di Marco Tangheroni
Il Regno di Sardegna (1297-1847)
1. La nascita del regno
La data formale di nascita del regno di Sardegna può essere fissata al 4 aprile 1297, giorno in cui il re d’Aragona Giacomo II (1264 ca.-1327) riceve una coppa d’oro da Papa Bonifacio VIII (1294-1304), nella basilica di San Pietro, a Roma, ed è creato Dei gratia rex Sardiniae et Corsicae, «per grazia di Dio re di Sardegna e di Corsica». L’atto d’infeudazione, firmato il giorno seguente, impone al re e ai suoi discendenti il vassallaggio verso la Santa Sede, il pagamento di un censo di duemila marchi d’argento e la prestazione di un aiuto militare, stabilendo inoltre l’indivisibilità del regno e la proibizione di separarlo dalla Corona di Aragona. In realtà, il regno ha vita effettiva soltanto dopo le due guerre fra Aragona e Pisa, che si svolgono fra il 1323 e il 1326.
A esse, peraltro, segue oltre un secolo di guerre pressoché ininterrotte e particolarmente crudeli — contro ogni norma e tradizione cattolica, i prigionieri sardi vengono venduti come schiavi sui mercati di Barcellona e di Maiorca —, al termine delle quali la Sardegna si presenta spopolata in modo drammatico — non più di 240mila abitanti in occasione del primo censimento ufficiale del 1485, con la scomparsa di oltre il 50% dei centri abitati —; economicamente depressa anche per il crescente isolamento dai traffici marittimi; nonché suddivisa, del resto secondo il piano originario dei conquistatori, in un gran numero di feudi e in poche città soggette direttamente al re.
Negli ultimi decenni del secolo XV e nel corso del 1500 il regno, ormai pacificato, conosce una moderata ripresa economica e demografica, supera il contrasto fra iberici e sardi, e assume un assetto istituzionale definitivo. Nel 1469 il matrimonio fra gli eredi delle corone di Castiglia e di Aragona, rispettivamente la regina Isabella (1451-1504) e il re Ferdinando II (1452-1516), pone le premesse dell’unità della monarchia spagnola. Con il nipote Carlo V (1500-1558) — re di Spagna e quindi anche di Sardegna dal 1516, imperatore del Sacro Romano Impero dal 1519 — e poi con i discendenti in linea diretta, Filippo II (1527-1598), Filippo III (1578-1621) e Filippo IV (1605-1665), la Sardegna si trova coinvolta nelle guerre in difesa della Cristianità, sia contro i protestanti, sia contro i turchi ottomani. Proprio da Cagliari parte la spedizione di Carlo V contro la grande base turco-barbaresca di Tunisi, nel 1535, e ad Alghero (Sassari) sosta l’armata che nel 1541 tenterà vanamente, sempre sotto la guida dell’imperatore, di attaccare Algeri. Poi, per difendere la Sardegna dalle continue incursioni barbaresche, è costruita una fitta rete di torri costiere.
2. L’organizzazione del regno
Dal 1418 il governo del regno di Sardegna viene affidato a un viceré, affiancato da una cancelleria ben articolata, i cui documenti sono redatti in latino o in catalano, quindi, dal 1558, in castigliano. Non si tratta di un governo assoluto, perché si è ormai affermato, a imitazione degli Stati della Penisola Iberica, l’istituto parlamentare, composto da tre «stamenti», o bracci, quello militare, formato dai feudatari, quello ecclesiastico e quello reale, costituito dai rappresentanti, o sindaci, delle città principali, direttamente sottoposte all’autorità regia: Cagliari, Iglesias, Sassari, Alghero, Castelsardo, Oristano e, dal 1556, Bosa. Convocato regolarmente — fra il 1481 e il 1698 sono riuniti ventitré parlamenti —, ha un ruolo propositivo, peraltro dotato di particolare forza contrattuale perché a esso spetta stabilire l’importo, oltre che la ripartizione, del «donativo», cioè del contributo economico versato periodicamente al re.
A parte le città «regie», nelle quali hanno un peso crescente le associazioni artigiane, dette «gremi», il regno è diviso in feudi, trentasette alla fine del secolo XV. I feudatari devono al sovrano, secondo lo schema classico del feudalesimo, l’auxilium, un servizio militare proporzionato alle rendite del feudo, e il consilium, soprattutto attraverso la partecipazione al parlamento. Le rendite sono costituite dai tributi dei vassalli — fondamentalmente un «focatico» pagato dalle comunità di villaggio in ragione del numero dei «fuochi», cioè dei nuclei familiari, un «terratico» pagato dai contadini in proporzione alla semina, un «deghino», sorta di decima pagata dai pastori — e dalla riscossione delle pene pecuniarie derivanti dall’amministrazione della giustizia. Questa è regolata, nei feudi, dalla Carta de logu de Arborea, risalente al secolo XIV, la cui validità era stata estesa a tutto il regno dal parlamento del 1421, mentre le città avevano propri «brevi» o statuti, garanti di una larga autonomia amministrativa. Giudice supremo d’appello è il viceré, affiancato, a partire dal 1568, dalla Reale Udienza, insieme corte di alta giustizia e — in assenza del viceré — massima istituzione politica. L’amministrazione finanziaria fa capo alla Procurazione Regia, alla cui testa era un Procuratore Reale. La vita politica interna del regno è spesso animata da contrasti: fra l’apparato vicereale di governo e i feudatari; fra le città, spesso in concorrenza anche fra loro, e i feudatari; e fra braccio militare e braccio ecclesiastico. Ma i problemi economici e demografici sono piuttosto legati all’arretratezza della vita agricola e pastorale, nonché all’isolamento nel Mediterraneo.
Quanto alla vita religiosa dell’isola, mentre le adesioni al protestantesimo sono limitatissime, si ha una forte ripresa sulla spinta della cosiddetta Contro-Riforma, o Riforma Cattolica, della cui attuazione si preoccupano vari sinodi provinciali, con l’istituzione dei seminari per la formazione del clero secolare. Inoltre si constata una crescente presenza di congregazioni religiose — dei gesuiti, dei cappuccini, dei barnabiti e degli scolopi —, ma soprattutto si assiste a una grande fioritura della religiosità popolare, la quale, come scrive lo specialista Raimondo Turtas, «[…] raggiunse un’intensità fino ad allora sconosciuta, non solo per quanto riguarda la partecipazione agli atti di culto obbligatori, ma anche attraverso manifestazioni collaterali di carattere più popolare — cerimonie della Settimana Santa, teatro religioso, solenni funzioni di pacificazione fra famiglie rivali, processioni, feste popolari sia nei centri abitati che nelle numerose chiese campestri, canti religiosi in lingua sarda —, nei quali venivano assorbiti e riadattati anche numerosi apporti della religiosità spagnola». In quel periodo vengono pure fondate le università di Cagliari, nel 1626, e di Sassari, nel 1634.
3. La fine della dominazione spagnola
Nella prima metà del Seicento, oltre a nuove e frequenti razzie barbaresche, la Sardegna viene pure attaccata da una grande flotta francese, che, nel quadro della Guerra dei Trent’Anni (1618-1648), riesce a occupare, nel 1637, la città di Oristano, peraltro abbandonata dopo una settimana. Nella seconda metà del secolo il regno risente della decadenza della monarchia spagnola sotto re Carlo II d’Asburgo (1661-1700), alla cui morte senza eredi si apre una guerra di successione fra Filippo di Borbone (1683-1746), nipote di Luigi XIV (1638-1715), re di Francia, e Carlo d’Asburgo (1685-1740), arciduca d’Austria, sostenuto dalle maggiori potenze europee; anche in Sardegna si formano due contrapposte fazioni nobiliari. Dopo varie vicende militari, che coinvolgono anche l’isola, con la pace firmata a Utrecht, nei Paesi Bassi, nel 1714 Filippo di Borbone è riconosciuto re di Spagna e delle Indie americane, Gibilterra e l’isola di Minorca passano all’Inghilterra e il Regno di Sicilia ai duchi di Savoia, mentre la Sardegna rimane sotto la sovranità di Carlo d’Austria.
La Spagna però non si rassegna alla perdita del regno insulare e, sotto la guida del ministro cardinale Giulio Alberoni (1664-1752), organizza la riconquista della Sardegna, con la restaurazione della sovranità di re Filippo V, nel 1717. Ma l’Austria ottiene l’appoggio dell’Inghilterra, dell’Olanda e della Francia, che, in una breve guerra, hanno ragione della Spagna: re Filippo V deve licenziare il cardinale Alberoni e abbandonare il regno di Sardegna, che, frattanto, nell’accordo di Londra, era stato «imposto» ai duchi di Savoia in cambio del regno di Sicilia, nel 1720 unito nuovamente a quello di Napoli sotto sovranità austriaca. Pur isolata, la Santa Sede protesta per la violazione del principio dell’inseparabilità, sancito nell’atto d’infeudazione del 1297.
In un primo tempo i Savoia accettano malvolentieri il nuovo Stato, assai più povero di quello siciliano, anche se in questo modo ottengono il titolo reale. Soltanto a partire dal 1759, sotto il regno di Carlo Emanuele III (1701-1773), il conte Giambattista Lorenzo Bogino (1701-1784), nominato ministro per gli Affari Ssardi, promuove una politica riformistica nell’intento di alleviare la povertà dell’isola. Gli interventi più importanti sono la rifondazione delle due università, un tentativo di alfabetizzazione diffusa, per la verità poco riuscito, l’istituzione di «monti frumentari» in tutti i paesi per garantire la disponibilità di sementi ai contadini e l’istituzione di consigli comunali. Gli storici valutano in modo diverso l’incidenza positiva di queste riforme; comunque il conte Bogino viene allontanato dal nuovo re Vittorio Amedeo III (1726-1796), il quale si preoccupa soprattutto di rinnovare le fortificazioni difensive.
Il regno è profondamente interessato dalla Rivoluzione francese. Dapprima — nel gennaio e nel febbraio del 1793 — si ha un attacco militare, portato da una grande flotta a sud e a nord da un corpo guidato dal tenente colonnello Napoleone Bonaparte (1769 -1821), attacco respinto dalle milizie sarde; solo nell’isoletta di San Pietro vive per pochi mesi una effimera Repubblica della Libertà, di cui è anima il rivoluzionario «di professione» Filippo Buonarroti (1761-1837), poi sodale di François-Noël «Gracchus» Babeuf (1760-1797) nella comunistica Congiura degli Eguali del 1796. Nel 1794 hanno invece inizio moti anti-piemontesi che portano a una provvisoria cacciata di tutti i funzionari non isolani e che sfociano, nella primavera del 1796, in un movimento antifeudale, capeggiato da Gianmaria Angioy (1761-1808) e presto fallito, in quanto il ceto dirigente sardo non segue Angioy sulla via rivoluzionaria, ottenendo, invece, dal sovrano l’accoglimento delle richieste di restaurazione dei privilegi tradizionali del regno.
Alla morte di Vittorio Amedeo III diventa re di Sardegna Carlo Emanuele IV (1796-1802), il quale, ceduti ai francesi, nel 1798, tutti i territori peninsulari, a causa delle sconfitte militari, si trasferisce a Cagliari nel 1799: così il regno torna a essere costituito dalla sola isola; nel 1802, a Roma, egli abdica in favore del fratello Vittorio Emanuele I (1802-1821), decidendo di farsi gesuita. In Sardegna i Savoia attendono fino al 1814 la possibilità di ricuperare il Piemonte e di tornare a Torino. Più che dal re, la storia dell’isola è influenzata dall’attività del fratello Carlo Felice (1765-1831), il quale, già viceré di Sardegna dal 1799 al 1806, e poi dal 1815 al 1821, sale al trono in quell’anno per l’abdicazione di Vittorio Emanuele I. A lui si devono anche, nel 1828, la promulgazione di un nuovo Codice di leggi civili e criminali del Regno di Sardegna, nonché provvedimenti per la diffusione dell’istruzione elementare e superiore e per la riorganizzazione dell’assistenza sanitaria.
Il successore è Carlo Alberto (1831-1849), del ramo collaterale dei Carignano, del quale è nota l’evoluzione politica che lo porta, dopo alterne fasi liberali e conservatrici, a porsi, concesso lo Statuto nel 1848, alla testa della guerra anti-austriaca del 1848-1849 e poi, dopo la sconfitta subita presso Novara dal 19 al 23 marzo 1849, all’esilio portoghese. Fra i suoi interventi riformatori in Sardegna spicca l’abolizione del feudalesimo nel 1838.
Spinti dall’accelerazione della storia e da un vago desiderio di adeguarsi ai nuovi tempi che si delineavano, i ceti dirigenti sardi decidono, il 29 novembre 1847, di rinunciare alla tradizionale autonomia, ottenendo, il 3 dicembre successivo, la fusione con gli Stati di terraferma. Essa comportava, fra l’altro, la sostituzione del codice feliciano con quello piemontese, la fine del proprio istituto parlamentare, l’abolizione del viceré e l’adeguamento delle divisioni amministrative.
La storia seguente è quella del Regno di Sardegna che, con il Risorgimento, diventa Regno d’Italia; e la legge del 17 marzo 1861 stabilisce: «Vittorio Emanuele II Re di Sardegna […] assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia». Ma la partecipazione al processo unitario è, nell’isola, minima, mentre fra non pochi uomini di cultura si diffonde il rimpianto per la richiesta della fusione.
Marco Tangheroni (1946-2004)
23 ottobre 2018
Per approfondire: Bruno Anatra, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai Savoia, UTET, Torino 1987; e Francesco Cesare Casula, La storia di Sardegna, ETS-Delfino, Pisa-Sassari 1992.