Gonzague de Reynold, Cristianità n. 301-302 (2000)
Parlare della pace nel momento in cui non vi è assolutamente pace: ecco un pardiscadosso crudele. Però, proprio in tali momenti s’impone di parlare della pace e di parlarne da cristiano.
Poiché glielo ha detto Cristo, il cristiano sa che il mondo è impotente a dare la pace agli uomini. Tuttavia sa che è possibile dare al mondo la pace di Cristo. Ma il mondo la saprà ricevere?
Se aprite il dizionario alla voce pace, leggerete solamente definizioni negative: stato di colui il cui riposo non è turbato, di una riunione d’uomini fra i quali non vi è disaccordo, di una nazione che non è in guerra con un’altra. Invece la definizione cristiana della pace è positiva, come deve esserla ogni vera definizione.
Forte dell’esperienza degli uomini e dei popoli che ha acquisito nel corso dei secoli, la Chiesa ci offre una dottrina della pace. Senza fare il teologo, dal momento che sento in modo particolare di non esserlo, tenterò di riassumerla secondo due grandi maestri del pensiero cattolico, sant’Agostino [354-430] e san Tommaso d’Aquino [1225 ca.-1274]; poi, la confronterò con la storia, perché sono uno storico; il che, in conclusione, mi riporterà al messaggio di Fatima.
I
Sant’Agostino fa la sua comparsa durante il periodo vuoto in cui crollano, meno sotto i colpi dei barbari che sotto il peso della propria decadenza, la civiltà antica e l’impero romano. La presa e il sacco di Roma da parte del visigoto Alarico, nel 410, gl’ispirò la stesura de La Città di Dio. La profanazione della città fu uno di quegli avvenimenti la cui ripercussione supera l’importanza reale. Ha scandalizzato i pagani e seminato il dubbio nello spirito di molti cristiani. Ha provocato uno di quei dibattiti che rimettono tutto in discussione, come oggi il nostro dibattito con i materialisti. L’attualità, l’opportunità di sant’Agostino deriva dalle analogie e dalle somiglianze fra il suo tempo e il nostro; entrambi sono anche posti sulla stessa linea di forza.
Da parte sua san Tommaso fa la sua comparsa durante quell’epoca della cristianità che fu l’autentico Rinascimento. Fu anche il tempo in cui l’Europa raggiunse il suo più elevato punto di unità. Per la prima volta nella storia si vide un mondo trarre la sua legge dalla sua fede, volere un ordine cristiano, proclamare il primato dello spirituale sul temporale. Qualunque cosa si possa pensare della dottrina su cui riposava il mondo medioevale, essa rimane la più alta concezione sociale e politica alla quale si sia mai elevato lo spirito dell’uomo. Ed è anche la più coerente. L’inglese, il protestante, il liberale [James] Bryce [1838-1922] la giudica in questi termini: “In questa teoria nulla v’era di assurdo sebbene molto vi fosse d’ineseguibile. Le idee su cui posava restano ancora inarrivate per grandezza e semplicità, e ancora son tanto innanzi al pensiero comune d’Europa e tanto lontane dal trovare uomini o nazioni capaci d’applicarle, come cinquecento anni indietro quando esse furono promulgate” (1). L’attualità, l’opportunità di san Tommaso deriva dai rimpianti che risveglia in noi l’epoca della cristianità, quando pensiamo all’Europa mutilata.
Malgrado gli otto secoli che li separano, malgrado le differenze d’epoca e di temperament o, le concezioni della pace che sant’Agostino e san Tommaso ci offrono sono identiche. Avrebbe potuto essere diversamente? Il cattolicesimo è il solo a possedere, fra poco da duemila anni, la continuità del pensiero, e costituisce un miracolo intellettuale.
L’una e l’altra di queste due concezioni c’insegnano a distinguere la pace assoluta dalle paci relative, le sole che ci può talora dare questo mondo, che non può darci la pace assoluta. Però questa ci viene promessa. Ma vi entreremo solo se avremo meritato anzitutto la ricompensa della pace interiore, che saremo riusciti a instaurare in noi, poi la ricompensa degli sforzi che avremo compiuto per instaurare la pace fra gli uomini. Infatti la pace assoluta è, al dire di sant’Agostino, “[…] il massimo ordine e la massima concordia nel godere di Dio e nel godere reciprocamente in Dio” (2).
Dobbiamo rassegnarci: le paci di questo mondo sono sempre e solo relative in un ordine imperfetto, non sono mai durature. Ma, nella misura in cui possiamo esercitare un’influenza, è nostro dovere raddrizzare la loro direzione verso la pace assoluta e perciò introdurre in esse lo spirito di giustizia e di carità.
La prima via che ci si apre verso la pace assoluta è la pace interiore, personale. Essa è la pax Christi, proprio quella che salva le nostre anime. Se la possediamo, saremo sufficientemente coraggiosi per attraversare tutti i tempi, sufficientemente robusti per sopportare tutti i mali, sufficientemente eroici per affrontare tutti i martíri. È la ricompensa dell’ordine che, non senza lotte feroci, saremo riusciti a stabilire in noi. Questa ricompensa è lo stato di grazia: si tratta del suo aspetto spirituale. Ma è anche il suo aspetto umano. Se ci abbandonassimo alla rivolta e all’anarchia delle passioni e degli istinti, che cosa accadrebbe? Perderemmo l’umanità per cadere nell’animalità; ci porremmo sotto la minaccia del regresso anzitutto per degenerescenza morale, infine fisica: alcuni osservatori ci hanno avvertito. Infine, questa ricompensa ha un aspetto intellettuale. La pace dell’anima illumina lo spirito e gli conferisce la virtù il cui nome evoca la calma e la luce: la serenità. Non ne abbiamo forse bisogno per dominare gli avvenimenti, comprenderli, prevedere l’avvenire?
La pace interiore è una delle condizioni della pace esteriore. La pace diventa una virtù nell’anima dell’uomo. La diventa perché è un atto di carità. È anche superiore alla giustizia. “[…] la pace — dice san Tommaso d’Aquino — è indirettamente opera della giustizia in quanto questa cioè, proibendo, rimuove l’ostacolo. Ma è opera della carità direttamente: perché secondo la propria ragione la carità produce la pace” (3). Nella giustizia vi è costrizione, nella pace amore. Come la carità da cui procede, la virtù della pace è unitiva. Riunisce i popoli nella comprensione della loro diversità e nella coltivazione dei beni superiori che possiedono insieme. Li dirige verso lo stesso fine. Fa diventare sagge le comunità moralizzandole. La pace interiore feconda la pace esteriore come un fiume sotterraneo del quale si riconosce la presenza invisibile dagli alberi che fa crescere e dai campi che fa verdeggiare.
Il cristiano non è mai isolato. Il legame che lo unisce a Dio lo unisce ai vivi e ai morti: faccio soltanto questa allusione alla grande dottrina della comunione dei santi. Ma, se l’amore della patria può bastare a riunire gli uomini per nazioni, solamente il legame religioso ha la forza sufficiente per riunirli internazionalmente. Perché cessino di sentirsi stranieri gli uni gli altri serve una comunità di fede. Se ne vuole un esempio? L’Europa si è fatta grazie alla fusione nel cristianesimo cattolico, sotto gli auspici della Chiesa, di due mondi estranei, nemici: il mondo antico e il mondo barbaro.
La concezione cattolica edifica la pace a piani e a gradini: come una torre. Sant’Agostino definisce questa gradazione. Parte dall’uomo e dalla sua pace interiore, sale alla pace domestica, si eleva a quella della città, raggiunge sulla vetta, grazie alla Chiesa, la pace assoluta, la pace in Dio. Il passo si chiude con la celebre definizione: “[…] la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. L’ordine è la disposizione di realtà uguali e disuguali, ciascuna al proprio posto” (4).
In mezzo ai mali del suo tempo, il vescovo d’Ippona non si è mai disinteressato della pace umana. Il suo genio di governo si era fatto un’idea chiara dell’ordine che avrebbe assicurato al mondo. Su che cosa fa riposare quest’ordine? Sulla carità. Essa si manifesta politicamente nell’accettazione, nella comprensione della diversità umana. “[…] diversità di costumi, di leggi, di istituzioni con le quali si istituisce o si mantiene la pace terrena, senza eliminare o distruggere nessuna di esse, anzi accettando e seguendo tutto ciò che tende ad un unico e medesimo fine della pace terrena, nonostante le diversità da nazione a nazione, purché ciò non costituisca un ostacolo per quella religione che insegna a venerare l’unico, vero e sommo Dio” (5). Per questo “anche la città celeste quindi usa, nel suo cammino, della pace terrena, protegge e desidera l’armonia delle volontà umane in ciò che riguarda la natura mortale degli uomini, fatta salva la devozione e la religione, e riferisce questa pace terrena alla pace celeste, che è la vera pace, da ritenersi e da definirsi l’unica pace della creatura razionale” (6). Così si esprime sant’Agostino.
Che cosa c’insegna questo passo? Ecco: l’ordine internazionale il più conforme allo spirito cristiano e il meglio orientato verso la pace assoluta è quello della societas civitatum. Questa espressione agostiniana si traduce con federazione. Questo termine e quello, più forte, di confederazione esprimono, attraverso la loro etimologia, anche un’idea di libero accordo fra città, fra nazioni, accordo fondato sul rispetto della parola data, sulla fiducia reciproca e sull’onore. L’ordine federativo non taglia nulla, non distrugge nulla, conserva tutto, armonizza tutto della diversità umana, per usare di nuovo i termini del grande Dottore.
II
Quindi la nostra dottrina c’insegna quale pace noi cristiani, noi cattolici potremmo dare a questo mondo incapace di darci la pace. Ma che cos’è questo mondo?
A questa domanda tocca rispondere alla storia. Poniamoci nel suo fuoco generatore, l’Europa, perché esiste una storia mondiale soltanto grazie a essa. Come la storia d’Europa, attraverso quale espansione progressiva del suo sistema di relazioni è diventata, in una data recente, la storia del mondo, come si è sviluppata fino a oggi?
Si è sviluppata per epoche. Un’epoca è una durata fra due cambiamenti. Il primo l’apre, il secondo la chiude. È naturale che noi scegliamo, per designare questi due cambiamenti, la porta d’ingresso e la porta d’uscita, gli avvenimenti che li manifestano con evidenza, che ne sono i precipitanti, fra gli avvenimenti dei quali [Jacques-Bénigne] Bossuet [1627-1704] dice appunto, nel suo Discours sur l’histoire universelle, che fanno epoca. Proprio questa è la portata di quelli dei quali noi siamo stati, siamo e saremo ancora testimoni.
Un’epoca è anche la durata di una civiltà, come conseguenza della società che l’ha prodotta. Infine, civiltà e società hanno come motore una certa idea dell’uomo e del destino umano. Un’epoca non è immobile. All’interno del suo sviluppo passa attraverso trasformazioni successive; ha una giovinezza, una maturità, una vecchiaia con, al termine, la morte. Infatti le collettività umane vivono, per analogia, come l’uomo stesso, fra una culla e una tomba.
Ma quale tomba?
Quando un’epoca ha esaurito il suo principio vitale, quando non ha più una durata realmente vissuta, quando è già “lavorata” da una nuova epoca che si sta formando in essa e le toglie la sua sostanza, si produce una rivoluzione nel senso primo del termine: ritorno al punto di partenza, chiusura del ciclo. L’epoca cade allora in fondo a un periodo vuoto, nel quale si dissolve. La società si disgrega; i popoli si sradicano e si rimettono in movimento; la curva della civiltà flette e la barbarie fa di nuovo la sua comparsa.
Tuttavia, con molta incertezza e fatica, e con lentezza, con avanzate e con ritirate, con convalescenze e con ricadute, un’altra epoca finisce per uscire dal periodo vuoto. Essa non sa ancora il proprio nome: gli storici gliene daranno uno più tardi, e non sarà sempre quello giusto. Per lungo tempo avrà gli occhi chiusi. Ci vorranno numerose generazioni perché finalmente, uscita dal cratere e dalle lave, prenda il suo ritmo.
Ma, prima che la nuova società abbia potuto costituirsi e stabilizzarsi, non si potrà produrre lo schiudersi di una nuova forma di civiltà.
Per rendere concreto quanto vi è di astratto e di schematico in questa esposizione mi servirò di un’immagine. Paragonerò questo sviluppo della storia europea per epoche e per periodi vuoti a una lunga catena di montagne, una catena interrotta di tratto in tratto da depressioni ripide e profonde. Ogni segmento di questa cordigliera s’iscrive fra due di queste depressioni. Risale con lentezza dall’una per cadere con rapidità nell’altra. Lo domina una vetta, luminosa come un ghiacciaio al sole. L’avete inteso: questa immagine simboleggia l’apogeo di una civiltà; ma vi è poco spazio su una cima e non vi ci si può fermare a lungo.
Cominciamo a situarci su questa linea di forza di cui ho tentato di tracciarvi la curva. Siamo in fondo a questo periodo vuoto che separa l’epoca dell’uomo — è il nome che do all’epoca moderna — da un’altra epoca della quale non si potrebbe dire che cosa sarà se non con presunzione e imprudenza storica. Ci troviamo ancora nel provvisorio e nell’incerto.
Per quanto siano dolorosi per le generazioni che li subiscono, i periodi vuoti hanno il pregio di porci davanti al dilemma: o progresso o regresso. Ci costringono a meditare non solo sui nostri destini personali, ma anche su quelli delle collettività di cui siamo membri e, infine, su quelli della stessa umanità. Infatti, si pone il problema delle ragioni d’essere e dei fini. Ha per corollario quello dei mezzi. Nel corso di questi periodi vuoti, nei quali tutto è disordine e conflitto, i popoli sofferenti provano la nostalgia della pace. Ma gli spiriti riflessivi provano quella dell’ordine, unico mezzo per giungere alla pace. Nel corso dei tempi che chiamiamo normali, essa si presenta nella sua forma tradizionale di trattati che mettono fine a una guerra. Ma quando si producono le grandi catastrofi della storia, la concezione si dilata e si fa complessa. Il fatto è che si tratta di ricostruire un mondo. La pace è la base di questa ricostruzione. Assume un carattere universale, perché si deve estendere a tutte le nazioni. Assume un carattere intellettuale, perché nessuna ricostruzione nell’ordine dei fatti è possibile, nessuna è durevole se non corrisponde a una sintesi nell’ordine dello spirito. Assume un carattere spirituale, perché le intemperie riusciranno presto ad abbattere la casa comune, se il tetto della religione non viene a coprirla completamente.
Non è la prima volta nella storia che questa necessità, questa nostalgia della pace in un ordine universale si è fatta sentire, perché non è la prima volta che un mondo è crollato e che è stato necessario mettersi a ricostruirne un altro con i suoi cocci. Inoltre, per la prima volta questa nostalgia, questo bisogno sono diventati così intensi, ed è anche la prima volta che si elevano tanti ostacoli davanti all’opera di pace e di ricostruzione.
III
Da qualche anno assistiamo a questo inquietante fenomeno: la crescita dello Stato e la diminuzione dell’uomo. L’uomo contemporaneo non teme più la natura o i demoni, come i suoi lontani antenati, ma ha paura di sé stesso perché è il demone di sé stesso. Il suo ultimo rifugio è il suicidio nel collettivo, perché è sempre pronto a sacrificare la propria libertà alla propria sicurezza. Siccome ha perso la sua pace interiore, egli non è più una garanzia per la pace esteriore. Il suo panico davanti alla guerra lo mostra adeguatamente.
Quanto alla società, dopo che, a partire dal secolo XVI, ha perduto l’una dopo l’altra le proprie unità fondamentali a cominciare dall’unità religiosa, chiave di volta delle altre, è venuta disgregandosi, atomizzandosi. Oggi la società non esiste più: lo Stato l’ha sostituita con un’organizzazione che emana da lui e ritorna a lui. Si tratta della conseguenza della tirannia delle ideologie. La loro conseguenza fatale sta nel fatto che, proponendosi di procurare all’uomo la pace assoluta sulla terra, questi sistemi, costruiti astrattamente e applicati a forza alla vita umana, ci hanno portato alle soglie della guerra assoluta che ci minaccia tutti i giorni. L’assenza di una società articolata che serva da intermediario e da ammortizzatore fra l’uomo e la massa, fra l’uomo e lo Stato, ha scavato un ampio fossato fra noi e la pace.
In definitiva, per salvare tutto vedo solamente l’ordine cristiano. Senza di esso e senza la pace, il mondo è minacciato dalla barbarie di realizzare un’evoluzione regressiva fino alle caverne della post-storia.
Dunque, pax christiana, ma con doverose precisazioni.
La pace cristiana non ha niente a che vedere né con il pacifismo né con il neutralismo. Che cosa sono, infatti, pacifismo e neutralismo? Le maschere mal messe di un disfattismo che non osa dire il proprio nome. L’esaurimento dell’Europa spiega questo partito preso di non resistenza, che non aggrava meno il pericolo di una guerra generale. Certo, tutti dobbiamo pregare per la pace, perché pregare è volere, operare per la pace ove possiamo farlo e per quanto possiamo farlo: lo stesso dovere c’impedisce di accettare le false paci denunciate da sant’Agostino, quelle degli uomini che commettono iniquità. Vi sono paci che sono trappole, vi sono paci che sono abdicazioni, vi sono paci che sono apostasie, vi sono paci che sono schiavitù, vi sono paci che sono morti. Per distinguerle da quella vera abbiamo un criterio: la giustizia e la carità. Orbene, ci ha detto san Tommaso, la giustizia serve proprio per togliere l’ostacolo: perciò deve avere braccia forti. Noi facciamo parte della Chiesa militante. Essa esige che siamo uomini per poter essere cristiani.
Fra la pace interiore e la pace esteriore se ne dovrebbe inserire un’altra: quella fra gli stessi cristiani. Non alludo all’unione delle Chiese: è così lontana da poterla guardare ancora, con dispiacere, come un’utopia; alludo all’unione dei cristiani e, anzitutto, a quella dei cattolici. Il rimorso per aver stracciato o lasciato stracciare la veste inconsutile lavora le coscienze religiose. Le spinge a cercare terreni solidi e coltivabili che possano essere seminati da tutti i cristiani; le incita a spiegarsi gli uni gli altri; è l’inizio di una pace già ispirata dalla carità. Perché bisogna che l’unione dei cattolici, perfetta e imperturbabile quando si tratta della fede e della dottrina, fa tanta fatica a estendersi oltre? Perché le loro divisioni politiche, sociali, intellettuali diventano così aspre e irriducibili? Perché accade che giungano fino a preferire i loro nemici ai propri fratelli? La condizione umana comporta indubbiamente che ogni causa produca fanatici. Ma nello spirito ristretto del fanatico non vi è più posto per l’intelligenza, per la saggezza; nel cuore indurito del fanatico non vi è più posto per la carità, per la pace.
IV
Concludendo, lasciatemi riprendere il mio posto di storico e lasciate che mi ponga la domanda finale, quella di Isaia: “Custos, quid de nocte?” (7).
Uno dei maggiori maestri di quella fisica moderna che si è tanto liberata dal materialismo e dal determinismo, [Max] Plank [1858-1947], affermava in una celebre conferenza che l’ordine dell’universo rivelava un’intelligenza e che non era concepibile senza di essa. Lo storico, quando è giunto a liberarsi dalla specializzazione senza idee e dall’erudizione senza limiti, come ci si libera dai cespugli per guadagnare un’altura, lo storico si vede assolutamente vicino a una conclusione analoga. Malgrado il disordine umano, la storia rivela un’ordine; malgrado le confusioni e gli oscuramenti dello spirito umano, essa rivela un’intelligenza. La storia, che segue una direzione costante, la storia che è una forza, la storia che non è assolutamente il passato ma tutto il corso del fiume umano, dalla sorgente alla foce; la storia che prende il passato, lo spinge sul presente e li proietta entrambi nell’avvenire, la storia che è iniziata si dirige verso la propria fine, verso una fine.
Io faccio parte di un popolo realista e pratico, di un popolo che sa che la prima condizione per salire sui ghiacci e sulle rocce sta nell’avere in mano una piccozza e scarpe chiodate. Tuttavia mi colpisce come conclusione di lunghi anni di ricerche, d’analisi, di confronti: siamo in un’ora solenne in cui i dati della storia e i dati della fede s’incontrano e si collegano a formare un angolo acuto, un angolo che indica. La lezione degli avvenimenti e il messaggio di Fatima sono in accordo.
Gli avvenimenti ci dicono: “Siete in un periodo vuoto, fra il progresso e il regresso. Ricordatevi che, in analogia con l’uomo stesso, le collettività sono mortali. Tenete presente che nella storia vi sono più popoli morti che popoli vivi. Convincetevi che la crisi attuale è la più grave della storia, in primo luogo perché è mondiale, in secondo luogo perché la scienza ha messo fra le mani dell’uomo strumenti tanto potenti da distruggere lui stesso la propria civiltà e forse il globo medesimo”.
Il messaggio di Fatima è quello di Cristo, ripetuto con insistenza da sua Madre: “Il regno di Dio è vicino. Se non fate penitenza, perirete tutti”.
Penitenza: gli avvenimenti ce la fanno fare da anni nostro malgrado. Ci resta da farla per volontà, per giustizia e per amore.
In questa terra di Portogallo, che per me è anche una patria, in mezzo a questo popolo che vent’anni fa si è consacrato al Cuore Immacolato di Maria, riprendo fiducia. Si riprende fiducia quando nostra Madre stende su di noi il suo manto azzurro. L’invocherò qui con quattro titoli: Madonna della Protezione, Madonna senza Paura, Madonna della Vittoria e Madonna della Pace.
Gonzague de Reynold
(1880-1970)
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Le message de Fatima et la paix du monde, in Courrier de Genéve, 17 e 18-10-1951. Le citazioni da sant’Agostino, fatte dall’autore ad sensum, sono state restituite alla loro integralità. Traduzione, note e inserzioni fra parentesi quadre redazionali.
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(1) James Bryce, Il Sacro Romano Impero, 2a ed. it. riveduta, Hoepli, Milano 1907, cap. XV, L’impero considerato come potere internazionale, pp. 301-341 (p. 316).
(2) Sant’Aurelio Agostino, La città di Dio, trad. it., con introduzione, note e appendici di Luigi Alici, Rusconi, Milano 1990, libro XIX, capitolo 13, 1, p. 964.
(3) San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa-IIae, q. 29, a. 3, ad tertium.
(4) Sant’Aurelio Agostino, op. cit., ibidem.
(5) Ibid., libro XIX, capitolo 17, p. 972.
(6) Ibidem.
(7) “Sentinella, quanto resta della notte?” (Is. 21, 11).