Ballée-Bouère, Grez-en-Bouère 1988.
(26) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione su la sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 36, § 1. Il n. 54 della stessa costituzione, in cui si parla di “un conveniente posto alla lingua volgare” o di “un uso più ampio della lingua volgare nella messa”, non intendeva assolutamente contraddire o vanificare quanto proclamato al n. 36: cfr. Acta Synodalia Concilii Oecumenici Vaticani Secundi, vol. II, Periodus secunda, Pars II, Congregationes generales XL-XLIX, Poliglotta Vaticana, 1972, pp. 290-292.
(27) Per limitarsi soltanto al caso di Hans Küng ed Edward Schillebeeckx sui terni dell’infallibilità e del sacerdozio ministeriale che sono stati oggetto di interventi ufficiali, cfr. Sacra Congregatio pro Doctrina Fidei, Declaratio Mysterium Ecclesiae circa catholicam doctrinam de Ecclesia contra nonnullos errores hodiernos tuendam, del 24-6-1973, in Enchiridion Vaticanum, vol. 4, nn. 2564-2589; Giovanni Paolo II, Epistula “Die umfangreiche Dokumentation” reverendissimis Germaniae occidentalis episcopis: de divino deposito fideliter custodiendo et infallibiliter declarando a Dei Filio ecclesiae concredito, del 15-5-1980, ibid., vol. 7, nn. 374-399; Sacra Congregatio pro Doctrina Fidei, Epistula “Sacerdotium ministeriale” ad Ecclesiae catholicae episcopos de quibusdam quaestionibus ad eucharistiae ministrum spectantibus, del 6-8-1983, ibid., vol. 9, nn. 380-393; Sacrée Congrégation pour la doctrine de la foi, Lettre “LaCongrégation” au r. p. E. Schillebeeckx, o. p., del 13-6-1984, ibid., vol. 9, nn. 830-836. E questo “dialogo” non si è affatto limitato ai libri e agli articoli scientifici: a suo tempo suscitò parecchio scalpore la predica che Herbert Haag, uno dei firmatari più prestigiosi — con scritti tradotti anche in italiano —, tenne a Lucerna l’8 dicembre 1980, in occasione della festa dell’Immacolata Concezione: dopo aver premesso che “il privilegio di Maria di essere stata concepita e di essere nata senza peccato originale presuppone che tutti gli altri uomini sono stati concepiti e sono nati affetti da un peccato” e che “questa dottrina però oggi comincia a vacillare”, proseguì per l’intera omelia adducendo tutte le buone ragioni per cui Immacolata Concezione, peccato originale ed effetti purificatori del battesimo erano credenze da lasciar cadere in nome dell’esegesi e della scienza moderne… (Das Neue Volk, 4/21-1-1981).
(28) Ignaz vo Döllinger, Rede über Vergangenheit und Gegenwart der katholischen Theologie [Discorso su passato e presente della teologia cattolica], in Verhandlungen der Versammlung katholischer Gelehrten in München vom 28 September bis 1. Oktober 1863 [Atti del Congresso dei dotti cattolici in Monaco dal 28 settembre al 1° ottobre 1863], Georg Joseph Manz, Regensburg 1863, p. 46. Cfr. anche Joseph Hoffmann, Théologie, magistère et opinion publique. Le discours de Döllinger au Congrès des Savants Catholiques de 1863, in Recherches de Science Religieuse, tomo 71, n. 2, aprile-giugno 1983, pp. 245-258.
(29) Cfr. 1 Gv. 2, 27.