Joseph de Maistre, Cristianità n. 385 (2017)
Il Protestantesimo
Il testo manoscritto è conservato presso gli Archivi Dipartimentali della Savoia e accessibile on line all’indirizzo internet <www.savoie-archives.fr/ archives73/ archives73/ inventai/ seriej/ note-2J.htm>, consultato il 23-6-2017, Archives de Joseph de Maistre et de sa famille, manuscrits et correspondance, cote 2J 7, «Sur le protestantisme» (Turin, 1798, p. 318-362), vues 167-189. La traduzione, la suddivisione in paragrafi, la loro titolazione e le parti fra parentesi quadre sono redazionali; rispetto all’originale sono stati rivisti alcuni aspetti stilistici marginali, per esempio l’uso delle maiuscole e la punteggiatura.
Torino 1798
La ribellione è l’essenza del protestantesimo
Un autore anonimo, grande amante della forma di governo repubblicana, ha fatto qualche tempo fa un’osservazione molto degna di attenzione.
«Chiunque — ha detto — abbia letto la storia moderna umana e osservato i movimenti e le rivoluzioni dell’Europa, rileva chiaramente che, dai tempi della Riforma, c’è una lotta, a volte pubblica, a volte segreta, ma sempre reale, tra le repubbliche e le monarchie» (1).
Indubbiamente, quest’affermazione non è letteralmente esatta, dal momento che le repubbliche d’Europa non sono né abbastanza numerose né abbastanza forti per lottare contro le monarchie, e che in realtà esse non hanno in genere alcuna antipatia per le sovranità monarchiche.
Ma, correggendo il pensiero dell’autore e facendogli dire ciò che intendeva, se ne ottiene una grande verità: che, «dai tempi della Riforma, vi è in Europa uno spirito di rivolta che lotta a volte in maniera pubblica, a volte in maniera segreta, ma sempre in maniera reale, contro tutte le sovranità e soprattutto contro le monarchie».
Il grande nemico dell’Europa che è necessario soffocare con tutti i mezzi che non siano crimini, l’ulcera funesta che si attacca a tutte le sovranità e le rosicchia inesorabilmente, il figlio dell’orgoglio, il padre dell’anarchia, il solvente universale è il protestantesimo.
Che cos’è il protestantesimo? È la rivolta della ragione individuale contro la ragione generale e quindi è tutto quanto di peggio si possa immaginare. Quando il cardinale de Polignac [Melchior (1661-1741)] diceva al troppo celebre Bayle [Pierre (1647-1706)]: «Voi dite di essere un protestante; questa parola è molto vaga: siete anglicano, luterano, calvinista, o che altro?», Bayle rispose: «Io sono protestante nel senso pieno del termine: protesto contro tutte le verità»[(2)]. Questo famoso scettico ha dato così la vera definizione di protestantesimo, che è il nemico fondamentale di ogni fede comune a molti uomini; cosa che lo rende nemico del genere umano, perché la felicità delle società umane si basa solo su questo tipo di fede.
Il cristianesimo è la religione dell’Europa: questa terra gli si addice più della sua terra d’origine; in essa ha spinto radici profonde; si è mescolato a tutte le nostre istituzioni. Per tutte le nazioni del Nord Europa e per tutte quelle che, nella zona meridionale di questa parte di mondo, hanno sostituito i romani, il cristianesimo è antico quanto la civiltà; proprio la mano di questa religione formò queste nuove nazioni; la croce è su tutte le corone; tutti i codici iniziano con il Credo; i re sono degli unti, i preti sono dei magistrati, il sacerdozio è un ordine; l’impero è sacro, la religione è civile. Le due potenze si confondono; ognuna prende in prestito dall’altra una parte della sua forza, e nonostante le liti che hanno diviso queste due sorelle, esse non possono vivere separate.
L’uomo più audace non potrebbe immaginare nulla che possa sostituire questo sistema religioso. Tutti i nostri erostrati hanno distrutto: nessuno ha sostituito, nessuno ha osato nemmeno proporre qualcosa al posto di ciò che voleva far sparire: quindi dobbiamo sempre essere cristiani o niente.
Ma il principio fondamentale di questa religione, l’assioma primitivo su cui poggiava in tutto l’universo prima degli innovatori del secolo XVI, era l’infallibilità dell’insegnamento che si traduce nel cieco rispetto per l’autorità, nell’abnegazione di qualsiasi ragionamento individuale, e quindi nell’universalità della fede.
Ora, questi innovatori hanno minato questa base: hanno sostituito il giudizio particolare al giudizio cattolico; hanno sostituito follemente l’autorità esclusiva di un libro a quella di un ministero docente, più antico del libro e incaricato di spiegarcelo. Da ciò deriva il carattere speciale dell’eresia del secolo XVI. Non è solo un’eresia religiosa, ma un’eresia civile, perché, nel liberare il popolo dal giogo dell’obbedienza e nel concedergli la sovranità religiosa, essa scatena l’orgoglio generale contro l’autorità e mette la discussione al posto dell’obbedienza.
Da là deriva il carattere terribile che il protestantesimo ha manifestato dalla culla: è nato ribelle e l’insurrezione è il suo stato abituale.
I sovrani cristiani hanno potuto abusare del loro potere per diffondere il cristianesimo; ma mai il cristianesimo cattolico ha combattuto i governanti per stabilirsi nei loro domini; non ha mai impiegato altro che la persuasione, e questo è stato sempre il suo carattere distintivo. Costantino [Flavio Valerio Aurelio (272-337)], divenuto cristiano, senza dubbio ha potuto rendere pesante il suo scettro sugl’infedeli, ma il cattolicesimo, per governare nell’impero, non ha preso le armi contro Costantino. Abbiamo visto in questi ultimi tempi questa religione stabilirsi all’estremità dell’Asia: quale arma ha usato per vincere tutti i pregiudizi umani? Un religioso armato di un crocifisso di legno, e che ignorava necessariamente la lingua del paese quando ha toccato terra. Ma quando il sovrano ha voluto cacciarlo, ha resistito? Niente affatto. Ci furono martiri a migliaia e non si trovò neppure un ribelle. Quando Tertulliano [Quinto Settimio Fiorente (160 ca.-220 ca.)] diceva ai gentili del terzo secolo: «Siamo in tutto il mondo, negli eserciti, nei tribunali, nei palazzi, e così via.; vi lasciamo solo i templi»[(3)], sicuramente i cristiani erano nella condizione di farsi temere ma non si sono mai permessi nulla contro la sovranità. La fermezza indicibile che mostravano in mezzo ai tormenti più atroci le dimostrarono solamente ciò che avrebbe dovuto temere da loro se avessero avuto altri princìpi.
Quando il cristianesimo fu finalmente salito al trono le cose cambiarono. Dal momento in cui la religione e la sovranità si sono abbracciate nello Stato, i loro interessi si sono dovuti necessariamente confondere. È dunque difficile che quest’ultima non tenga dietro alla sovranità nelle sue conquiste ed è impossibile, in caso di attacco contro la religione, che la sovranità non prenda parte alla lotta.
È una distinzione che non si fa abbastanza, anche se è davvero essenziale. A volte il cristianesimo ha avuto l’aria di un conquistatore volgare perché camminava sotto la bandiera di un principe conquistatore; a volte si è difeso contro i suoi nemici con le armi temporali dei sovrani che regnavano con lui nelle medesime terre; a volte, infine, sembrava infliggere punizioni nel tempo a suoi sudditi ribelli, perché le due potenze si stavano difendendo insieme; ma mai il cristianesimo cattolico si è stabilito in un paese attraverso la rivolta contro l’autorità civile e mai ha usato contro di essa altro che apologie, ragionamenti e miracoli.
Questo carattere sorprendente della verità è esattamente l’opposto di ciò che il protestantesimo manifestò dalla nascita; è nato ribelle; il suo stesso nome è un crimine, perché protesta contro tutto. Esso non si sottomette a nulla, non crede nulla e, se fa finta di credere a un libro, è perché un libro non dà fastidio a nessuno.
Proprio ciò lo costituisce il nemico mortale di ogni sovranità, anche di quelle che governano con esso, perché stabilendo l’indipendenza dei giudizi, la libera discussione dei princìpi e il disprezzo per le tradizioni mina la base di tutti i dogmi nazionali che sono, come abbiamo visto, il palladio di tutte le principali istituzioni civili e religiose.
Questo carattere primitivo e indelebile del protestantesimo ne ha fatto tanto un’eresia civile quanto un’eresia religiosa. Più forte delle altre eresie, ha fatto ciò che quelle non hanno mai potuto fare: tutte sono state sparse su un terreno più o meno esteso, ma senza poter scacciare la fede universale. Il settario ha vissuto accanto al suo nemico, e a poco a poco ha perso il suo nome e la sua esistenza a misura che l’azione del principio universale soffocava il sistema ribelle.
Ma il protestantesimo ha fatto di più: ha diviso politicamente l’impero del cristianesimo; ha creato delle sovranità protestanti e in diversi Paesi d’Europa regna da solo.
Per ben penetrarne la natura, esso deve essere considerato nella sua duplice relazione con le sovranità che attaccò per stabilirsi e con quelle che l’hanno adottato come religione di Stato. Dobbiamo contemplare la sua azione rumorosa contro le sovranità che si sono opposte alla sua istituzione, e la sua azione sorda e deleteria nei confronti di quelle che lo hanno adottato.
Il cristianesimo, dal momento della sua origine, visse e si propagò con le sue proprie forze, nel corso di un lasso di tempo che supera la durata totale del protestantesimo. Per tutto questo tempo il potere civile l’oppresse sempre e spesso lo perseguitò; tuttavia, il cristianesimo non si è mai armato contro quello, e soprattutto i suoi capi non hanno mai predicato la dottrina della resistenza e della rivolta.
Ma il protestantesimo nacque con le armi in mano: rispettò la sovranità civile giusto il tempo che gli serviva a guadagnare forza e fu ribelle quando ebbe il potere di esserlo. Da ogni parte i suoi apostoli predicarono la resistenza ai sovrani; per stabilire i loro dogmi distrussero i troni, vomitarono insulti grossolani contro tutti i sovrani che hanno opposto loro resistenza. Non si può ricordare senza un brivido le tragedie orribili che il protestantesimo ha rappresentato in Europa. Esso ha infiammato, ha insanguinato la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, tutti i paesi, in una parola, dove si è potuto introdurre. La guerra dei Trent’Anni [1618-1648] fu opera sua: per trent’anni la Germania fu messa a ferro e fuoco a causa degli argomenti di Lutero [Martin Luther (1483-1546)]. Il detestabile Calvino [Jean Cauvin (1509-1564)], impadronendosi della riforma già così malvagia, ne fece ancora un’opera francese, vale a dire esagerata. Il carattere infernale che impresse alla sua setta è indelebile: essa ha fatto più o meno male a seconda delle circostanze, ma sempre è stata e sarà la stessa. Nell’ultimo secolo predicò la sovranità del popolo e il diritto di insurrezione; da essa il trono di Luigi XIV [re di Francia (1638-1715)] sarebbe stato sconvolto se ce ne fosse stata la possibilità; e i demagoghi odierni non hanno usato una sola arma che Jurieu [Pierre (1637-1713)] e i suoi colleghi non avessero usato prima di loro.
La morte di Carlo I [Stuart (1600-1649)] in Inghilterra fu l’opera del feroce presbiterianesimo, che ancora oggi fa ogni sforzo in suo potere per rovesciare questo trono che ha sempre odiato.
L’autorità e il diritto di ribellione: l’esempio francese
E che non ci si venga a dire: «Io non decido tra Ginevra e Roma» [(4)]: non è così difficile decidere. Dov’era lo scettro religioso agli inizi del secolo XVI? A Roma o a Ginevra? A Roma, credo: così, Ginevra era ribelle. Ora, in tutti i casi di ribellione, anche gli eccessi compiuti dal potere che si difende sono da mettere sul conto del ribelle. L’umanità intera ha il diritto di rimproverare la notte di san Bartolomeo [23-24 agosto 1572] al protestantesimo, al quale, per evitarla, bastava solo non compiere alcuna rivolta. Poiché qualsiasi potere, anche spirituale, non può essere esercitato sulla terra che da uomini; se la sovranità viene attaccata è impossibile che la debolezza umana non si mostri, e che la sovranità si difenda come un essere puramente razionale e impassibile.
Se essa supera i limiti di una legittima difesa il suo nemico non ha il diritto di lamentarsi. Un protestante che accusa la sovranità francese per la notte di san Bartolomeo assomiglia perfettamente a un giacobino del nostro secolo che protestasse contro la mancanza di umanità degli chouan [(5)]. Il protestantesimo dirà che aveva ragione? Ma quale ribelle non dice di avere ragione? Se questo argomento è valido esso giustifica tutte le insurrezioni. D’altronde, non si tratta di sapere chi avesse torto o ragione ma solo chi fosse sovrano o ribelle, e su questo punto non si può essere in dubbio.
È quindi un sofisma grossolano mettere sui piatti della bilancia gli eccessi di quelle che alcuni chiamano in modo ridicolo le due sette, come se il cattolicesimo fosse una setta! E come se ci fosse alcuna possibilità di confrontare il suddito che attacca e il sovrano che si difende!
Si scivola ben velocemente su delle grandi questioni! Poiché la Lega [santa o cattolica (1576-1594)] e le sanguinose esecuzioni effettuate nel secolo XVI hanno fornito ai philosophe del nostro secolo una miniera inesauribile di declamazioni e di sarcasmo, i philosophe sono stati bene attenti a sostenere le due cause; ma siccome c’è sempre tempo per cercare la verità e per dirla, si può ritornare sulle sentenze della filosofia.
Senza pretendere di giustificare gli eccessi criminali che disonorano e rovinano spesso le migliori cause e attenendosi alla sostanza della questione perfettamente sgombra da tutti i suoi elementi accessori, il principio della Lega era cattivo, o almeno così cattivo come comunemente lo si rappresenta? Enrico IV [di Borbone (1553-1610)] aveva il diritto di portare sul trono di Francia, malgrado i francesi, una religione nemica dei francesi (o che essi giudicavano tale)? E, generalizzando il problema, un principe che apostata, soprattutto in un momento di eccitazione e di fanatismo, soprattutto per abbracciare una religione incendiaria e anarchica che copre in quello stesso tempo il regno di cenere e sangue, non dovrebbe rinunciare alla corona? E i suoi sudditi, senza fare una vera e propria rivoluzione, senza intaccare la sovranità e limitandosi a resistere al sovrano, non avrebbero il diritto di considerare l’atto del re come un’abdicazione volontaria, seguendo l’ipotesi che Burke [Edmund (1729-1797)] ha, con così grande ingegno, sviluppato per Giacomo II [Stuart (1633-1701)] [(6)]?
E se questo re non era ancora salito al trono, la resistenza del popolo non si mostrerebbe sotto una luce ancora più plausibile?
Non rispondo nulla; la mia penna si rifiuta di mostrare un caso legittimo d’insurrezione! Ma ciò che qui le è molto più facile è mettere in luce l’incoerenza dei philosophe.
Quegli uomini che hanno costantemente in bocca le espressioni «contratto sociale», «patto primitivo», «resistenza legittima», ecc.; questi uomini che permetterebbero una rivoluzione per abolire la decima o i diritti feudali, sostengono l’obbedienza passiva quando si tratta del più grande e del più prezioso di tutti i diritti. Se Enrico IV avesse voluto imporre un centesimo per libbra sul peso senza il consenso del popolo, essi dimostrerebbero dottamente che il popolo aveva il diritto di resistere; ma se si tratta di portare sul trono una setta odiosa e funesta, di mettere in secondo piano la religione dominante, di dare alla sua rivale un mezzo abituale e quasi invincibile di seduzione e di conquista, di alzare un muro di separazione fra il sovrano e la grande maggioranza dei suoi sudditi, di appiccare nello Stato un incendio inestinguibile; tutto ciò è una bagatella, i rigidi difensori del diritto del popolo cambiano tutt’a un tratto di ruolo; san Paolo stesso non è più eloquente di loro sul diritto dei sovrani, ed è un crimine inespiabile per i francesi il fare la minima difficoltà al béarnese [(7)].
Che queste persone facciano pace con loro stesse: non chiediamo loro di essere ragionevoli perché è esigere troppo; ma siano almeno d’accordo con loro stesse.
Montesquieu [Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di (1689-1755)] ha detto con quel tono sentenzioso che si addice alla sua superiorità: «[…] è da considerarsi come una buona legge civile, quando lo Stato è soddisfatto della religione esistente, il non permettere che un’altra cerchi di stabilirvisi.
«Ecco dunque il principio fondamentale delle leggi politiche in fatto di religione. Quando si è padroni di accogliere o meno nello Stato una religione nuova, bisogna non accoglierla; ma se essa vi si è stabilita, bisogna tollerarla» (8).
Se fossi vissuto al tempo di questo grande uomo avrei voluto fargli alcune domande. In primo luogo, che cosa è una religione «stabilita» nello Stato? Quando una setta vuole introdursi in un paese non si ferma modestamente sul confine, e non ha riguardo a chiedere se vogliamo riceverla. Essa striscia silenziosamente come un rettile, semina i suoi dogmi nell’ombra all’insaputa del sovrano e improvvisamente si alza in modo brusco, caput a coeli regionibus ostendens [(9)]. Allora è «stabilita»? ……………………………… Senza dubbio non è quello che voleva dire Montesquieu, altrimenti non ci sarebbe stata alcuna distinzione. Questo grande uomo vuole quindi parlare di un’ammissione legale sulla base di una legge esplicita, o su una concessione tacita dichiarata dal tempo e dalla prescrizione. Fino ad allora non è «stabilita» e non si deve «permettere» ch’essa si stabilisca. Quindi dobbiamo resisterle; ma come? Questa sarebbe la seconda domanda che mi parrebbe molto importante. La si dovrà pregare, tramite un manifesto, di gentilmente uscire dallo Stato? Ho paura che questo modo non avrebbe successo. Si dovrà allora, per rispettare la massima di Montesquieu, ordinare, costringere e punire. Ma fino a che punto la severità è consentita e qual è quello oltre il quale diventa un crimine? Ciò che possiamo dire per certo è che ogni rigore non necessario è criminale e che qualsiasi severità è innocente se necessaria. Ciò che possiamo ancora avanzare con piena certezza è che la reazione della sovranità che si difende deve essere proporzionata all’azione del nemico che l’attacca. Su questo principio, che non può essere messo in discussione, siamo costretti a provare molta minore pietà su grandi atti di forza che erano in realtà solo disgrazie. Guardate il cadavere disteso sulla strada: l’assassino è vicino; esso eccita tutta la vostra indignazione, ma non appena apprendete che questo assassino è un viaggiatore tranquillo e che l’altro era un brigante caduto vittima di una giusta difesa, la pietà scompare. Il diritto pur ingrandendosi è sempre lo stesso. Non è in base alla gravità, ma alla loro necessità che si deve giudicare la moralità delle esecuzioni con cui una sovranità attaccata si difende. Tutto ciò che non è indispensabile è criminale; ma tutto ciò che possiamo pensare di più terribile è lecito se non c’era modo di difendersi altrimenti. Non ci si venga a dire: «Ho visto da entrambi i lati astuzia e furore»[(10)]. Eh! Senza dubbio, le passioni umane sono indistruttibili e gli uomini, anche se a buon diritto, combattono come degli uomini; ma non c’è paragone. Se in una guerra scatenata da ribelli cadono centomila uomini da entrambe le parti, dal lato della sovranità sono state date centomila morti, e dall’altro si sono commessi centomila omicidi. Verità così semplici non possono sfuggire a nessuno.
Così, nella terribile lotta del secolo XVI, vi era da un lato la ribellione che attaccava e dall’altro vi era la sovranità che si difendeva; e quando gli eccessi fossero stati pari da entrambi i lati, il partito malvagio per natura ed essenza non potrebbe rimproverare chi lo è stato per accidente.
Il protestantesimo distrugge qualsiasi autorità
È facile dimenticare le disgrazie dei nostri antenati; ma chi potrebbe descrivere con energia sufficiente i mali che il protestantesimo versò sull’Europa nel primo secolo della sua esistenza? Furono tali che uomini di altissimo pregio credettero di scorgervi qualcosa che usciva dall’ambito degli eventi umani e sospettarono di essere testimoni di queste grandi calamità che dovevano annunciare la fine del mondo secondo le tradizioni religiose. Wesenbeck [Matthaeus von (1531-1586)], giurista tedesco [(11)] molto stimato, uomo serio e colto, si è scusato veramente, nel 15** [(12)], di occuparsi di un’opera profana in un momento in cui visibilmente si scorgeva la fine del mondo. Leggendolo, ci si commuove ancora sull’angoscia che descrive (13).
«Qual è il frutto di questa Riforma?» diceva Montaigne [Michel Eyquem, signore di (1533-1592)] con il suo ghigno filosofico. «Qualsiasi miglioramento, a mio parere, si riduce a chiamarsi Abramo o Isacco al posto di Giovanni o Claudio» [(14)]. Sarebbe molto auspicabile che avesse avuto ragione, ma il genere umano non se l’è cavata né se la caverà a così buon mercato.
Il protestantesimo non è solo colpevole dei mali che ha causato con la sua instaurazione. Esso è anti-sovrano per natura, è ribelle per essenza, è nemico mortale di ogni ragione nazionale: ovunque esso le sostituisce la ragione individuale, che è come dire che distrugge tutto.
Si tratta di una cosa molto notevole che la ragione umana non abbia mai fatto uno sforzo maggiore né una caduta così rovinosa che nell’instaurazione del protestantesimo.
Concedo che si parli solo politicamente; non prenderò in considerazione il cristianesimo che come una istituzione politica: tale istituzione è stato il sistema nazionale di un numero molto grande di nazioni e non è mai esistita una istituzione contemporaneamente più antica, più grande e più augusta.
I riformatori videro difetti in questo antico edificio che loro stessi ritenevano divino. Essi si impegnarono a riformarlo, e questa riforma consisteva nello sradicare le basi e nel rimuoverle per sostituirne di nuove. Mai la ragione umana fece uno sforzo maggiore e mai fu più assurda di quando mise la discussione al posto dell’autorità e il giudizio particolare dell’individuo al posto dell’infallibilità dei capi. Nessun sistema scuote così il senso comune, nemmeno l’ateismo: perché è più assurdo ipotizzare un Dio assurdo che negarne l’esistenza. Ora, se la religione si basa su un libro, se noi dobbiamo essere giudicati su quel libro, e se tutti gli uomini sono giudici di questo libro, il Giove dei pagani fu una chimera mille volte meno mostruosa del Dio dei cristiani, il quale è una chimera mille volte più mostruosa del Giove dei pagani.
Era facile prevedere che l’abolizione del cattolicesimo portava dritto a quella del cristianesimo e che il sistema dei riformatori, in ultima analisi, si riduceva alla singolare pretesa di voler allo stesso tempo mantenere le leggi di un impero e rovesciare il potere che le fa rispettare.
I cattolici hanno continuato a prevederlo e le confessioni sfuggite ai protestanti in buona fede hanno continuato a giustificare questa profezia. Fra mille confessioni di questo genere, ne sceglierei una che mi sembra infinitamente notevole per il momento, il luogo e la qualità della persona: si tratta di quella di un professore di teologia dell’Università di Cambridge, che ha avuto la nobile franchezza, in un sermone predicato il 3 maggio 1795, in presenza dei membri di questa rispettabile istituzione, di sviluppare così le conseguenze della Riforma.
«Appena», ha detto, «il diritto all’esame privato fu assicurato, non appena iniziammo a utilizzarlo liberamente, subito una serie di scrittori, rivestiti dell’imponente titolo di liberi pensatori, ebbe l’ardire di costituirsi maestra del genere umano, e diffuse da ogni parte sue opinioni fantastiche e temerarie, soprattutto in materia di religione e di governo. […] Ho davvero paura che gli Stati riformati abbiano da rimproverarsi su questo punto più di quanto immaginino: quasi tutte le opere malvagie e la gran parte di quelle dove l’immoralità presta armi così potenti all’irreligione moderna sono state composte e stampate presso i protestanti» (15).
Questo è tutto ciò che ha potuto dire un saggio purtroppo arruolato sotto la bandiera di questa setta. Non poteva mostrare più chiaramente le conseguenze fatali di un sistema distruttivo di ogni costituzione civile e religiosa.
La legittima difesa della Francia cattolica
Quando riflettiamo su questo carattere indelebile del protestantesimo, siamo meno sorpresi dall’odio cui lo hanno condannato alcune potenze cattoliche; Luigi XIV [re di Francia (1638-1715)], per esempio, la cui intolleranza ha così tanto messo alla prova i nostri philosophe. Vi è in tutti i governi un potere nascosto, un istinto conservatore che agisce all’insaputa degli spettatori, all’insaputa anche dei sovrani e dei loro consigli, e che si serve spesso dei loro errori, dei loro stessi vizi, per conservare l’edificio. Sono state citate mille volte le persecuzioni del p. le Tellier [Michel, S.J. (1643-1719)] contro i giansenisti: può essere che quest’uomo fosse colpevole agli occhi di Dio, oppure no; non lo so meglio di quelli che l’accusano; ma sia che il suo odio fosse razionale o cieco è certo che esso fu francese e politicamente buono. Il giansenismo, per la sua estrema affinità con il calvinismo, era un nemico della Francia, e quello che abbiamo visto giustifica completamente il famoso gesuita, perché il giansenismo si è rivelato grandemente colpevole nella Rivoluzione francese [1789] e ha assistito non poco i suoi due fratelli, il filosofismo e il protestantesimo.
L’avversione di Luigi XIV al calvinismo era ancora un istinto regale: ha potuto sbagliare nei mezzi, forzare certe misure, e così via; ma il suo istinto aveva ragione e ha lavorato per la conservazione del regno. Nulla può riconciliare il protestantesimo con l’autorità, e le prove che ha dato, soprattutto in Francia, sono di natura indimenticabile. L’Editto di Nantes [1598] fu strappato con la forza, e forse anche i protestanti lo devono a qualche resto d’inclinazione nascosta nelle pieghe del cuore di questo buono e grande Enrico; ma questa concessione non fu mai in grado di renderli sudditi fedeli. Il protestantesimo non cessò mai per un attimo di congiurare contro la Francia: la divise in circoscrizioni in attesa di dividerla in dipartimenti; la tomba del Duca di Rohan [Henri (1579-1638)] a Ginevra non può nascondere la forca che si meritò in Francia. Non ci volle niente di meno del genio invincibile di Richelieu [Armand-Jean du Plessis duca di (1585-1642)] per andare sui bastioni in rovina de La Rochelle, «per portare il colpo finale all’ultima testa della ribellione» [(16)]. Ma Luigi XIII [re di Francia (1601-1643)] non ebbe il coraggio di essere più che un vincitore. Luigi XIV apparve; tutto piegò davanti a lui; poteva quello che voleva e il suo ascendente poté impunemente disprezzare le misure timide. Diceva un giorno a un nobile protestante: «Mio padre vi temeva, mio nonno vi amava; io non vi temo né vi amo» [(17)]: aveva ragione. Revocò l’editto di Nantes: era di nuovo nel giusto; non bisognava fare confische, usare un’inutile severità, e soprattutto non bisognava esercitare alcuna tirannia sulle coscienze: ecco il male, ecco l’uomo che si mostra dappertutto. Anche se, a onor del vero, si deve convenire che il re era ben lungi dal sapere tutto quello che è stato fatto di sbagliato, che l’esecuzione della legge, come accade quasi sempre nelle misure di grande portata, portò abusi che non dovrebbero essere sul conto del legislatore e che all’inizio a Parigi si ebbe un’idea molto falsa di quanto accadeva nel meridione del regno (18).
Ma queste grandi operazioni non vengono eseguite senza dolore, e gli inconvenienti generati dalla revoca dell’Editto di Nantes non impediscono di ritenere che tale revoca sia stata molto giusta e molto politica.
Quello che non osserviamo abbastanza è che questo colpo non fu portato dal dispotismo di un sovrano impetuoso. Fu il lavoro del suo Consiglio, fu la prosecuzione di un sistema progettato e maturato da queste potenti teste che resero il suo Gabinetto così terribile in Europa. Certamente, Luigi XIV, avvezzo a tutti i piaceri, a tutte le illusioni, a tutti i tipi immaginabili di dissipazione, aveva altre cose per la testa che un piano coerente di legislazione contro il protestantesimo. Portò in questo grosso problema, come ho detto, l’istinto regale; il suo Consiglio fece il resto. Gli ignoranti, che lo accusano di spensieratezza e che s’immaginano che la revoca dell’Editto di Nantes fu accordata a fronte delle richieste di un confessore fanatico, non sono a conoscenza delle cose e si ricordano poco che in un secolo superiore tutto è superiore. I ministri, i funzionari di Luigi XIV sono stati grandi nel loro ambito come i suoi generali, i suoi pittori o i suoi giardinieri lo erano nel loro. Conoscevano perfettamente la Francia, possedevano lo spirito infallibile delle grandi epoche e sapevano quello che facevano un poco meglio dei loro piccoli successori. Quello che il nostro misero secolo chiama superstizione, fanatismo, intolleranza, e via discorrendo, era un ingrediente necessario della grandeur francese. Questi ministri, questi funzionari stavano guardando il calvinismo francese come il più grande nemico dello Stato; cercarono costantemente di comprimerlo; e ogni anno di quel monarca, che diede il suo nome al secolo, fu caratterizzato da una legge che sopprimeva qualche privilegio dei protestanti, in modo che l’edificio che aveva così a lungo minacciato la sovranità, gradualmente minato con una costanza imperturbabile e privato di tutti i suoi puntelli, finalmente crollò senza alcun pericolo con la revoca dell’Editto di Nantes.
Supponiamo che questa legge sia costata 400.000 uomini alla Francia: è quasi come se si togliessero 1.000 abitanti a Parigi. Nessuno se ne accorgerebbe. Per quanto riguarda le manifatture portate dai rifugiati nei paesi stranieri e del danno che ciò ha provocato per la Francia, le persone per le quali queste obiezioni da mercanti significano qualcosa possono andare a cercare risposte altrove che nel mio libro.
Luigi XIV falciò alla base il protestantesimo e morì nel suo letto, lucente di gloria e avanti nell’età. Luigi XVI [re di Francia (1754-1793)] lo accarezzò ed è morto sul patibolo.
E sono soprattutto i figli di questa setta che ve l’hanno condotto.
I protestanti durante la Rivoluzione francese
Vogliamo convincerci che Luigi XIV sia stato guidato dai punti di vista della più sana politica? Vogliamo assolvere la sua condotta contro i protestanti francesi, almeno per gli indirizzi generali? Basta prendere in considerazione la condotta dei settari durante la Rivoluzione francese.
Luigi XVI aveva appena concesso ai protestanti un beneficio rimarchevole: aveva appena dato loro tutti i diritti di cittadinanza: male, a dire il vero (19), ma non importa. Il re cieco, ingannato dal suo buon cuore e dal suo desiderio di soddisfare un popolo ben più cieco di lui, ha fatto di più che perdonare la setta nemica: l’ha onorata; le ha permesso di colpirlo. Come lo ha ricambiato?
Rabaut de Saint-Étienne [Jean-Paul, detto (1743-1793)], ministro protestante, aveva celebrato gli atti di bontà di Luigi XVI in un discorso eloquente, ma più ipocrita che eloquente, che gli era valso il plauso universale[(20)]. Di fronte al pubblico, con l’accento patetico della verità e della riconoscenza, aveva invocato in nome dei suoi fratelli le benedizioni del Cielo sul monarca benefico; ripeteva questo discorso in una serie di conferenze particolari e, allo stesso tempo, il traditore, attraversando i villaggi della sua provincia con il pretesto di farvi sentire la voce della riconoscenza, predicava le massime dell’indipendenza e soffiava ovunque il fuoco dell’insurrezione (21).
Un istante dopo che la campana a martello della rivolta si fa sentire, Rabaut vola a Parigi con Barnave [Antoine (1761-1793)], insieme… insieme a tutti gli altri. Sappiamo quello che ha fatto lì. Figura nella prima assemblea fra i nemici più accaniti della monarchia, e nella terza la sua bocca, che aveva osato pregare per Luigi XVI, vota la morte del virtuoso monarca, con Marat [Jean-Paul (1743-1793)], Le Bon [Joseph (1765-1795)] e Robespierre [Maximilien-François-Isidore de (1758-1794)].
E mentre i corifei minavano il trono a Parigi, qual era nel sud della Francia il comportamento di tutta la setta? Invano la tolleranza aveva fatto i più grandi progressi in Francia a partire dall’inizio del secolo; invano lo spirito pubblico consolava i protestanti per ciò che la legislazione francese poteva ancora contenere di troppo duro contro di loro; invano i parlamenti, per una serie di sentenze interpretative, si sono ancora spesi senza sosta per far loro dimenticare gli antichi rigori; invano il migliore, il più umano di tutti i re aveva finalmente formalizzato in favore dei protestanti l’opinione pubblica. Niente aveva potuto spegnere in questi cuori intrattabili la sete di sangue cattolico e l’odio verso la monarchia. Tiriamo il sipario sulle scene orribili di Nîmes e di molti altri luoghi: sono conosciute ovunque. Prego solo che si faccia una osservazione: che, fra tutti i protestanti francesi, non si è trovato un solo scrittore che abbia scritto per il partito buono. Forse si dirà che erano pochi rispetto al resto della popolazione; ma io non chiedo che mi si citino centinaia di protestanti sostenitori della monarchia; chiedo che fra loro, e in particolare nella classe dei ministri, mi si indichi un solo uomo che abbia avuto il coraggio e la nobiltà di unirsi alla numerosa falange dei francesi di tutte le classi che hanno dedicato i loro talenti per contrastare i princìpi della Rivoluzione o per deplorare i suoi eccessi. Sappiamo come il clero di Francia si è dimostrato in questa occasione: ha fatto più che scrivere, è volato alla morte guadagnandosi l’immortalità; era il caso di essere spinti all’emulazione e alla generosità, tanto più che vi era un beneficio recente per il quale avere riconoscenza. Ancora una volta, so che si deve avere riguardo al numero; ma ne chiedo uno solo e non chiedo un eroe, un martire; che mi si mostri solo un uomo che abbia avuto il coraggio di alzare la voce per dire: «Vi state comportando male». Questo protestante francese, e in particolare questo ministro, dov’è?
I rifugiati francesi
Proprio così gli eventi del nostro secolo giustificano il precedente; e se si vuole un’ulteriore prova della saggezza dei motivi che determinarono la revoca dell’Editto di Nantes, la si troverà nel carattere stesso e nella condotta dei rifugiati francesi.
Questi uomini, cacciati dalla loro patria da una legge severa, dovrebbero essere impregnati di una gratitudine eterna verso le potenze ospitali che hanno dato loro asilo; e poiché la fedeltà genera fiducia, sembra che questi nuovi sudditi dovessero formare in poco tempo la classe più leale e più cara ai governanti.
Ma è successo l’esatto contrario. Nei paesi protestanti l’appellativo di «rifugiato» non è affatto un titolo di favore, e la loro condotta giustifica ancora questo sentimento confuso. Lungi dall’essere i migliori sudditi dei sovrani che dettero asilo ai loro padri, la loro lealtà ambigua logora o preoccupa il governo in molti territori protestanti. Nessuno ha bevuto più avidamente di quelli il veleno rivoluzionario. Infine, in questi Paesi come in tutti gli altri, ci sono degli uomini più importanti che vengono citati per il loro attaccamento alla sovranità e per la loro antica fedeltà; ora, non vedo che questi uomini cerchino tra i rifugiati dei modelli o degli amici.
La coscienza universale è infallibile, penetrante, inesorabile. Nonostante tutti i possibili pregiudizi, ha inciso su queste fronti un non so quale carattere che non si può forse decifrare del tutto chiaramente; ma sarebbe inutile cercare di dargli un nome; è sufficiente sapere che dispiace all’occhio.
Protestantesimo e giacobinismo
Nel mondo morale, come in quello fisico, ci sono affinità, attrazioni elettive. Alcuni princìpi si attirano e altri si respingono, e la conoscenza di queste qualità veramente occulte è la base della scienza. Chiedo pertanto agli osservatori di riflettere sull’affinità davvero sorprendente che viene a manifestarsi agli occhi dell’universo fra il protestantesimo e il giacobinismo.
Fin dal primo momento della Rivoluzione i nemici del trono hanno mostrato per il protestantesimo una tenerezza filiale. Tutti gli occhi hanno visto questa alleanza e nessuno si è sbagliato, nemmeno i protestanti stranieri.
Qualcuno ha mai sorpreso nelle tre assemblee che hanno perso e disonorato la Francia non voglio dire un atto, ma un segno di disprezzo contro i protestanti? Questi tiranni sospettosi, che temevano tutto e che punivano perfino l’intenzione presunta di resistere, hanno mai temuto la dottrina della Chiesa protestante? No, mai. Sfido chiunque a trovare la minima traccia di timore.
E che! Forse i ministri del Santo Vangelo non predicano lo stesso vangelo del clero cattolico? E non è scritto in questo libro, per loro e per noi: «Ogni potere viene da Dio, obbedite ai vostri superiori, anche ingiusti, in tutto ciò che non è ingiusto, e via discorrendo» [(22)]? Come dunque tali massime non hanno mai spaventato i tiranni della Francia? Ah! È per il fatto che sapevano abbastanza quello che nessuno ignora, ossia che non c’è più sovranità religiosa fra i protestanti, che il principio di governo lì viene distrutto e che un libro separato dall’autorità che lo spiega non è nulla.
Uomini di tutti i paesi e di tutte le religioni, osservatori di tutti i sistemi, sottolineate con cura ciò e non dimenticatelo: il Vangelo insegnato dalla chiesa protestante non ha mai fatto paura a Robespierre.
Quando i titani della Convenzione Nazionale immaginarono di distruggere il sacerdozio, di cancellare perfino le ultime tracce del cristianesimo, di consacrare il culto della Dea Ragione e di portare alla sbarra i ministri di questo culto per ottenere da loro un’apostasia infame, perché non si sono visti protestanti tra questi disgraziati? Perché questi tiranni odiosi non li temono. Proprio il vero culto, il culto eterno volevano; percepivano il carattere sacerdotale dove si trovava e non andavano a cercarlo dove non era; volevano follemente avvilire il cattolicesimo, che solo ha efficacemente contrastato la Rivoluzione e che solo la può far finire. Non concepirono mai il minimo sospetto sui dottori protestanti.
L’Inghilterra ha appena fatto l’esperienza di questa sorprendente affinità che vi è tra il protestantesimo e il giacobinismo. La chiesa anglicana è più cattolica di quanto non si renda essa stessa conto e possiamo credere che ciò che in essa vi è di cattolico abbia salvato lo Stato. Ma non è fra i protestanti propriamente detti, non è fra i puritani che il veleno della Rivoluzione francese ha compiuto le più grandi devastazioni? Fra gli innumerevoli pamphlet che il grande evento di cui siamo testimoni ha prodotto in Inghilterra, tutto ciò che è partito dalla mano dei dissidenti è più o meno intriso della Rivoluzione. Queste parole conservatrici: «Chiesa e Stato» li fanno entrare in convulsione, e il Test Act (23) è per loro un atto di tirannia la più intollerabile. Essi ammettono, predicano apertamente la dottrina della sovranità popolare e ne fanno derivare le conseguenze pratiche più temibili.
La loro eloquenza pericolosa si esercita senza sosta sui diritti del popolo; e l’ipotesi in cui i tre poteri si incontrano per distruggere le leggi fondamentali è il soggetto preferito delle loro terribili dissertazioni.
«Un tale atto — dicono — sarebbe una cospirazione contro il popolo e l’assassinio della Costituzione, e il popolo, nella sua saggezza, farebbe bene a trattare i suoi rappresentanti come matti e a cacciarli non solo dai due rami del Parlamento, ma dall’intero regno» (24).
Vediamo che ormai non si tratta più di sapere che cosa sia un attacco alle leggi fondamentali, e che, senza dubbio, è compito del popolo deciderlo «nella sua saggezza».
Sulla base di questi princìpi, la solenne festa che una grande nazione celebra ogni anno per espiare il delirio di pochi forsennati per i dissidenti non è che una farsa religiosa. «Noi possiamo», dicono, «scusare fino a un certo punto quanti processarono Carlo I, e che poi lo mandarono al patibolo» (25).
Invano la Chiesa e lo Stato uniscono ogni anno la loro voce per dire: «Excidat illa dies» [(26)]!. Il lutto della nazione fa sorridere i dissidenti, e quello che essa chiama martirio questi lo chiamano esecuzione (27).
Si è provata molta pietà per il destino di un dissidente, famoso nel campo delle scienze, e che il popolo inglese, senza rispetto per la fisica, ha trattato da nemico dello Stato. Onoro le sue grandi doti, ma la pietà è durata poco quando mi sono ricordato che il suo compatriota Gibbon [Edward (1737-1794)], che non era un devoto, esclama, a proposito delle opere di questo puritano esaltato: «Tremate, uomini di Chiesa! Tremate, governanti!» (28).
In effetti, essi devono tremare insieme e per la stessa ragione, perché la natura intima del protestantesimo lo rende nemico di ogni genere di sovranità, come la natura del cattolicesimo lo fa l’amico, il conservatore, il sostenitore più ardente di tutti governi.
Ecco perché i dissidenti inglesi hanno spesso accusato i famosi difensori della costituzione britannica di propendere verso il cattolicesimo, vale a dire verso il sistema di una lealtà a prova d’ingiustizia stessa, crimine che il protestantesimo non perdona.
Paine [Thomas (1737-1809)] non ha accusato il venerabile Burke di «facilitare agl’inglesi il ritorno al cattolicesimo, e di guidarli verso l’infallibilità religiosa attraverso l’infallibilità politica» (29)?
Indubbiamente, questo grande patriota, questo grande scrittore, questo famoso profeta che preannunciò la Rivoluzione francese, è colpevole perché non crede che il popolo abbia il diritto di votare per le strade il rovesciamento della costituzione; perché insegna che la volontà riunita e legalmente stabilita dei tre poteri è un oracolo, la voce del quale tutti devono rispettare; perché crede che gli inglesi sono vincolati dal giuramento dei loro padri che formarono, accettarono, consacrarono questa costituzione, privando così i loro successori del diritto di rifarla, insolentemente arrogandosi l’infallibilità! Burke è colpevole; «si avvicina a Roma»: l’accusa è grave.
Il libero esame è la base di partenza del protestantesimo
Poiché la grande base del protestantesimo è il diritto di esame, questo diritto non ha limiti: lo applica a tutto e non può tollerare freni. Inoltre, non ci sono fazioni, non vi è nemico della religione e delle leggi che non abbia propagandato il protestantesimo. Non vi è alcun fautore dell’esecrabile Rivoluzione di cui siamo i testimoni che non abbia propagandato quella del XVI secolo. Si può vedere nell’opera postuma di Condorcet [Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di (1743-1794)] a qual punto il più odioso forse dei rivoluzionari francesi e il più ardente nemico del cristianesimo sia stato un amico della Riforma. Le cause di questa tendenza sono visibili, ma non ci ha lasciato la fatica di indovinarle. Le nuove sette, ha detto, «[…] non potevano, senza contraddirsi in modo troppo grossolano, ridurre in limiti troppo angusti il diritto di critica, poiché avevano allora stabilito su questo stesso diritto la legittimità della loro separazione» (30).
Non si può rivelare più chiaramente il segreto della setta: il protestantesimo, chiamando la ragione nazionale a giudizio da parte della ragione individuale e l’autorità da parte dell’esame, sottomette tutte le verità al diritto di esame. Ma nessun uomo, e nemmeno un corpo sociale, possiede, secondo questa setta, la sovranità religiosa; ne consegue che l’uomo o l’organo che esamina e respinge un’opinione religiosa non può, «senza contraddirsi in modo troppo grossolano», condannare l’uomo o il corpo che ne esaminasse e respingesse altre. Quindi, tutti i dogmi saranno sottoposti a esame e, conseguenza infallibile, respinti prima o poi; non ci sarà più una fede comune, non ci sarà più un tribunale, non ci sarà più un dogma regnante. Proprio ciò vuole Condorcet, proprio ciò vogliono i suoi simili. Il protestantesimo dà loro ciò che vogliono: che gli si conceda il principio; essi si faranno carico delle conseguenze. Essi si faranno anche carico di ridicolizzare gli uomini codardi che non osassero tirarle.
Condorcet sviluppa non meno chiaramente la natura del protestantesimo in relazione alla sovranità civile. «[…] il dispotismo», ha detto esaltando i benefici della Riforma, «ha anche il suo istinto; ed aveva rivelato a questi re che gli uomini, dopo aver sottoposto i pregiudizi religiosi all’esame della ragione, vi avrebbero sottoposto anche i pregiudizi politici; che, illuminati dalle usurpazioni dei papi, avrebbero finito per volerlo essere sulle usurpazioni dei re; e che la riforma degli abusi ecclesiastici, così utile alla potenza dei re, avrebbe coinvolto quella degli abusi più oppressivi sui quali questa potenza era fondata» (31).
Tutti i partiti, come si vede, sono d’accordo sull’essenza del protestantesimo. Piaccia o non piaccia, lo si lodi o lo si accusi, tutti gli hanno detto le sue verità. Ma per farlo rientrare in sé, nulla è più utile che mostrargli i suoi amici.
Non ci si esprime esattamente quando si dice che il protestantesimo è generalmente favorevole alla forma di governo repubblicana, perché esso non è favorevole ad alcun governo: li attacca tutti; ma poiché la sovranità esiste pienamente solo nelle monarchie, odia particolarmente questa forma di governo e cerca le repubbliche dove ha meno da rodere. Ma qui come altrove indebolisce la sovranità e non può sopportare il giogo sociale. È repubblicano nelle monarchie e anarchico nelle repubbliche. In Inghilterra non cessa di gridare contro le prerogative regali; l’unione costituzionale dello scettro e della croce lo fa tuonare. Sa bene che può spezzarli solo separandoli e proprio a questo lavora senza sosta (32). Nelle repubbliche l’immagine stessa della sovranità gli dispiace, la perseguita come la realtà e, sempre cercando di dare l’autorità al maggior numero di persone, tende costantemente all’anarchia. L’epoca in cui viviamo ci ha presentato in questo ambito uno spettacolo interessante: abbiamo visto repubbliche federali, ma divise per quanto riguarda la religione, soggette al veleno della Rivoluzione francese, e l’occhio meno attento ha potuto seguirne gli effetti. Negli Stati protestanti i sovrani hanno tremato; forse anche l’essenza del governo è stata alterata irrimediabilmente; ma negli Stati cattolici, essendo la sovranità religiosa in lotta per il suo alleato, i popoli, incrollabili nella loro lealtà, non hanno fatto un passo verso i princìpi francesi.
L’esempio di Ginevra
Ma se vogliamo un esempio ancora più significativo, possiamo vedere i protestanti alle prese con il governo repubblicano nella sua troppo celebre capitale, dove gli osservatori possono contemplarlo e giudicarlo facilmente, poiché ha compiuto tutto quello che sa fare. Quale oscura inquietudine agita dunque tutti questi uomini? Quale forza magica attacca senza sosta il principio del governo e non dona ai capi dello Stato un istante di riposo? Il riposo! È per essi un tormento; essi non lo vogliono e non lo concedono a nessuno. Sembra di vedere un malato tormentato da un morbo doloroso che lo agita senza pace. La sola posizione che lo soddisfa è quella che non occupa. Guardate l’insurrezione che diviene fra queste mura una condizione abituale. Esaurite pure per quegli uomini tutte le forme di governo: lavorerete invano. Un’intelligenza brillante verrà a dettar loro leggi contro le quali protesteranno sempre: non è questa autorità che non piace loro; è l’autorità. Essi si lamentano sempre di quella che esiste, e ameranno solo quella che non hanno. I più terribili strumenti della Rivoluzione francese sono nati in questa città, e, fedele emula di Parigi, l’abbiamo vista attenta a tutti i movimenti intestini di questa spaventosa Babilonia nel ripetere con un’esattezza brutale tutti i crimini e tutte le stranezze. La fortuna stessa è venuta a offrirsi ai suoi abitanti. Una potenza saggia e pacifica si è offerta di tenerli sotto le sue ali; essi hanno rifiutato la sua protezione. Mai si è visto in modo più chiaro che a questa città manca solo una religione frenante capace di ammorbidire l’orgoglio acido e il carattere indomabile del suo popolo. Condotto con questo freno salutare, avrebbe piegato sotto le rimostranze dei buoni; avrebbe visto la propria città divenire il rifugio degli sfortunati, il deposito universale, la riserva di ricchezze e il centro delle negoziazioni; in mezzo a una regione bruciata dalla Rivoluzione francese, si sarebbe vista una nuova Tadmor, una città delle palme brillare come l’antica Palmira in mezzo ai deserti della Siria. Ma non ha voluto la fortuna che gli è stata presentata, ha respinto, insultato anche la mano di Minerva che voleva coprirla con la sua egida. Esso non crede che nel protestantesimo, non ama che quello perché non assomiglia che a quello. Ha anche protestato contro il buon senso, contro la riconoscenza, contro il proprio interesse: si è isolata per disonorarsi con maggior agio.
Poiché non è permesso di ragionare sulla base di eccezioni, non mi si deve obiettare il numero di uomini stimabili che questa città contiene. Nessuno li conosce, li stima, li ama più di me, e proprio a loro dedico queste pagine; i tempi dei pregiudizi e delle ingiurie è passato: proprio loro scelgo come giudici di loro stessi e dei loro concittadini. Domanderei loro con fiducia: qual è la causa del pregiudizio che regna in modo così universale contro la loro patria? Perché, mentre l’abietta democrazia insulta in Parigi l’insaziabile avidità degli infaticabili concittadini di Clavière [Étienne (1735-1793)] (33), il monarchico esiliato chiamò questa città una «pustola politica» (34)? Questo coro unanime di disapprovazione, questa diffidenza generale significa senza dubbio qualcosa. Perché l’atmosfera di Ginevra è così pericolosa per i popoli semplici e religiosi che la circondano? Perché, presso questi popoli, i pastori e i governanti percepiscono un indebolimento nei costumi e un’alterazione del carattere nazionale nella misura in cui questa città estende la sua influenza? Perché prendono senza sosta vane misure per distruggere questa influenza? È dunque un corpo sano quello il cui contatto tutti gli altri temono?
Si devono sottomettere altre osservazioni a questi medesimi giudici. Presso le classi elevate della società la mancanza di carattere nazionale è nascosta dall’educazione, ma esso non esiste. Non si deve credere che le massime anarchiche abbiano corrotto solo la plebe; esse salgono più in alto di quanto si pensi, e proprio a essi ancora mi rivolgo come giudici. Potrei fornire loro mille prove dei danni di questo spirito disorganizzatore che agita senza sosta la capitale del protestantesimo e che circola in tutte le classi sociali. Mi accontenterei di una sola prova la cui singolarità colpisce.
In questo medesimo anno (1796) una società di letterati, i cui capi sono conosciuti, ha pubblicato in questa città il prospetto di un’opera periodica intitolata Bibliothéque Britannique. Ecco un passaggio che non deve essere dimenticato:
«Cosa vi è di più degno […] di questi giorni di ragione, di umanità, di dolce filantropia, nei quali l’aurora brilla sulla Francia, che un coro unanime di vedute e di lavori fra i filosofi di due nazioni rivali! È riservato forse al periodo repubblicano il mostrare all’Europa ciò che possono, per l’avanzamento delle Arti e delle Scienze utili, gli sforzi congiunti di uomini eminenti presso due grandi popoli, se sapranno sostituire i pregiudizi dell’odio con l’emulazione del successo» (35).
Così, dunque, dopo sei anni di delirio e di crimini, quando una sventurata nazione, mandata in perdizione dai capi più criminali che vi siano, arriva a donare al mondo lo spettacolo più pauroso di cui l’occhio umano sia mai stato testimone, quando i francesi onesti domandano, con la fronte a terra, grazia a Dio e agli uomini; che, nel momento stesso in cui gli usurpatori del potere hanno appena fatto al popolo francese l’ultimo oltraggio riunendolo per forzarlo ad accettare delle leggi che aborrisce, e lo chiamano sovrano impedendogli di deliberare; che si senta in mezzo a una città colpevole, emula troppo fedele di tutte le atrocità, sopra una terra ancora fumante di sangue innocente dei Fatio [Pierre (1662-1707) e dei Naville [François André (1752-1794)], i concittadini di questi uomini virtuosi, di queste interessanti vittime con una condizione e un nome nella loro patria, chiamare sulla Francia il periodo repubblicano con un forse ottativo, e chiamare gli avvenimenti di cui siamo stati testimoni l’aurora del giorno della ragione, dell’umanità e della dolce filantropia, è cosa che oltrepassa l’immaginazione. Non credo di aver letto nulla di così straordinario. Dichiaro di non aver letto nulla di così straordinario in sei anni.
Proprio dunque agli uomini saggi, anche illustri che questa città troppo celebre raccoglie, mi rivolgo di nuovo e dico loro: «Da dove viene il pregiudizio universale contro la massa dei vostri concittadini? Mai ci fu anatema più palpabile: il nemico dell’Europa distende le sue membra in altri paesi, ma la sua testa è presso di voi: la cenere di Calvino putrefà la vostra terra, e il suo spirito, sempre vivo presso di voi, vi complica il rapporto con il genere umano».
La religione è il principio di ogni istituzione
È un fatto della più grande evidenza che il protestantesimo sia essenzialmente nemico della sovranità civile e religiosa; ma bisogna considerare questa tesi da un punto di vista particolare per metterla nella sua vera luce.
Credo di aver abbastanza solidamente stabilito che nessuna istituzione è solida e durevole se si basa solo sulla forza umana; la storia e la ragione si uniscono per dimostrare che le radici di ogni grande istituzione sono poste fuori da questo mondo. Non ho altro da dire su questo punto. Le sovranità soprattutto hanno forza, unità e stabilità solamente nella misura in cui esse sono divinizzate dalla religione. Ma poiché il cristianesimo, cioè il cattolicesimo, è il cemento di ogni sovranità europea, il protestantesimo, privandole del cattolicesimo senza dare loro un’altra fede, ha minato alla base tutte quelle che hanno avuto la disgrazia di abbracciare la Riforma, di modo che, prima o poi, le deve lasciare senza appoggio.
L’islam, lo stesso paganesimo avrebbero fatto politicamente meno danni se avessero sostituito il cristianesimo con il loro tipo di dogmi e di fede; perché essi sono religioni, mentre il protestantesimo non lo è.
Vi sono parole che spesso ripetiamo e, a forza di ripeterle, ci si abitua a credere che significhino qualcosa di reale, eppure non è così. Di questo numero è quella di protestante.
Chi è un protestante? Sembra in un primo momento che sia facile rispondere ma, se riflettiamo, esitiamo. È un anglicano, un luterano, un calvinista, uno zwingliano, un anabattista, un quacchero, un metodista, un moravo, o… (sono stanco)? È tutto questo e non è niente. Il protestante è un uomo che non è cattolico, così che il protestantesimo è solo una negazione. Ciò che ha di reale è cattolico. Per parlare esattamente, esso non insegna falsi dogmi bensì ne nega di veri e tende costantemente a negarli tutti, di modo che questa setta è tutta una privazione.
Appare evidente sia per i ragionamenti metafisici sia per l’esperienza che la natura e la marcia del protestantesimo lo abbiano portato inevitabilmente a negare tutti i dogmi cristiani uno dopo l’altro.
Senza un giudice non si possono rispettare le leggi
Senza dubbio si riderebbe di un uomo che sostenesse il paradosso secondo cui, una volta che una nazione possegga un codice di leggi civili, essa non ha bisogno di governanti; che per decidere tutte le possibili controversie è sufficiente saper leggere, e che il libro è per tutti. Tuttavia possiamo dire al protestante:
«Quid rides? Mutato nomine de te
«Fabula narratur» [(36)]…
Proprio per un ragionamento analogo esso ha distrutto la sovranità religiosa. Ascoltiamo il Credo inglese, senza dubbio il meno irragionevole fra tutti quelli prodotti dalla Riforma.
«Siccome la Chiesa di Gerusalemme, di Alessandria, e di Antiochia, hanno errato; così ancora la Chiesa di Roma ha errato, non solamente ne’ costumi, e nella forma dei Riti, ma anche nelle materie di Fede» (37).
Va bene. E le altre Chiese prese separatamente non sono senza dubbio più infallibili; ma se scoppia una rivolta religiosa, dove sono i giudici, dove è il sovrano? Senza dubbio nella riunione di tutte queste Chiese? Niente affatto: il Credo inglese rifiuta questa autorità.
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Ma qual è dunque questa Chiesa universale, al quale il suo fondatore ha fatto tali magnifiche promesse? «[…] è la congregazione de’ fedeli, nella quale è predicata la pura Parola di Dio, ed i Sacramenti sono debitamente amministrati secondo l’istituzione di Cristo» (38).
Ma se litighiamo per sapere se la Parola è pura, e se i sacramenti sono amministrati «debitamente», a chi potremo rivolgerci? Al libro.
Ma Jean-Jacques [Rousseau (1712-1778)] ha detto che «Dio stesso non potrebbe fare un libro su cui gli uomini non possano discutere» [(39)]. Quindi, se ancora si disputa sul libro che deve servire da regola, cosa fare e come risolversi?
Certi indiani dicono che la terra poggia su un grande elefante; e se si domanda loro su dove poggi l’elefante, rispondono: «su una grande tartaruga». Fin qui tutto bene e la terra non corre il minimo rischio; ma se li s’incalza e si domanda ancora loro quale sia il sostegno della grande tartaruga, tacciono e la lasciano per aria.
La teologia protestante assomiglia esattamente a questa fisica indiana: essa appoggia la salvezza sulla fede e la fede sul libro; quanto al libro, esso è la grande tartaruga.
Così, il protestantesimo è, positivamente e letteralmente, il sanculottismo della religione. Uno invoca la Parola di Dio; l’altro i diritti dell’uomo; ma in realtà è la stessa teoria, lo stesso percorso e lo stesso risultato. Questi due fratelli hanno frantumato la sovranità per distribuirla alla moltitudine.
Note:
(1) [Manca la nota, pur segnalata nel manoscritto. Correspondance entre quelques hommes honnêtes; ou, Lettres philosophiques, politiques et critiques sur les evénemens et les ouvrages du tems, t. II, François Lacombe, Lausanne 1794, p. 234.]
(2) [«L’Abbé de Polignac prese questa occasione per domandargli cosa pensasse su alcune materie e a quali sette che dominavano in Olanda si fosse particolarmente legato. Bayle eluse la questione citando alcuni versi di Lucrezio [Tito Caro (99/96-55 a.C.)] che parevano avere un rapporto solo remoto con la domanda. Di nuovo incalzato, si limitò a rispondere che era un buon protestante, cosa che non significava nulla di più. Pressato di nuovo e con maggiore forza, ripeté con molta impazienza: Sì, signore, sono un protestante buono e in tutta la forza del termine, perché nel fondo della mia anima io protesto contro tutto quanto si dice ed esiste» (Claude Gros de Boze [1680-1753], Éloge de M. le cardinal de Polignac, in Melchior de Polignac, L’anti-Lucrece, poëme sur la religion naturelle, 2 voll., vol. I, Guerin, Parigi 1749, pp. 1-19 [p. 13]).]
(3) [«Siamo di ieri, ma abbiamo già riempito il mondo e tutti i vostri territori, le città, le isole, le fortezze, i municipi, le borgate, gli stessi accampamenti, le tribù, le decurie, la reggia, il Senato, il Foro. Abbiamo lasciato a voi solo i templi!» (Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, Apologia del Cristianesimo, 37, 4, in Idem, Apologia del Cristianesimo. La carne di Cristo, Milano 1996, pp. 69-313 [p. 249]).]
(4) [François-Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778), Henriade, c. II, v. 5, in Idem, Oeuvres, avec préfaces, avertissements, notes, etc. par Adrien-Jean-Quentin Beuchot (1777-1851), t. X, La Henriade, Lefèvre-Firmin Didot Frères, Parigi 1834, p. 75.]
(5) [Gli chouan erano i protagonisti dell’insorgenza della Bretagna (1791-1800) contro la Rivoluzione Francese, la cosiddetta chouannerie.]
(6) [Cfr. Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia e sulle relative deliberazioni di alcune società di Londra in una lettera indirizzata a un gentiluomo di Parigi dall’Onorevole Edmund Burke. 1790, a cura e con Prefazione di Marco Respinti, trad. it., Ideazione, Roma 1998, pp. 50-55.]
(7) [Enrico IV, nato a Pau, nella provincia di Béarn.]
(8) Esprit des lois, l. XXV, ch. x. [Charles de Secondat barone di Montesquieu, Lo spirito delle leggi, trad. it., a cura di Sergio Cotta (1920-2007), 2a ed. aggiornata, 2 voll., UTET, Torino 1973, vol. II, p. 133. Le sottolineature sono di Maistre.]
(9) [Cfr. Tito Lucrezio Caro, La natura delle cose. De rerum natura, I, v. 64, a cura di Guido Milanese, introduzione di Emanuele Narducci (1950-2007), Mondadori, Milano 1992, p. 7: «[…] il capo dalle regioni del cielo mostrava».]
(10) [Voltaire, Henriade, cit., c. II, v. 7, p. 75.]
(11) [In realtà fiammingo.]
(12) [Se la ricostruzione del riferimento nella nota seguente è corretta, si tratta del 1565.]
(13) [Manca la nota, pur segnalata nel manoscritto. Cfr., probabilmente, Matthaeus von Wesenbeck, Commentarii in Pandectas juris civilis et Codicem justinianeum olim dicti Paratitla, Zetter, Amstelodamii 1665, pagine iniziali dedicatorie, non numerate.]
(14) [«Item, la posterità non dirà forse che la nostra riforma di oggi è stata scrupolosa e meticolosa, perché non soltanto ha combattuto gli errori e i vizi, e riempito il mondo di devozione, di umiltà, di obbedienza, di pace e di ogni specie di virtù, ma è arrivata fino a combattere i nostri antichi nomi di battesimo, Carlo, Luigi, Francesco, per riempire il mondo di Matusalemme, Ezechiele, Malachia, molto più ispirati alla fede?» (Michel de Montaigne, Saggi, I, XLVI, trad. it. note di André Tournon, testo francese a fronte a cura di A. Tournon, Bompiani, Milano 2012, p. 495.]
(15) A sermon preached before the university of Cambridge on the third of May 1795 by John Mainwaring. B. D. Professor in Divinity [John Mainwaring (1724-1807), A sermon preached before the university of Cambridge, on the third of May, 1795, Cambridge (Regno Unito) 1795, pp. 7-8. La sottolineatura è di Maistre.]
(16) [François de Malherbe (1555-1628), Ode pour le Roi, allant châtier la rébellion des Rochelois, et chasser les Anglois, qui en leur faveur étoient descendus en l’ìle de Ré, del 1627, vv. 3-4, in Idem, Oeuvres complètes, recueillies et annotées par Ludovic Lalanne (1815-1898), n. ed., 5 voll.+1 album, Hachette et C.ie, Parigi 1862, vol. I, p. 277, vv. 3-4.]
(17) [Cfr., per esempio: «Mio nonno prediligeva gli ugonotti e non li temeva; mio padre non li amava e li temeva, io non li amo né li temo» (Voltaire, Il secolo di Luigi XIV, c. 28, con un saggio di Giovanni Macchia (1912-2001), introduzione di Ernesto Sestan (1898-1986), Einaudi, Torino 1951, p. 331, c. 28.]
(18) Troviamo nelle lettere di Madame de Sévigné [Marie de Rabutin-Chantal, marchesa di (1626-1696)], che le famose Dragonnades furono considerate inizialmente come una parata che produsse un effetto che non ci si aspettava. Ella ne parlava come di una specie di miracolo dell’onnipotenza del re. Ha scritto di nuovo il 28 ottobre 1685, a suo cugino Bussy-Rabutin [Roger de Rabutin conte di Bussy (1618-1693)], che una folla incalcolabile di persone fra la Linguadoca e la Provenza «[…] si era convertita senza sapere perché e che Bourdaloue [Louis, S.J. (1632-1704)] stava per dirlo loro» [cfr. Lettres de Madame de Sévigné, de sa famille, et de ses amis, 12 voll., Dalibon, Parigi 1823, vol. VIII, Lettera CMLIV, del 28 ottobre 1685, pp. 133-138 (p. 136)]. Poi aggiunse: «Avete letto, senza dubbio, l’editto con cui il re revoca quello di Nantes: nulla ha un contenuto così bello, e nessun re ha mai fatto né farà nulla di più memorabile» (vol. VIII, Lettera LXXV [ibidem]). Questo è il parere del tempo su questo famoso editto. Inoltre, se i protestanti del Midi si fossero convertiti o avessero finto di esserlo per non essere esiliati, e se Madame de Sévigné l’avesse saputo, di certo non si sarebbe concessa la beffa del «senza sapere perché» [ibidem].
(19) «Ho appena visto in Slesia un signore de Laval Montmorency [probabilmente Guy-André-Pierre de Montmorency-Laval (1723-1798)] e un Clermont-Gallerande [probabilmente Charles-Georges de Clermont-Gallerande (1744-1823)] che mi hanno detto che la Francia cominciava a conoscere la tolleranza e che si pensava di ripristinare l’Editto di Nantes da così tanto tempo abrogato. Ho detto loro molto chiaramente che si trattava di senape dopo cena» (Lettera di Federico II [il Grande (1712-1786)] a Voltaire, dell’8 settembre 1775. Opere di quest’ultimo, in-12, vol. 87 [in Oeuvres Complétes de Voltaire, vol. 87 , Imprimerie de la Société Littéraire-Typographique, s.i.l. 1785, Lettera CCLXXXI del re, pp. 195-200 [p. 197)]).
(20) [Cfr. il verbale del suo intervento in Choix de rapports, opinions et discours prononcés à la Tribune Nationale depuis 1789 jusqu’à ce jour, recueillis dans un ordre chronologique et historique, tome X, années 1792 et 1793, premier de la Convention — Procès de Louis XVI, Alexis Eymery, Parigi 1820, pp. 398-399.]
(21) Questo è il Rabaut che Burke aveva condannato ai bagni freddi per aver detto che tutto doveva cambiare in Francia [cfr. E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia e sulle relative deliberazioni di alcune società di Londra in una lettera indirizzata a un gentiluomo di Parigi dall’Onorevole Edmund Burke. 1790, a cura e con Prefazione di Marco Respinti, trad. it., Ideazione, Roma 1998, p. 187], fino alle parole [cfr. Jean-Paul Rabaut Saint-Étienne, Réflexions sur la division nouvelle du Royaume, s.i.e., Parigi 1790, pp. 5-6]. Il rimedio sarebbe sufficiente per un folle, ma troppo poco per uno scellerato. La Provvidenza ha fatto giustizia.
(22) [Cfr., per esempio, Rm 13, 1; Tt 2, 9; 1Pt 2, 18.]
(23) [I Test Act erano leggi penali inglesi, del 1672 e del 1678, che limitavano i diritti civili dei cattolici, affermando che solo chi professava la religione di Stato (anglicanesimo) era eleggibile alle cariche pubbliche.]
(24) V. A letter to a nobleman, containing considerations on the laws relative to Dissenters, and on the intended application to Parliament for the repeal of the Corporation and Test acts. By a Layman. London. Cadell. 1790 in-8° [cfr. Un laico (George Colebrooke of Gatton, 1729-1809), A Letter to a Nobleman, containing Considerations on the Laws relative to Dissenters, and on the intended Application to Parliament for the Repeal of the Corporation and Test Acts, Cadell, London 1790, p. 169]).
(25) «Some apology may even be made for the conduct of those who brought Charles the First to a public trial, and afterwards to the Block» [ibid., p. 170]. Questa opera merita attenzione perché l’autore presenta i suoi princìpi come quelli del suo intero partito e perché egli stesso si segnala all’interno di questo partito.
(26) [«Svanisca nel tempo il ricordo di quel giorno». Publio Papinio Stazio (45 ca.-96 ca,), Le selve, V, II, 88, in Idem, Opere, trad. it., a cura di Antonio Traglia (1905-1991) e Giuseppe Aricò, UTET, Torino 1980, pp. 711-1001 (pp. 964-965).]
(27) Vedi, tra gli altri, tutti i giornali inglesi del 22 gennaio 1796.
(28) [Manca la nota, pur segnalata nel manoscritto. Si tratta del filosofo e chimico inglese Joseph Priestley (1733-1804), di cui scrive Gibbon: «Nella sua Storia delle corruzioni del cristianesimo, il Dr. Priestley ha gettato due guanti di sfida al vescovo Hurd [Richard (1720-1808)] e al sig. Gibbon. Ho rifiutato la sfida in una lettera, esortando il mio avversario a illuminare il mondo dalle sue scoperte filosofiche […]. Invece di ascoltare questo consiglio amichevole, il coraggioso filosofo di Birmingham continuò a far fuoco a distanza con la sua doppia batteria contro coloro che hanno creduto troppo poco e contro quelli che hanno creduto troppo. Dalle mie risposte non ha nulla da sperare o temere: ma il suo scudo antitrinitario è stato ripetutamente trafitto dalla lancia possente di Horsley [Samuel, vescovo (1733-1806)], e la tromba di sedizione può sulla distanza risvegliare i magistrati di un paese libero» (Edward Gibbon, Memoirs of my life and writings, in Idem, The miscellaneous works, n. ed., vol. 1, Memoirs and letters, Murray, London 1814, pp. 1-275 (p. 232).]
(29) «[…] He [M. Burke] has shortened his journey to Rome, by appealing to the power of this infallible parliament of former days». (Payne’s rights of men. London, 1791, in-8°, p. 14 [Thomas Paine, Rights of Man: being an Answer to Mr. Burke’s Attack on the French Revolution, seventh edition, Jordan, Londra, 1791, p. 14. «Burke […] ha abbreviato la strada per Roma facendo appello al potere di quell’infallibile parlamento del passato». Idem, I diritti dell’uomo I, in Idem, I diritti dell’uomo e altri scritti politici, trad. it., a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 109-219 (p. 123)]).
(30) Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, p. 206 [Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet, Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, trad. it., a cura di Guido Calvi, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 137. La sottolineatura è di Maistre].
(31) Esquisse etc., p. 201 [ibid., pp. 134-135].
(32) [manca la nota, pur segnalata nel manoscritto.]
(33) Réal [Pierre-François (1757-1834)] in Courrier françois del 9 novembre 1795, n. 446, p. 139 [non è stato purtroppo possibile verificare la fonte. La stessa nota di Réal è riportata comunque dall’omonimo Courier français — edito a Caen e non a Parigi come quello citato da Maistre —: «Clavière, che conosceva con ancora maggior perfezione l’insaziabile avidità dei suoi infaticabili concittadini». Tableau de Paris, par Réal, in Courier français, n. 249, Caen 21 brumaio IV (12-11-1795), pp. 4-5 (p. 5)].
(34) M. F… [Anonimo ma Antoine-François-Claude Ferrand (1751-1825), Considérations sur la Révolution sociale, s.i.e., Londra 1794, p. 228.]
(35) [Manca la nota, pur segnalata nel manoscritto. Prospectus, in Bibliothéque Britannique: ou Recueil. Extrait des ouvrages Anglais périodiques & autres, des Mémoires & Transactions des Sociétés & Académies de la Grande-Bretagne, d’Asie, d’Afrique & d’Amérique, en Deux Séries, intitulées: Littérature et Sciences et Arts, rédigé à Genève, par une Société de Gens de Lettres, t. I, Sciences et Arts, Bibliothéque Britannique, Ginevra 1796, pp. 3-15 (p. 6). Le sottolineature sono di Maistre.]
(36) [«Perché ridi? / Solo il nome è diverso, ma la favola / parla di te». Quinto Orazio Flacco (65 a.C.-8 a.C.), Satire, I, 1, 69-70, in Idem, Tutte le opere, versione, introduzione e note di Enzio Cetrangolo (1919-1986), con un saggio di Antonio La Penna, Sansoni, Milano 1993, pp. 247-407 (pp. 252-253).]
(37) Estratto dei 39 articoli, n. 19 [Articoli stabiliti dagli arcivescovi, e vescovi di amendue le provincie, e da tutto il clero, XIX, in Libro delle preghiere comuni, e dell’amministrazione dei sacramenti, e di altri riti e cerimonie della Chiesa, secondo l’uso della Chiesa Unita d’Inghilterra e d’Irlanda, insieme col salterio, ossia i Salmi di David, puntati come debbono cantarsi o recitarsi in chiesa colla forma e il modo di fare, ordinare e consacrare vescovi, preti e diaconi, Watts, Londra 1862, n. 19, pp. 575-583 (p. 579)]. Fra l’altro, non è mai stato dimostrato e nessuno dimostrerà mai in modo indiscutibile che la Chiesa Romana si sia sbagliata nel senso negato dagli ultramontani. Si deve ascoltare tutto il mondo.
(38) [Manca la nota, pur segnalata nel manoscritto. Ibidem.]
(39) [«Chi ama la pace non deve ricorrere a dei libri; esso è proprio il mezzo per non finire mai nulla. I libri sono fonti di dispute inesauribili; scorrete la storia dei popoli: quelli che non hanno libri non discutono. Volete asservire gli uomini ad autorità umane? Uno sarà più vicino, l’altro più lontano dalla prova; essi saranno diversamente toccati: con la più integra buona fede, con il miglior giudizio del mondo, è tuttavia impossibile che siano mai d’accordo. Non argomentate su argomenti e non fondatevi su discorsi. Il linguaggio umano non è sufficientemente chiaro. Dio stesso, se si degnasse di parlare nelle nostre lingue, non ci direbbe nulla su cui non si possa disputare» (Jean-Jacques Rousseau, Lettre a Christophe de Beaumont, Marc Michel Rey, Amsterdam 1763, p. 75.]