Giovanni Cantoni, Cristianità n. 47 (1979)
Mentre la politica nazionale ristagna, una ondata di disimpegno – parzialmente spontaneo e parzialmente artificiale – si abbatte sulle nuove generazioni. Il «deflusso» della sinistra e la sua gestione. La delusione dell’azione politica totalizzante e i suoi possibili esiti: il suicidio e il disimpegno. I giovani – che nel ‘68 sono serviti per spostare al centro il Partito Comunista in marcia verso il potere – vengono ora orientati verso le discoteche: il «regime» non ha bisogno di impegnati! Una trappola e una occasione per l’anticomunismo. La riscoperta del «privato» può aiutare a riscoprire la società, l’enorme tessuto tra l’individuo e lo Stato, che è una delle vittime principali del totalitarismo e dell’azione politica totalizzante.
Nella imminenza del “regime”
Il “riflusso”, il disimpegno e la liquidazione della contestazione
Il commento politico è spesso, se non principalmente, commento dei fatti politici, cioè degli avvenimenti nazionali e internazionali, che hanno come protagonisti pressoché esclusivi gli uomini di partito e gli uomini di governo.
Da questa sorta di palcoscenico, per chiamarlo così, si esce, talora, per cercare di fare luce sui retroscena, la cui conoscenza sarebbe rivelatrice e illuminante, senza per altro spiegare come mai un fatto accaduto dietro le quinte, un avvenimento nascosto, sia meno bisognoso di spiegazioni e di delucidazioni di un fatto noto, anzi, costituisca esso stesso, addirittura, una spiegazione!
Di rado, poi, qualcuno azzarda una meritoria irruzione nel mondo delle motivazioni dottrinali, ideologiche, nel tentativo di identificare, e quindi di ricostruire, i moventi filosofici, ideali, della cronaca che fluisce e decanta in accadimenti destinati a divenire, almeno in parte, storici.
Ancora più raramente, però, l’attenzione degli osservatori si concentra sulle tendenze, sui fenomeni di costume, che rivelano il modo di sentire di quanti, alla scena sociale, portano il contributo di «fornitori di consenso», di spettatori, di volta in volta blanditi o svillaneggiati, illusi di essere protagonisti oppure ignorati.
Se questo è il quadro corrente – la cui veridicità è da tutti e facilmente verificabile – merita particolare attenzione ogni espressione di interesse ufficiale per fenomeni di costume, per tendenze sociali.
Il «deflusso»
Da qualche tempo a questa parte gli organi di «formazione delle coscienze» e gli «opinionisti» vanno sostenendo la esistenza di un «riflusso» – soprattutto giovanile -, del quale indagare la natura e l’orientamento politico. Chi ne parla si esprime, a grandi linee, negli stessi termini promozionali con cui, poco più di dieci anni fa, veniva lanciata spontaneamente la contestazione, cioè descrivendola per farla esistere, oppure per orientarne le allora scarse e incipienti manifestazioni.
Oggi, il risultato della indagine sul «riflusso» conclude spesso qualificandolo come «di destra», sic et simpliciter, e riassumendolo molto brevemente – anche se non senza una certa grossolana efficacia – come una riscoperta del «privato», troppo a lungo coartato e trascurato, a vantaggio di un «pubblico» e di un «politico» sempre più invadenti e onnipervadenti.
Naturalmente non manca chi – immediatamente – assume la rappresentanza di questo «riflusso», senza chiedersi in precedenza né se esista veramente – o non sia piuttosto promosso propagandisticamente -, né, eventualmente se ne verifichi la realtà, che significato abbia e di quali correttivi – se non addirittura protesi – abbisogni, per essere seriamente qualificabile come «di destra». La cosa non meraviglia: certa «destra», si sa, è di bocca buona, e non sottopone a ispezione di sorta il «caval donato», né tanto meno lo inquisisce, per nulla ammaestrata da una esperienza che risale almeno al «cavallo di Troia»!
Dunque, che un certo «riflusso» esista si può evincere – più che da indagini sociologiche di dubbia veridicità, con proiezioni abusive – dal «deflusso» della sinistra, anche e soprattutto giovanile, affetta, tra l’altro e sintomaticamente, dalla piaga del suicidio, al momento individuale. Il fallimento dell’impegno politico, la delusione ricavata dal «politico» come surrogato di «tutto» ha, in soggetti introversi, esiti talora drammatici; in soggetti estroversi, espressioni di disimpegno. La via di uscita dal «ribellismo», dal «rivoltismo» sessantottesco di quarta o di quinta mano – in ultima analisi, una sorta di voyeurismo politico – conduce i più – forse anche i più superficiali, ma non è detto – al «travoltismo», alla «febbre del sabato sera», ecc. Né diverso esito è auspicabile, per chi gestisce realmente il potere e si appresta a rappresentarlo anche ufficialmente, come ulteriorità rispetto alla scoperta che partecipazione è il nome che copre il dovuto consenso alle decisioni dei vertici politici, partitici e sindacali. Quando i singoli individui si stancano di partecipare – si fa per dire – alle decisioni altrui, cioè di esprimere un consenso pronto, cieco e assoluto, anche se più o meno accuratamente travestito da esito assembleare, optano per «farsi i fatti propri». La mossa è più che ragionevole, almeno in una ottica squisitamente individualistica. E quando assume spessore e rilevanza sociali, va semplicemente inquadrata e squalificata, prima che abbia a produrre tutte le sue possibili conseguenze.
In primis et ante omnia, bisogna evitare che il fenomeno coinvolga tutti, e bisogna caratterizzarlo con connotati il più possibile volgari e dequalificanti. Così, anzitutto, le espressioni sgradevoli e vane ne impediranno un esame sostanziale, con l’eventuale emergere dei motivi di fondo; eviteranno, poi, il coinvolgimento degli uomini migliori che, per quanto stanchi della politica panica a cui è inevitabilmente limitato e circoscritto l’orizzonte rivoluzionario, ne trarranno incitamento per aumentare la disponibilità a sostituirsi alla massa degradata, piuttosto che per cedere alla tentazione individualistica e privatistica.
In secondo luogo, un effetto non trascurabile consiste nello spingere a pratiche risibili ed esistenzialmente futili e fatue – per dire il meno – persone, giovani e soprattutto giovanissimi, bene intenzionate a qualificarsi in senso anticomunista, ma, inevitabilmente, propense a battere le strade meno erte: cosa si può chiedere di meglio, se qualcuno ci assicura – teste l’avversario – che le «vie della tradizione» portano in discoteca?
La riscoperta del «privato» tra le rovine della società
È chiaro che i termini del problema dovrebbero essere espressi in forma più articolata. Nella prospettiva immanentistica del mondo moderno e dei movimenti rivoluzionari, la politica surroga e ingloba la religione, certamente, ma surroga e ingloba anche la società, cioè tutta la realtà in cui si esprimono, in una gamma vasta ed esistenzialmente inesauribile, i rapporti interpersonali, ai quali da quasi due secoli non viene riconosciuta, quando non esplicitamente negata, pubblica rilevanza.
Inoltre, la dedizione e la devozione politica sono dai più – cioè dai non settari – vissute come mezzi per migliorare la società e la vita anche privata. La loro pratica totalitaria e totalizzante distrugge, però, la società e il «privato», la cui giustificazione non può più costituire incentivo alla lotta. Il minore incentivo – quando non la delusione per una lotta politica non sufficientemente motivata – fa rifluire sul «privato» o su quanto di esso rimane, dopo i guasti prodotti dal saccheggio «pubblico».
Quanto rimane del «privato» – la societas depopulata – è così poco da parere insufficiente, al settario, per abbandonare il suo impegno di nuova creazione della società, e quindi tale da confermarlo nella sua vocazione di distruttore.
E insufficiente, forse, appare anche a quanti su di esso ripiegano, rifluiscono, se non vi è qualcuno che ne aiuti la lettura e la ricomposizione e la rinascita, oltre e contro il «politico» assoluto. Diversamente, la rinuncia a partecipare alla rivoluzione politica diventa scelta di paria, opzione castale, e delega definitiva alla burocrazia ideologica: chi non si sente minore, scegliendo un «privato» vano in alternativa a un «pubblico», a un «politico» non meno vano, ma almeno utopisticamente grandioso?
I «fatti propri» della «nuova classe»
Il cerchio è veramente chiuso: il paradiso in terra non si realizza; ergo, i più vanno a ballare, mentre quanti hanno superato la tentazione di «farsi i fatti propri» privatamente si qualificano come membri della burocrazia di setta, in qualcuna delle sue articolazioni egemoniche (di partito, di sindacato, di establishment culturale, editoriale, giornalistico, cinematografico o radio-televisivo, ecc.), passando così a «farsi i fatti propri» di categoria, di «nuova classe».
Dalla «gestione del deflusso» alla «liquidazione della contestazione»
Tutto quello di cui ho trattato fino a questo punto è, però, ancora e solamente «deflusso», previsto e prevedibile. La sua esistenza, e quindi la necessità di gestirlo, bastano a spiegare il lancio propagandistico del «riflusso»? Mi pare francamente di no. Tale mossa, infatti, trova la sua piena e adeguata giustificazione soltanto se vista anche – se non esclusivamente o principalmente – come liquidazione della contestazione, brodo di coltura, tra l’altro, delle Brigate Rosse, e potenziale riserva di «dissenso» rispetto al «regime instaurando».
Ho avanzato, all’inizio, la ipotesi che il «riflusso» sia promosso. Siccome il «deflusso» è inevitabile – dal momento che non si può dare «tutto e subito» a tutti, e i troppo insoddisfatti vanno a ingrossare le file del brigatismo rosso – tanto vale orientarlo da lontano, se non da distanza ravvicinata, perché il suo piccolo ma reale potenziale reazionario – che si esprime come insoddisfazione della rivoluzione a breve, esaurimento del rivendicazionismo di costume, che non ha, come quello sindacale, il traino della inflazione – si perda nella fruizione del «privato» più banale e vuoto, e non diventi consapevolezza che lo scontro ideologico non è tra «pubblico» e «privato», ma tra un «pubblico che è tutto» – il «tutto è politico» gramsciano – e un «pubblico che protegge il privato e non si sostituisce a esso».
Ma i termini reali del problema sono soprattutto questi: le «masse» mobilitate dal mito della contestazione, creato prima del ‘68 e utilizzato fino al ‘76, devono essere smobilitate, perché il fine del loro impegno è stato sostanzialmente raggiunto. Il Partito Comunista è ormai «d’ordine» e il brigatismo rosso serve a continuamente offrirne la prova – utile benché ambigua -, ma non deve divenire fenomeno di massa, dal momento che la strategia scelta dalla dirigenza comunista è e rimane quella del «compromesso storico». Perché il brigatismo rosso resti strumento – articolazione operativa – e non si elevi ad alternativa, va a esso tolta la possibile base. Di nuovo, perciò, la contestazione sessantottesca deve essere smobilitata. E ogni smobilitazione è dolorosa e comporta traumi di varia natura e portata. La smobilitazione del ‘68 permette di identificare due tipi di rivoluzionari: quello che potremmo chiamare «tattico», di breve raggio d’azione, e lo «strategico», quello capace di aspettare. Quest’ultimo è reclutato dall’establishment comunista e diventa «organico». Del primo tipo, i «duri» hanno raggiunto e raggiungono l’ala «operativa» del comunismo medesimo, mentre la grande massa, a scanso di equivoci, viene sciolta e squalificata dagli stessi che a suo tempo l’hanno animata: per ora, infatti, il servizio è finito! Come effetto secondario – la cosa si era già verificata nel ‘68 e negli anni immediatamente seguenti – si ottiene, anche, una ulteriore dequalificazione della gioventù potenzialmente anticomunista, tracciando un identikit dell’anticomunista «ballerino»!
Dal «privato» al «sociale»
Per chi ha seguito le considerazioni che ho svolto e ha colto i termini reali del problema, l’impegno diventa quello di impedire che il «privato», a sua volta, si trasformi nel «tutto», mostrandone la articolazione e la interazione con il «pubblico», inteso e descritto correttamente come organizzazione e protezione politica della società. Solo a questo patto il «riflusso» può andare a vantaggio dell’autentico anticomunismo: quando diventi consapevole della necessaria azione politica e morale per ricostruire la società e difendere il sopravvivente «privato» dalla irruzione del totalitarismo. Diversamente, la gestione comunista della smobilitazione del ‘68 è destinata a svolgersi e a esaurirsi senza che il suo inevitabile rovescio – e ogni azione, come ogni medaglia, ne ha uno – venga adeguatamente utilizzato come occasione per reagire e per innervare la reazione, ma piuttosto finisca per condizionare gli stessi già reazionari e per intrupparli in una reazione falsa, e come tale artatamente preparata dall’avversario comunista. Senza volere anticipare troppo, mi pare che la direzione assunta da improvvisati piloti del «riflusso» sia proprio questa. Purtroppo.
Giovanni Cantoni