Giovanni Cantoni, Cristianità n. 52-53 (1979)
La Rivoluzione italiana in un vicolo cieco
La formula politica lanciata dal Partito Comunista Italiano nel 1973 – ma che affonda le sue radici in decenni di storia europea e mondiale – non conosce tramonto. Nonostante i risultati elettorali e le difficoltà di attuarla, viene riproposta con rinnovata energia e con grande clamore propagandistico. Il rilancio da Yalta autorizza a pensare a una esplicita approvazione sovietica e quindi al venire meno di quei motivi di fretta, chiaramente dettati da ragioni internazionali, che ne avevano fatto sollecitare la realizzazione attraverso la consultazione elettorale anticipata del 3 giugno. Il lupo comunista cambia il pelo, ma non il vizio: fine della sua politica è sempre l’abolizione della proprietà privata. L’appello comunista alla solidarietà «corporativa» tra i partiti, soprattutto di massa. Preoccupazione della setta democristiana per il distacco del mondo cattolico. Consacrazione a Maria, Madre e Regina d’Italia, perché la nostra nazione non diventi «rossa».
La tornata elettorale del 3 giugno indubbiamente ha costituito per la politica detta di compromesso storico un infortunio di qualche rilievo, anche se non molto di più di un infortunio. Ma per chi di tale politica si dichiara avversario, essoè stato provvidenziale in quanto, avendola costretta a un arresto e quindi a una nuova partenza, ne ha rivelato ulteriormente i presupposti e la dinamica, con evidente vantaggio per la organizzazione della lotta contro di essa.
Infatti, dopo i primi momenti di disorientamento e la generalmente riconosciuta necessità di una «tregua» politica – non si sa perché, «operosa»! -, il progetto comunista di conquista del potere nel nostro paese – senon, sic et simpliciter, in tutte le nazioni cattoliche dell’Occidente – è stato confermato come assolutamente insostituibile, e quindi rilanciato con vasta eco propagandistica, adeguatamente orchestrata. La conferma è stata data in sede di riunione del comitato centrale del Partito Comunista, attraverso il rapporto e la replica del segretario generale, on. Enrico Berlinguer; il rilancio è avvenuto con una intervista, dallo stesso massimo esponente comunista concessa al settimanale tedesco occidentale Stern, e poi con un editoriale-saggio di Rinascita, il settimanale fondato da Palmiro Togliatti.
Un punto fermo «dell’orientamento e della prospettiva politica» comunista
Nel corso del rapporto al comitato centrale, l’on. Berlinguer ha ricordato con estrema chiarezza qual è la «formidabile posta in gioco» a partire dalle elezioni del 1976: «Per la prima volta dal 1947 – quando con l’inizio della guerra fredda, ebbe fine la partecipazione dei partiti comunisti del nostro e di altri paesi europei ai governi di unità nazionale sorti nel corso o subito dopo la guerra antinazista – un partito comunista, in un grande paese occidentale, giungeva sulla base del suffragio popolare alle soglie della diretta partecipazione alla guida del paese» (1).
Quindi, dopo l’esame dei dati elettorali del 3 e del 10 giugno, e la indicazione di qualche «errore di linea», con particolare riferimento alla «vecchia questione del nostro atteggiamento verso i piccoli proprietari di case o di terra», il segretario generale comunista ha puntualizzato la situazione nei seguenti termini: «Con le elezioni del 3 giugno si conclude una fase politica. Si può dire, in linea di massima, che nessuna delle prospettive politiche presentate agli elettori esce premiata e incoraggiata dal voto. Ma ciò che più pesa è che, date le posizioni politiche degli altri partiti, non è per il momento realizzabile il governo di cui l’Italia avrebbe bisogno; un governo di effettiva e piena solidarietà nel quale sia rappresentato anche il PCI.
«Ma il problema della partecipazione del movimento operaio alla guida della nazione resta all’ordine del giorno, sia perché il nostro partito continua a costituire nel paese e nel Parlamento una grande forza, sia perché la situazione generale del paese e i rapporti politici sono tali che impongono sempre la necessità di fare i conti con noi.
«Abbiamo subito un insuccesso – ha dovuto apertamente riconoscere l’on. Berlinguer -, ma non si può affermare che in Italia il movimento operaio e il Partito comunista, come invece in altri periodi e in altri paesi, siano in ritirata.
«La situazione è incerta, instabile e suscettibile dei più diversi sviluppi» (2).
A conclusione, comunque, nonostante la chiara posizione del corpo elettorale e nonostante il giudizio sulla situazione «suscettibile dei più diversi sviluppi», ha espresso a chiare lettere «la persuasione, che è stata sempre, e giustamente io credo, alla base di tutta la nostra elaborazione e battaglia politica in più di un trentennio ormai, […] che la emancipazione delle classi lavoratrici, il progresso e l’avanzamento democratico del paese, la lotta per il socialismo esigevano che si evitasse la spaccatura, la contrapposizione, lo scontro frontale fra due schieramenti, la polarizzazione a destra di forze sociali e politiche intermedie, il pericolo di isolamento della classe operaia. Nella realtà italiana ciò comportava e comporta per il movimento operaio e per la sinistra la ricerca di un rapporto, di un dialogo, di una intesa con le masse popolari di orientamento cattolico e con le forze democratiche che seguono e sono presenti nella DC. Questo punto dell’orientamento e della prospettiva politica resta per noi fermo» (3).
Nella replica, poi, l’on. Berlinguer ha inequivocabilmente affermato di avere, nel suo rapporto, «difesi i capisaldi della strategia complessiva del PCI […] nella convinzione che l’abbandono di quei capisaldi porterebbe il partito rapidamente non a delle flessioni, non solo a perdite di consensi, non a insuccessi transitori, ma a una sconfitta di carattere storico» (4).
Dunque, in termini privi di qualsiasi possibile ambiguità, secondo il massimo esponente comunista italiano la politica di compromesso storico non è di ieri – non è cioè un espediente tattico -, ma ha più di trent’anni; posta la situazione italiana, essa è assolutamente insostituibile, non conosce alternative di sorta; il suo abbandono, perciò, comporterebbe per il suo partito una «sconfitta di carattere storico», conformemente alla sua natura non tattica, ma strategica, non di breve, ma di lunga durata. Quindi, nonostante gli eventuali reali errori compiuti nell’attuarla, non resta che continuarla, anche se con i dovuti necessari aggiustamenti.
Il rilancio da Yalta e nello «spirito di Yalta»
In questa prospettiva – cioè nella prospettiva della sua insostituibilità nel caso concreto -, è avvenuto il rilancio della politica di compromesso storico in tutte le sue componenti e articolazioni, una sorta di «ripasso» estivo per chi non avesse ancora capito!
Tale rilancio si è espresso attraverso una intervista concessa dall’on. Berlinguer a Yalta, in Crimea, e un articolo scritto dallo stesso prima di partire per tale località tristemente famosa. Ed è ben comprensibile che l’esponente comunista, uomo di punta del compromesso storico, si sia andato a ispirare nel luogo che ha visto nascere, con il trattato di infausta memoria, la divisione dell’Europa e la pratica delle «zone di influenza» seguente la seconda guerra mondiale; e, quindi, le conferme della «svolta di Salerno» (1944: «più di un trentennio ormai»!). Sempre da Yalta, poi, prende nome il memoriale di Togliatti, dell’on. Berlinguer a maestro e donno», con la teorizzazione del policentrismo, indispensabile preludio allo sviluppo dell’eurocomunismo (5).
Il messaggio lanciato dalla Crimea – secondo i moduli di una sorta di «classicità» comunista – precisa: 1. che «il compromesso storico non è un rapporto fra il PCI e la DC e non è una formula di governo. Il compromesso storico è una strategia che può camminare anche senza la collaborazione al governo fra comunisti e democristiani. Noi pensiamo ad una comprensione e ad un incontro fra le grandi correnti popolari della vita italiana: i comunisti, i socialisti, i cattolici» (6); 2. che, «finché rimarrà l’antidemocratica pretesa di escludere pregiudizialmente il PCI dalla partecipazione al governo l’Italia non sarà governabile veramente» (7); 3. e che «né i repubblicani, né i socialdemocratici, né i socialisti vogliono un governo di sinistra con i comunisti ma anche noi riteniamo che questa non sia nelle attuali condizioni una buona soluzione per le sorti della democrazia italiana. Con una Democrazia cristiana rigettata sulla linea dello scontro rischiamo una spaccatura del paese in due blocchi, rischiamo una situazione cilena, cioè un golpe di destra» (8).
In pochi punti, ma ancora una volta estremamente chiari per chi voglia intendere, il segretario del PCI minaccia l’agitazione sociale, cioè sindacale, per rendere ingovernabile il paese, se il suo partito non viene assunto al governo; quindi offre, cautamente e quasi di passaggio, un rimando dell’ingresso al governo, magari a dopo il congresso nazionale della Democrazia Cristiana; da ultimo, richiama la lezione cilena, della quale ha dato e dà, con una certa frequenza, una lettura sostanzialmente corretta, mentre gli informatori e i formatori della opinione pubblica, nella loro grande maggioranza, si ostinano a presentarla – non si sa se per ignoranza, per pigrizia o in malafede, o per tutte e tre le cause – come uno dei tanti pronunciamìentos sudamericani, indegni della «civiltà» politica europea, senza rendere minimamente ragione della situazione sociale che ha reso possibile, se non indispensabile, tale pronunciamiento (9).
Comunque, questi punti scarni e significativi sono divenuti meno immediatamente perspicui, ma anche più ricchi di sottintesi, nell’articolo su Il compromesso nella fase attuale, il citato editoriale-saggio di Rinascita. Tale scritto berlingueriano sipuòraccogliere attorno a tre temi, uno economico, uno politico e uno di prestigio, di esemplarità «nazionale».
La «legge della conservazione intelligente»!
Il tema economico – nodale nella esposizione dottrinale di ogni comunista – si svolge in un appello alla classe imprenditoriale italiana, alla «proprietà italiana», offrendo a essa «i termini di un compromesso di portata storica tra chi è solo interessato al quanto produrre e chi è interessato invece al che cosa e al perché produrre» (10) e richiamando la proposta della austerità.
Lanciando tale appello altamente significativo al padronato italiano – implicitamente tacciato, in ognisua espressione, di univoca e ottusa proiezione al reddito -, l’esponente comunista lo accusa, tra l’altro, di non avere «saputo volontariamente applicare per sé la legge della conservazione intelligente», che, secondo un articolo togliattiano del 1946 (anche in questo caso, «più di un trentennio ormai»!), si enuncerebbe così: «perdere ogni giorno metodicamente qualche cosa per non perdere tutto» (11). Come si vede, la «legge della conservazione intelligente» – nella definizione, evidentemente, «intelligente» non sta per «che capisce», ma per «che se la intende con il nemico»! – descrive semplicemente la scomparsa indolore della proprietà e quindi la realizzazione dell’ideale comunista, dal momento che «i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata», e non secondo opinioni di scarso rilievo in campo socialista (12)!
Lanciando tale appello – dicevo – l’on. Berlinguer presenta la nuova combinazione, che consisterebbe nello spartirsi la situazione fallimentare, o certo molto difficile, in cui versa dal punto di vista economico la nostra nazione – in conseguenza della incapacità degli imprenditori «di difendere seriamente i loro stessi interessi» e delle «grandiose lotte politiche e sindacali» che li hanno costretti «ad accettare uno sviluppo della democrazia e a cedere ogni anno, ogni giorno qualcosa» (13) -, e nel farla accettare ai cittadini rappresentati dal PCI come un progresso o almeno una tappa sulla via del progresso, a condizione che il PCI stesso ne ricavi un incremento di potere politico.
Apologia comunista della partitocrazia
Si inserisce a questo punto il tema politico, il «nodo chiaramente politico», consistente nel portare «a sintesi politica contraddizioni, esigenze contrastanti, rivendicazioni categoriali e corporative che nel loro spontaneismo, nell’esplicitarsi delle loro unilaterali verità hanno solo un effetto frantumatore, anarcoide, destabilizzante e finiscono di fatto, sul terreno economico, per operare solo in direzione di un ridimensionamento strutturale dello sviluppo e, sul terreno politico, in senso autoritario e reazionario» (14). Perché l’austerità possa essere imposta alla società è necessario il citato incremento di potere del PCI; ma, siccome tale incremento di potere del PCI o delle sole sinistre provocherebbe una spaccatura nel corpo sociale, ènecessario che sia attribuito a una combinazione di tutti i partiti, «in primo luogo i partiti di massa, ma poi tutti i partiti democratici», che «devono tornare ad essere, solidalmente, strumento e condizione» (15) del dominio incondizionato dello Stato sulla società. Da questa situazione, l’apologia del partito (della «forma-partito») in quanto tale: infatti, «quando l’attacco è diretto a denigrare ogni sforzo teso a organizzare la società attorno a un fine, è diretto contro ogni scala di valori che non sia quella gratuita e imprevedibile che viene confusamente e contraddittoriamente espressa dal moltiplicarsi degli appetiti egoistici dei singoli, dallo sfarinarsi della società in una miriade di nuclei corporativi e delle lotte al loro interno, dall’accentuarsi della induzione al consumismo -, ebbene quando avviene tutto questo – incalza l’on. Berlinguer -, e questo sta avvenendo, non dovrebbe essere difficile capire che l’attacco non riguarda solo il PCI ma tutti i partiti che tendono ad organizzare le masse e a ordinare in modo nuovo la società in vista di certi ideali» (16).
L’Italia anticomunista: «un’Italietta»!
Dal nodo politico, infine, il passaggio all’appello «nazionale» è breve, quasi un corto circuito: «Che siano travolti i responsabili di tanti errori e di tante scelte antipopolari e antiunitarie non ci turba: ci preoccupa invece, e molto, che in una situazione quale quella attuale prevalgano l’ottusità del pragmatismo, le miserie del qualunquismo, i calcoli brevi dell’opportunismo: tutti portatori di acqua al mulino della disgregazione e dell’imbarbarimento del paese» (17). Ergo, il diapason della politica di compromesso storico si esprime nei termini della peggiore retorica patriottarda: «vogliamo un’Italietta ridimensionata e rattrappita, sempre più squilibrala nelle sue aree geografiche, permanentemente percorsa da tensioni e turbata da laceranti contrasti, decadente, o vogliamo imprimerle un processo di crescita civile e di trasformazione economica e sociale democraticamente diretto e governato?» (18).
La descrizione del «compromesso nella sua fase attuale» è dunque completa, nelle sue premesse, nelle sue difficoltà e nelle sue tematiche principali. Da questo quadro, che mi è parso indispensabile descrivere con la massima ampiezza, non si può assolutamente prescindere, dal momento che racchiude il giudizio sulla situazione italiana della forza politicamente più attiva sulla scena nazionale e internazionale, e quindi contiene, sempre in nuce e spesso in esplicito, i suoi principali indirizzi operativi.
Il PCI, dunque, giudica la situazione italiana terribilmente disorientata e confusa, e ne riconosce le cause nella pressione sindacale, da un lato, e, dall’altro, nella inadeguata resistenza delle forze reazionarie. L’itinerario di «gestione della confusione» fino al potere totale – detta anche politica di compromesso storico – ha subito un arresto, ha incontrato un ostacolo, che si è espresso elettoralmente, ma che ha profonde radici in moti di natura sociale, spesso scorretti – dico io – nelle loro manifestazioni, ma rivelatori di esigenze e di tendenze decisamente positive. Ma il PCI non si demoralizza se la gente non ha capito l’austerità (19), e invita a continuare sulla via da più decenni tracciata, e che non ha alternative. Lamenta, certo, che non sia riuscito il colpo, il golpe elettorale; che la DC non abbia vinto e che la sua classe dirigente sia in pessime acque.
Ma, siccome il corpo sociale si agita ed esprime pericolose spinte corporative e regionalistiche, la presa dei partiti si fa sempre minore ed è quindi indispensabile una loro reazione corporativa, una reazione corporativa dei professionisti della vita di partito, cui può sempre più verosimilmente sfuggire la base: questa, in ultima analisi, l’unica vera novità nel rilancio del compromesso storico!
Preoccupazioni comuniste per la DC
La preoccupazione del segretario generale del PCI per la situazione della DC è grande e, pure esprimendosi in modo non eccessivamente scoperto, emerge chiaramente e merita particolare attenzione. L’esponente comunista sa che la DC, come il PCI, non è un partito socialdemocratico, ma è a esso più simile del PCI stesso, e quindi la sua classe dirigente può essere spinta, sulla base dei risultati elettorali, se non a cambiare linea, almeno a temporaneamente modificarla; sa, inoltre, infatti, che «la DC non è eterna, evidentemente. Può avvenire ad esempio che, o per un ulteriore affievolirsi dell’appoggio di certi settori dell’episcopato italiano, o per il distacco di strati di borghesia o, per converso, di strati popolari, il partito democristiano possa ridursi a una forza politica assai meno consistente di quanto non sia oggi» (20); sa, infine, che per essa, «è in gioco oggi il suo ruolo e forse la sua stessa essenza di partito popolare e democratico» (21).
Perciò, di tutto questo consapevole, l’on. Berlinguer incita e chiama la setta-apparato democristiana a portare a rapida conclusione il procedimento di collaborazione, o almeno a garantire la sua certa continuazione, anche senza un immediato ingresso comunista al governo – da rimandarsi, forse, a dopo il congresso democristiano -, dal momento che è in corso un indubbio processo di disaffezione del mondo cattolico dalla DC, versione specifica del distacco della società dalla «partitica». Inoltre, la disaffezione del mondo cattolico è concausa ed effetto del distacco che l’episcopato ha manifestato nei confronti della DC, non più come tale sostenuta in occasione delle ultime tornate elettorali, e nella «ricomposizione» dell’area cattolica all’insegna della tesi secondo cui «la DC non è il partito dei cattolici» (22).
Ma, se la setta democristiana sfiorisce e perde contatto con la base cattolica, la sua funzionalità alla politica di compromesso storico diminuisce a vista d’occhio e anche il compromesso storico corre il rischio di perdere la sua pertinenza alla situazione italiana, facendo così fallire una strategia più che trentennale. E se l’Italia non diventa il modello della «via democratica al socialismo», il suo destino è forse quello di essere una Italietta!
Dalla parte della «strategia del confronto».
Se la preoccupazione del PCI per le sorti della DC – e quindi della politica e della strategia di compromesso storico – non è piccola ed è anzi tale da fare sì che esso offra alla sua «compagna di strada» comprensione per le oggettive difficoltà in cui si dibatte, ed evidente collaborazione per il superamento dello scoglio congressuale da parte della setta-apparato, non meno angosciato è lo stato d’animo che serpeggia fra gli esponenti più avveduti della setta stessa.
Di tale condizione fanno fede i comportamenti isteroidi tenuti da una parte dei dirigenti democristiani al momento del tentativo dell’on. Craxi di formare un governo postelettorale, di dare vita, cioè, a una versione «aggiornata» del centro-sinistra, dal quale, nonostante le smentite in proposito, ripartire per l’itinerario noto e abortito il 3 giugno.
Ma di tale stato d’animo e di tale consapevolezza sono compiuta espressione una intervista rilasciata da Pietro Scoppola e un articolo-precisazione dello stesso. L’esponente della Lega Democratica premette: «Non mi sembra casuale che la crisi, dopo le elezioni, si apra allo stesso tempo nel Pci e nella Dc. Il partito comunista è consapevole che, senza un rapporto positivo con l’area cattolica, o è stalinista o è socialdemocratico, e poiché rifiuta tutte e due queste vie, cerca di mantenere aperto un canale di comunicazione. Nella Dc le correnti cattoliche democratiche sono consapevoli che il Pci è l’unica grande formazione politica italiana la quale abbia compreso non solo che la Chiesa esiste ma anche che c’è una carica positiva nella realtà cattolica e nella cultura democratico-cristiana. È essenziale quindi per quest’area mantenere col Pci un rapporto che ne stimoli l’evoluzione e apra alla società italiana una via originale di sviluppo» (23).
Quindi, dopo avere notato che «fra gli elementi di “originalità” dell’Italia c’è un partito comunista più forte che in ogni altro paese europeo, e assai più radicato nella storia e nella cultura del paese di quanto lo siano i partiti comunisti dell’occidente, che sono assai deboli o corpi quasi estranei rispetto alle rispettive tradizioni culturali nazionali» (24), l’esponente «cattolico»-divorzista sentenzia che «la politica del confronto e della solidarietà nazionale è stata la seria risposta che la Democrazia Cristiana, sotto la guida di Benigno Zaccagnini e di Aldo Moro, ha dato al problema della presenza comunista in Italia» (25).«Chi può aiutare l’evoluzione del Pci? – incalza Scoppola – Chi può favorire il superamento del fattore K, della convenzione che finora ha escluso il Pci dalle responsabilità di governo? […] Ci vuole una realtà di massa […]. Oltre al Pci, c’è un’altra sola realtà di massa ed è quella cattolica. […] Ma è un processo lento, come diceva Moro, e il Pci ha sbagliato a forzare i tempi» (26). In altri termini, chi può portare il PCI al governo? La DC, ma deve avere tempo. Dopo l’infortunio elettorale i comunisti paiono propensi a concederlo, con il placet del Cremlino – l’apertura è fatta in Crimea -, rimuovendo cioè i motivi di fretta dettati da ragioni di carattere internazionale. Ma, anche con il tempo, la consultazione elettorale e il dopo-elezioni hanno messo in risalto che «la Dc non è chiesa a se stessa, come lo è il Pci. Deve sempre fare riferimento ad un’area più vasta, che è il mondo cattolico» (27), all’interno del quale è minoritaria. «Sturzo era minoritario – confessa lo storico democristiano – e all’inizio anche De Gasperi. Ma nei momenti migliori il filone democratico ha egemonizzato il mondo cattolico» (28), Ma chi, oggi, potrebbe sostenere che quello che viviamo è per la setta democristiana uno di quei «momenti migliori»?
«Questione italiana» e «questione democristiana»
La politica che caratterizza la nostra vita nazionale dal settembre 1973 e, più ampiamente, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha sotto i nostri occhi concluso un suo ciclo minore, e si ripresenta con la ennesima conferma della tesi che vengo da tempo illustrando, e cioè il carattere nodale della questione democristiana nella più vasta e decisiva questione italiana (29).
Il PCI ha scelto, sulla base di Yalta e… a Yalta, una linea strategica che è sostanzialmente quella del rifiuto dello scontro con ogni anticomunismo, di qualsiasi marca, ma soprattutto cattolico, e della proposta reiterata di un coinvolgimento degli avversari in una impresa comune – per gli altri indefinita, per ciò che lo riguarda il socialismo -, attraverso la trasformazione degli avversari in «compagni di strada». Il rifiuto dello scontro non è solo rifiuto – nel caso concreto, sia ben chiaro, non in tesi – della guerra civile, dello scontro fisico, ma rifiuto dello scontro ideologico attraverso il «dialogo», e baratto della «pace sociale» in cambio di combinazioni gestionali. Il PCI sa che in Italia c’è la Chiesa e c’è il mondo cattolico; sa della radicale opposizione tra cattolicesimo e comunismo, e tratta con la rappresentanza politica del mondo cattolico e anticomunista. Ma questa rappresentanza politica è in crisi, perché sempre più difficoltosamente riesce a rappresentare il mondo cattolico e a egemonizzarlo, dal momento che a essa – per ragioni ancora difficilmente rilevabili nella loro chiarezza e completezza – è venuta meno la ufficiale o semi-ufficiale mallevadoria dell’autorità ecclesiastica. Che speranza può avere la setta democristiana di continuare a essere significativa espressione politica del mondo cattolico, qualora venga meno l’appello alla unità politica dei cattolici? Si può facilmente prevedere un ridimensionamento non lontano della DC, ridimensionamento il cui primo tempo è costituito dalla mancata vittoria elettorale del 3 giugno? Come non capire, a questo punto, il rilancio, nello stesso tempo delicato e a breve, del compromesso storico da parte del PCI? Come non capire l’urgenza, denunciata da Scoppola, della fondazione di strutture culturali e «civiche» per la riconquista dell’area cattolica da parte della setta democristiana?
Nella stessa prospettiva bisogna probabilmente leggere anche lo scontro in corso all’interno della DC. Alla linea di quanti disperano di riuscire a riconquistare l’egemonia sul mondo cattolico – e quindi vorrebbero giocare subito il potere che hanno a disposizione, per introdurre ufficialmente i comunisti nell’area di governo e nel governo – si contrappone la linea di coloro che ritengono possibile la riconquista di tale egemonia, perduta o in pericolo, passando attraverso una fase di collaborazione con il solo Partito Socialista Italiano – e con i partiti laici minori – e rimandando a tempi migliori la ripresa del contatto pubblico con il PCI.
Tale scontro è complicato dalla presenza, nella DC stessa, di quelli che potremmo chiamare gli «intrusi elettorali», cioè degli eletti nelle liste democristiane, che però non sono ancora stati «iniziati» alla setta e neppure cooptati dall’apparato.
Sulla soglia dell’«Italia Rossa»
Nel 1850, a Livorno, per i tipi di G. Antonelli e C., vedeva la luce la prima versione italiana di un piccolo volume intitolato L’Italia Rossa. Storia delle Rivoluzioni di Roma, Napoli, Palermo, Messina, Firenze, Parma, Modena, Torino, Milano e Venezia. Dall’esaltazione del Papa Pio IX nel Giugno 1846 sino al di lui ritorno nella sua Capitale in Aprile del 1850 (30). L’autore della puntuale cronaca dei tristi accadimenti di quei giorni, il non particolarmente noto – ma non per questo meno acuto – visconte d’Arlincourt, pone in epigrafe alla sua operetta il seguente testo, al quale sono spesso riandato e che mi pare edificante riportare integralmente: «L’Italia Rossa
«In Francia, la monarchia rappresentativa conduceva al Re cittadino; questo guidava alla Repubblica democratica; ed a capo a tutto ciò era il Socialismo.
«In Italia, i Carbonari crearono le società segrete, che fondarono la Giovane Italia; questa portava alla Repubblica unitaria; e a capo a tutto ciò era l’Italia Rossa.
«In ogni paese, diversi nomi, linguaggi varii, vie differenti: da ambe le parti, lo stesso andamento, lo stesso pensiero, il medesimo scopo»(31).
Quella di cui ho parlato fino a ora altro non è che la soglia dell’Italia Rossa prevista dal nobile francese, preoccupato di «tutelare ad un tempo la religione, la monarchia, la famiglia e la proprietà» (32). Da questa soglia e dal riferimento agli accadimenti quarantotteschi sono spinto a guardare il passato d’Italia. Con la proclamazione dell’unità, il mondo cattolico italiano ha cessato di essere politicamente rappresentato, pur continuando a essere culturalmente e socialmente organizzato. Questa condizione anomala è durata fino a quando è durato il non expedit. Quindi, ha cominciato a essere male rappresentato. E questa cattiva rappresentanza di vertice, anche se non ha escluso una generosa militanza di base e di quadri inferiori, non ha favorito la nascita e lo sviluppo di una cultura politica cattolica, espressione del recepimento della morale sociale naturale e cristiana, più nota come dottrina sociale della Chiesa (33). Mi chiedo: il venire meno della egemonia democristiana, o almeno il suo ridimensionamento, comporta una diaspora che atomizzi il mondo cattolico nella sua espressione politica? È possibile che alla propagandata «ricomposizione» dell’area cattolica corrisponda una disgregazione politica, nella forma certo auspicabile della fine della egemonia democristiana, ma anche in quella discutibile della fine della rappresentanza politica del mondo cattolico? Come uscire dalla alternativa che perseguita il mondo cattolico italiano dall’unità: o senza rappresentanza politica, o con una cattiva rappresentanza?
Appello a Maria, Madre e Regina d’Italia
In una lettera diretta a Sua Santità Pio XII, suor Lucia, la sopravvissuta dei tre veggenti di Fatima, scriveva nel 1940: «Santissimo Padre! Se nell’unione della mia anima con Dio non sono stata ingannata da qualche illusione, nostro Signore promette, per riguardo alla consacrazione che gli ecc.mi prelati portoghesi hanno fatto all’immacolato Cuore di Maria, una protezione speciale alla nostra piccola nazione; e che questa protezione sarà la prova delle grazie che avrebbe concesso alle altre nazioni, se come questa le fossero state consacrate» (34).
Il 31 dicembre 1958, la Conferenza Episcopale Italiana, riunita a Roma presso la Domus Mariae, accoglieva la proposta di consacrare l’Italia al Cuore Immacolato di Maria. Questa decisione, desiderio di Papa Pio XII, fu approvata da Papa Giovanni XXIII e si realizzò il 13 settembre 1959, a Catania, a chiusura del XVI Congresso Eucaristico Nazionale. Il passaggio della Immagine pellegrina della Madonna di Fatima attraverso il territorio nazionale fu preparazione al solenne atto, letto dal legato pontificio, cardinale Marcello Mimmi, a nome di tutto l’episcopato e di tutto il popolo italiano, rappresentato in tutti i suoi ordini e condizioni sociali.
Nel ventennale di questa consacrazione, sulla soglia dell’Italia Rossa – nazione che nei vari Stati pre-unitari aveva, sotto diversi titoli, rivolto la sua venerazione alla Vergine santissima, ma che dall’unità era rimasta senza ufficiale mediatrice e patrona – credo si debba implorare Maria, Madre e Regina d’Italia, perché «sia la vita pubblica […] saldamente ancorata alle forme vivificanti e unificanti della civiltà cristiana» (35), perché si moltiplichino gli «operai della restaurazione sociale» (36) e al più presto trionfi il suo Cuore Immacolato.
Giovanni Cantoni
NOTE
(1) ENRICO BERLINGUER, Rapporto al Comitato Centrale del PCI, del 3-7-1979, in l’Unità, 4-7-1979.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) IDEM, Replica al Comitato Centrale del PCI, del 6-7-1979, in l’Unità, 7-7-1979.
(5) Cfr. PALMIRO TOGLIATTI, Promemoria sulle questioni del movimento operaio internazionale e della sua unità (Yalta, agosto 1964), in Sul movimento operaio internazionale, 2ª ed., Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 361-376.
(6) E. BERLINGUER, Intervista a Stern, testo italiano in Epoca, 1-9-1979.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Cfr. FABIO VIDIGAL XAVIER DA SILVEIRA, Frei, il Kerensky cileno, trad. it., Cristianità, Piacenza 1973; PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA E TFP CILENA, Il crepuscolo artificiale del Cile cattolico, Cristianità, Piacenza 1973, e Un «golpe» salva il mito della via cilena?, in Cristianità, anno I, n. 1, settembre-ottobre 1973.
(10) E. BERLINGUER, Il compromesso nella fase attuale, in Rinascita, anno 36, n. 32, 24-8-1979.
(11) Ibidem. Sul tema cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVERIA, L’insidia neocomunista di Roger Garaudy, in Cristianità, anno I , n. 2, novembre-dicembre 1973.
(12) KARL MARX – FRIEDERICH ENGELS, Manifesto del Partito comunista, trad. it., 14ª ed., Editori Riuniti, Roma 1971, p. 78.
(13) E. BERLINGUER, Il compromesso nella sua fase attuale, cit.
(14) Ibidem.
(15) Ibidem.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Ibidem.
(19) Cfr. FRANCO RODANO, Il PCI ha perduto a sinistra perché l’austerità non fu intesa come progetto rivoluzionario, in Paese Sera, 13-6-1979 e Peccato grave di generosità, ibid., 20-6-1979.
(20) E. BERLINGUER, Replica al Comitato Centrale del PCI, cit.
(21) IDEM, Il compromesso nella fase attuale, cit.
(22) BARTOLOMEO SORGE S. J., La «ricomposizione» dell’area cattolica in Italia, Città Nuova Editrice, Roma 1979, p. 119 e passim pp. 115-123.
(23) «Il futuro è di Wojtyla e Berlinguer», intervista a Pietro Scoppola, in la Repubblica, 10-7-1979.
(24) P. Scoppola, Strategia del confronto e governabilità, in Il Popolo, 29-7-1979.
(25) Ibidem.
(26) «Il futuro è di Wojtyla e Berlinguer», cit.
(27) Ibidem.
(28) Ibidem.
(29) Cfr. il mio La «questione democristiana», in Cristianità, anno III, n. 10, marzo-aprile 1975.
(30) Cfr. VISCONTE D’ARLINCOURT, L’Italia Rossa, prima versione dal francese di Angiolo Orvieto, con note, Tip. G. Antonelli e C., Livorno 1850.
(31) Ibid., p. III.
(32) Ibid., p. VII.
(33) Sul tema in generale cfr. il mio L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977.
(34) Lucia racconta Fatima. Memorie, lettere e documenti di Suor Lucia, trad. it., Queriniana, Brescia 1977, p. 156.
(35) PAOLO VI, Radiomessaggio per l’inaugurazione del tempio votivo mariano presso Trieste, del 22-5-1966. in Insegnamenti, vol. IV, p. 257.
(36) S. PIO X, Lettera apostolica Notre charge apostolique, del 25-8-1910, in AAS, vol. II, p. 631.