Nonostante il ritorno in forze degli attentati islamisti, il Vaticano conferma la visita papale in Iraq, prevista per l’inizio di marzo, che proverà a tendere la mano sia ai musulmani sunniti che agli sciiti
di Silvia Scaranari
La Santa Sede ha confermato il viaggio di Papa Francesco in Iraq programmato per il 5-8 marzo, nonostante le nuove restrizioni locali causate dal Covid 19 e i recenti attentati.
A due anni dall’incontro con il leader del mondo islamico sunnita, il Grand Imam di Al-Azhar Amhad al-Tayyed, avvenuto ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019, e la firma del documento sulla Fratellanza umana, Papa Francesco si reca in Iraq per incontrare le comunità cristiane, duramente provate dagli eventi degli ultimi anni, ma anche il leader del mondo sciita Al-Sistani.
Nonostante le dichiarazioni ufficiali delle autorità irachene, secondo cui non ci saranno rischi per la visita di Sua Santità, la situazione locale non si può dire tranquilla.
L’attentato del 15 febbraio all’aeroporto di Erbil è solo l’ultimo di una serie di attentati che hanno funestato il Paese dall’autunno scorso.
Secondo il Global Terrorism Index 2020 (relazione presentata annualmente dallo IEP – Istituto per l’economia e la pace fondato a Sidney nel 2007 – che fornisce autorevoli dati sull’impatto dato dal terrorismo e dalle condizioni bellicose sull’economia, la sicurezza, lo sviluppo, la cultura etc.) l’Iraq è il secondo Paese più pericoloso al mondo per atti terroristici dopo l’Afghanistan.
Analoghi dati sono quelli evidenziati dal Country Reports on Terrorism 2019, relazione presentata annualmente dal Dipartimento di Stato al Congresso degli Stati Uniti. Anche se l’Iraq è impegnato seriamente nella lotta al terrorismo, soprattutto di matrice ISIS, sta assistendo a tentativi di rinascita dello Stato Islamico.
Nonostante ufficialmente sia stato sconfitto nel dicembre 2017, l’ISIS è rimasto presente con bande armate che si sono rifugiate sulla catena montuosa di Hamrin, una striscia di venticinque km di lunghezza e otto di larghezza, nel governatorato di Kirkuk. Base dei miliziani curdi in guerra contro Saddam Hussein, dalla proclamazione del Califfato di Al-Baghadi, nel luglio del 2014, è diventata terra di nessuno. Da questa zona i miliziani cercano di ripristinare una specie di Stato nello Stato, grazie anche al sostegno delle popolazioni di Ninive, Kirkuk, Diyala, Salah al-Din e Anbar, cioè di tutta la zona contesa tra il governo regionale del Kurdistan e il governo iracheno, dove la confusione su chi-controlla-cosa rende più facile agire indisturbati o quasi. Lo stesso primo ministro dell’Iraq, Mustafa al-Kadhimi, alla fine di gennaio ha ammesso che il terrorismo è tornato a essere una minaccia seria alla stabilità del Paese, in un momento delicato dopo la dichiarazione, da parte degli USA, di voler ritirare parte delle truppe (restano sul territorio solo 2.500 soldati americani, per sostenere il processo di organizzazione delle forze irachene) e il rinvio delle elezioni presidenziali, previste per giugno, al prossimo ottobre.
Il primo di febbraio, l’esercito ha lanciato l’operazione “Leoni dell’isola”, nella zona di Ninive, per contrastare i militanti dell’ISIS, riuscendo a destabilizzarne l’organizzazione. Il 28 gennaio era stato ucciso Abu Hassan al-Gharibawi, uno dei capi, in un’operazione nella zona di Kirkuk, mentre la nuova operazione pare abbia portato all’uccisione di Abu Yasser al-Issawi, che molti indicavano come vice-califfo.
Le autorità devono assolutamente mettere un freno al crescere degli attentati. L’ultimo, all’aeroporto di Erbil, è stato rivendicato da Saray Awliya al-Dam, “I Guardiani del sangue”, un gruppo sciita filo-iraniano che finora era rimasto in seconda linea, limitandosi a piccoli attacchi contro convogli di rifornimento diretti verso le basi USA nelle aree di Bassora, Nassiryah e Baghdad. Già lo scorso 26 agosto, però, avevano puntato un camion dell’OMS, presso Mosul, nel Nord del Paese. L’altro ieri hanno alzato il tiro lanciando, secondo quanto diramato dai Guardiani stessi, 24 missili «contro l’occupazione americana» e aggiungendo: «L’occupazione USA non sarà al sicuro dai nostri attacchi da nessuna parte, nemmeno in Kurdistan».
Era dallo scorso settembre che basi americane, o a maggioranza americana, non subivano attacchi con missili o razzi. L’ultimo attacco missilistico contro obiettivi americani a Erbil era stato attribuito alla milizia sciita Hashad al Shabbi, che collabora con le milizie filo-iraniane che contribuiscono a rendere instabile l’area.
Gli attentati di grandi dimensioni erano, finora, di matrice sunnita e riconducibili ai miliziani dell’ISIS, come l’attacco nella notte fra l’11 e il 12 febbraio ad una postazione di polizia irachena presso Daquq, oppure la strage del mercato di Baghdad del 21 gennaio, che aveva causato la morte di 32 civili e il ferimento di altri 110. Il Paese è quindi ben lontano dall’essere pacificato e qualche preoccupazione in più può destare il crescere del terrorismo di stampo sciita, perché questo rileva la presenza di qualche appoggio più potente. Una bomba per far saltare un camion si può fabbricare o acquistare facilmente, ma 24 missili non si trovano per strada, è necessario l’aiuto di qualche realtà organizzata e interessata a destabilizzare la già molto precaria situazione del Kurdistan iracheno.
In questa situazione, il Papa si troverà a visitare non solo la capitale, ma anche alcune zone a rischio come Ninive, Mosul e la stessa Erbil. Le autorità locali assicurano che il Pontefice non correrà nessun rischio, e in effetti credo che la sua visita abbia almeno due motivi per ritenersi “protetta”.
Da un lato, i jihadisti sunniti sanno che toccare la persona del Pontefice metterebbe a rischio qualsiasi consenso finora ottenuto nell’opinione pubblica nazionale e internazionale e scatenerebbe una reazione violenta, con pesante danno alla loro posizione locale.
Dall’altro, un momento cruciale del viaggio è rappresentato dall’incontro a Najaf, città santa degli sciiti, con l’ayatollah Sayyd Ali Al-Husaymi Al-Sistani, una delle massime autorità religiose a cui guardano molti musulmani sia iracheni che iraniani. Najaf è città santa per eccellenza, conservando la tomba del cugino e genero del Profeta Muhammad, Alī, primo vero “Imam” per il mondo sciita. Sede di una famosissima università di diritto coranico, in cui molti ambiscono studiare, vede anche il più grande cimitero islamico del mondo, luogo ove sono sepolte molte personalità della storia musulmana e dove, ancora oggi, molti desiderano essere inumati per risorgere alla fine del mondo insieme al “Califfo ben guidato” Alī. Un attentato a Najaf sarebbe veramente impensabile.
Giovedì, 18 febbraio 2021