«Per combinazione mi ritrovai nel mio vicolo, davanti all’altarino della Madonna delle rose. L’affrontai così: “Cosa devo fare?”»
Per il Corriere della Sera, Filumena Marturano è come il presepe per Natale in casa Cupiello: non gli piace. Lo scrive il 9 febbraio in una lunga recensione a una versione dell’opera – per la verità, ben costruita, con la regia di Liliana Cavani – che sta girando per i teatri italiani. Non gli piace non tanto l’interpretazione dei due attori principali, Mariangela D’Abbraccio e Geppy Gleijeses, che anzi valuta positivamente, e con ragione. Quel che non gli piace è proprio l’opera in sé.
Scrive il critico del maggior quotidiano italiano che quando Eduardo de Filippo la mise giù «pensava a porgere agli italiani stremati dalla guerra una qualche consolazione», e questo è il limite più forte della commedia, dal momento che «le consolazioni in arte sono l’orrore». Peraltro si tratterebbe di una consolazione senza fondamento, poiché non si sa chi fra i due protagonisti è il peggiore: “don” Mimì Soriano sarebbe ripugnante perché viziato, esibizionista e puttaniere, Filumena quasi peggio di lui perché finge di morire per farsi sposare, e poi si fa sposare validamente grazie allo stratagemma di rivelare a “don” Mimì quale dei tre figli di lei è stato concepito con lui.
È certo che se passiamo la commedia al vaglio della legge Severino e dell’Autorità anticorruzione, Soriano e Filumena meritano le sanzioni più pesanti. Al rigore del Corriere sfugge purtroppo la sostanza: Filumena si è ridotta a fare per anni il mestiere che ha fatto perché lo ha ritenuto il solo modo per sfuggire alla miseria; chi è autorizzato a scagliare la prima pietra contro di lei? Nonostante questo, quando resta incinta – per ben tre volte – tiene con sé tutti e tre i figli: avrebbe potuto disfarsene, come l’establishment di cui il Corriere è portavoce avrebbe, se consultato, caldamente raccomandato. Invece li fa nascere, li mantiene e li fa crescere con dignità, pur nel dolore di tenerli lontani da sé per non comprometterne la riuscita: orrore per chi è convinto che l’aborto sia un diritto costituzionale!
«’E figlie so’ ffiglie!»
«Mi tornavano in mente i consigli delle mie amiche: “Cosa aspetti! Ti togli il pensiero! Io conosco uno molto bravo…”», ricorda Filumena, che poi fa il contrario rispetto a quanto consigliatole. Non ha preferenze fra di loro: dire a Soriano che uno dei tre è figlio di lui, ma non indicare quale è, non è tanto il perfido trucco per farsi sposare, quanto l’espressione viva dell’amore materno, per il quale i figli non sono scelti sul catalogo, come qualche servizio del Corriere ogni tanto racconta in modo rassicurante che accade senza problemi in giro per il mondo con uteri in affitto, et similia: «’E figlie so’ ffiglie! E so’ tutt’eguali!».
Filumena spiega anche come mai questi figli se li è tenuti: la prima volta aveva deciso di dare ascolto alle amiche, poi «per combinazione, camminando camminando, mi ritrovai nel mio vicolo, davanti all’altarino della Madonna delle rose. L’affrontai così: “Cosa devo fare? Tu sai tutto… Sai pure perché ho peccato. Cosa devo fare?”. Ma Lei zitta, non rispondeva. “Tu fai così, è vero? Più non parli e più la gente ti crede?… Sto parlando con te! Rispondi!”. “’E figlie so’ ffiglie!”. Mi bloccai. Rimasi così, ferma. Forse se mi giravo avrei visto o capito da dove veniva la voce: da una casa con un balcone lasciato aperto, dal vicolo vicino, da una finestra… Ma pensai: “E perché proprio in questo momento? Che ne sa la gente dei miei problemi? È stata Lei, allora… È stata la Madonna!”».
È un mistero che l’ateo Eduardo componga un inno alla vita e all’amore materno, e leghi l’uno e l’altro all’amore della Madre. Un mistero non nuovo: un altro non credente, di nome Carlo Collodi, componendo Pinocchio ha scritto una delle parabole più belle sull’amore del Padre per me, figlio discolo e ribelle. Ce lo ha fatto capire tanti anni fa il cardinale Biffi, con quel capolavoro di esegesi che è stato Contro Mastro Ciliegia. Il cardinale Biffi non scriveva sul Corriere della Sera.
Alfredo Mantovano
Da “Tempi” del 23 febbraio 2017. Foto da articolo