di Oscar Sanguinetti
Con il termine «Risorgimento» si designa in genere il ciclo di eventi attraverso i quali nasce l’Italia contemporanea, la nazione italiana si dà una forma politica indipendente, unitaria e «moderna». È l’analogo — al netto dell’indipendenza e dell’unità — di quello che con la Rivoluzione del 1789 è avvenuto in Francia e in buona parte delle nazioni occidentali.
Evento-svolta della storia del nostro Paese, esso è un processo che prende le mosse da quest’ultimo accadimento.
Sul finire del secolo XVIII matura tutta una serie di nuovi principi politici, frutto della fermentazione che l’onda lunga del protestantesimo e dell’assolutismo monarchico già nel secolo di Cartesio (1596-1650) e di Thomas Hobbes (1588-1679), ma soprattutto prodotto finito del razionalismo e del laicismo dell’Illuminismo, che dilagano nelle accademie e nelle corti dei principi: già con il «dispotismo illuminato» le idee di Voltaire (1694-1778) escono dai dibattiti accademici e salottieri e diventano un nuovo modello di governo dei popoli.
La vera rottura si avrà quando l’antica monarchia francese, in crisi finanziaria per le guerre sostenute, chiede aiuto ai corpi della nazione, convocando gli Stati Generali. È questa l’occasione, perché il vasto mondo influenzato dalle idee libertarie ed ugualitarie diffuse dagli illuministi passi all’azione. In breve torno di anni, le minoranze ideologizzate che dominano le assemblee che succedono agli Stati Generali, in nome della “liberté, egalité, fraternité”, rovesciano la monarchia di diritto divino — assolutista sì, ma ancora organica, corporata e legata alla Chiesa cattolica — e, con una prassi violenta e intrisa di sangue, costruiscono uno Stato repubblicano, democratico, secolarizzato e in tesi — le disuguaglianze fatalmente rinasceranno — ugualitario.
La Rivoluzione dalla Francia si espande in Europa e investe una prima volta l’Italia fra il 1796 e il 1799, quando assoggetta gli antichi Stati della Penisola e crea le cosiddette «Repubbliche sorelle», come la Cisalpina e la Napoletana; poi di nuovo, nei primi lustri dell’Ottocento, con la dittatura e con l’impero napoleonici, che rimaneggiano abbondantemente la geografia politica della Penisola e impongono ovunque codici di leggi e ordinamenti «alla francese», che ricalcano, cioè, i paradigmi dell’Ottantanove.
Il nuovo ethos importato dalla Francia, l’esperienza di uguaglianza, le forme, ancorché parziali, di unità vissute allora, lasciano radici profonde nelle élite e nei ceti borghesi italici durante la Restaurazione (1815-1848), quando la Penisola è posta sotto la tutela della Santa Alleanza austriaco-zarista-prussiana. Oltre a ciò, pur attuando riforme nell’amministrazione, l’assolutismo religioso e civile dei principi, da tempo indossato da dinastie di origine «estera», è stato ottusamente ripristinato — con poche eccezioni — tale e quale e si è reso così sempre più inviso a sudditi più sensibili, grazie alla cultura «romantica» del tempo, al motivo nazionale e che in più di un caso rimpiangono le libertà corporative e comunitarie distrutte dalla Rivoluzione.
Mentre pullulano le società segrete — specialmente la Carboneria, assai diffusa — che cospirano con programmi repubblicani, anti-clericali e unitari, già nel 1820-1821, sull’esempio della Spagna, membri delle società segrete ed ex quadri degli eserciti italici nostalgici delle glorie degli anni dell’Impero danno vita a moti eversivi e indipendentisti in Piemonte, in Sicilia e a Napoli, chiedendo la Costituzione. A Torino cercano d’indurre il principe Carlo Alberto di Savoia-Carignano (1798-1849) a muovere l’esercito e a «liberare» la Lombardia asburgica.
Come contraccolpo della Rivoluzione parigina del Luglio 1830, che sopprime il regime assolutistico e insedia il re costituzionale Luigi Filippo di Borbone-Orléans (1773-1850), nel 1830-1831, anche da noi vi sarà una ripresa di moti simile a quella del 1821. La sollevazione, che avrà epicentro nel Ducato di Modena, avrà maggior successo di quella di dieci anni prima, incendiando anche le Legazioni, la Romagna, l’Umbria e le Marche pontificie, creando un embrione di Stato libero, spingendo arditamente le sue truppe sino al Lazio, dove si scontrano con l’esercito pontificio. Ma, come quello precedente, sarà un moto facilmente represso, nel febbraio-marzo 1831, da una forte armata austriaca discesa dal Veneto. La Rivoluzione tornerà nelle catacombe, Giuseppe Garibaldi (1807-1882) affilerà la spada e Giuseppe Mazzini (1805-1872) preparerà nuove congiure, spedizioni fallimentari e insurrezioni velleitarie.
Sarà il ciclo di moti europei del 1847-1849 ad aprire una fase nuova nel processo risorgimentale. Il Regno di Sardegna, dove re Carlo Alberto ha concesso lo Statuto, questa volta scenderà in campo, insieme ad altri Stati della Penisola — incluso, per qualche mese, quello del Papa — e alle milizie repubblicane e anti-clericali garibaldine. Il suo esercito si scontra con quello austriaco a due riprese, conclusesi però con altrettante pesanti sconfitte, la prima, in luglio, a Custoza, nel Veronese, e, quella decisiva a Novara, il 23 marzo 1849. Carlo Alberto abdica a favore del figlio Vittorio Emanuele II (1820-1878). Alla notizia della guerra austro-piemontese scoppieranno rivolte popolari, questa volta con una certa partecipazione dei ceti operai, a Palermo, a Napoli, a Milano — liberata temporaneamente con le celebri Cinque Giornate (18-23 marzo 1848) e ansiosa di annettersi al regno sabaudo. Alcune delle città insorte —Brescia, Venezia, la stessa Roma —, auto-proclamatesi repubbliche, resisteranno alla repressione sino all’aprile del 1849, ma senza esito.
Negli anni 1849-1859 il metodo insurrezionale, nonostante un ventennio di fallimenti, sarà ancora ostinatamente perseguito dai mazziniani sino al tentato moto di Milano del 6 febbraio 1853 e alla disastrosa spedizione di Carlo Pisacane (1818-1857) a Sapri (Salerno).
Mentre il Regno sardo si prepara a una nuova guerra all’Austria, in esso emerge la figura del primo ministro Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), che si sforzerà di collocare l’Unità d’Italia nel contesto delle vicende europee del tempo e vi riuscirà, sia guadagnandosi il favore della potente Inghilterra inviando i bersaglieri sardi in Crimea nel 1855, sia con la sua spregiudicata diplomazia, che conquisterà alla causa italiana l’antico carbonaro Napoleone III (1808-1873). Mentre nelle campagne nulla si muove, nel popolo cittadino, esasperato dalla repressione, particolarmente dura in Lombardia, dei sovrani, cresce l’attesa di nuovi eventi.
Così, nell’aprile del 1859, truppe sarde e francesi — con l’ausilio di milizie garibaldine — invadono la Lombardia, sconfiggendo gli austriaci a Magenta (Milano) e poi ancora a Solferino e a San Martino nel Veronese. Nel frattempo, Cavour fomenta insurrezioni nei Ducati e in Toscana, dove gli unitari riescono a cacciare i sovrani e presto con i cosiddetti «plebisciti» dichiarano la volontà di annettere i rispettivi ducati al Regno sabaudo. Gli eserciti sardi dilagano allora nella Penisola occupando le ex Legazioni, l’Umbria e le Marche.
L’11 maggio 1860, un corpo di spedizione garibaldino sbarca in Sicilia protetto dalle navi da guerra inglesi. Le «camicie rosse», aiutate dalle milizie baronali — già mobilitate in vista di staccare l’isola da Napoli —, nonché da contingenti piemontesi affluiti sotto mentite spoglie, sconfiggono a più riprese i regi, superiori di numero e di addestramento, ma traditi dai loro generali, e liberano l’intera isola. I garibaldini sbarcano poi in Calabria e risalgono il Regno, non ostacolati dall’esercito borbonico, che tenta però, ai primi di ottobre, una estrema resistenza, per l’onore, sul fiume Volturno, ma alla fine cede. Garibaldi entra così in Napoli e poco dopo consegna il regno di Francesco II (1836-1894) — aggredito pur essendo neutrale e senza dichiarazione di guerra — nelle mani di re Vittorio sceso con le sue truppe sino a Teano (Caserta). La piazzaforte tirrenica di Gaeta (Latina), dove hanno trovato rifugio i sovrani, opporrà una eroica resistenza all’assedio piemontese, ma in febbraio deve capitolare, distrutta dai devastanti bombardamenti. La piazzaforte adriatica, Civitella del Tronto (Teramo), nonostante l’appoggio della guerriglia contadina, dovrà anch’essa ammainare, ultima a farlo, il vessillo borbonico alla fine di marzo.
L’Italia è dunque fatta, anche se restano fuori il Veneto, il Friuli, il Trentino e la Venezia Giulia ed è priva di Nizza e della Savoia «prezzo» del vitale appoggio francese. Il 18 marzo 1861 a Torino viene proclamato il Regno d’Italia, sotto la Corona dei Savoia. Il Parlamento e gli ordinamenti civili sono quelli sabaudi, estesi senza modifiche ai popoli degli Stati soppressi. L’esercito borbonico è dissolto, molti valorosi militi — inclusi 18mila pontifici di varie nazionalità — sono inviati in una dura prigionia al Nord, gli ufficiali «costituzionali» integrati nell’esercito e nella marina sardi, l’ordine pubblico sul territorio affidato all’arma dei Reali Carabinieri.
Lo Stato nazionale è pressoché completato dalla terza guerra anti-austriaca, svoltasi nel 1866 nel quadro del conflitto austro-prussiano, terminato con la sconfitta austriaca di Sadowa (Cechia) e la perdita del controllo asburgico sui principati germanici, che di lì a poco, con la Prussia, daranno vita al Secondo Reich tedesco. L’Italia, pur gravemente sconfitta a Custoza, il 24 giugno, e sul mare a Lissa (Croazia), il 20 luglio, per il gioco della diplomazia, riceverà in gentile cadeau da Napoleone III le province venete, più Udine e Pordenone.
Ultimo lembo di territorio ancora in mano a un sovrano «straniero», il Lazio e Roma. Negli anni 1861-1870 la reazione dei pontifici contro le incursioni delle bande garibaldine per occuparli è gagliarda, ma nulla possono fare, quando Napoleone III, sconfitto dai prussiani, nel 1870 ritira il suo presidio dalla Capitale e lascia il Papa pressoché indifeso davanti ai cannoni e ai bersaglieri del generale Raffaele Cadorna (1815-1897), che occupano il Lazio. Il 20 settembre di quell’anno, dopo una breve resistenza simbolica degli zuavi, in una breccia aperta a lato della Porta Pia i fanti piumati irrompono nelle vie dell’Urbe, il Papa si chiude nei palazzi vaticani e l’esercito e i corpi di volontari «papalini» si sciolgono.
Infine, come è noto, il Trentino e la Venezia Giulia raggiungono l’Italia solo dopo l’«inutile strage» del 1915-1918, costata ben 600mila vite di italiani, cioè cento volte tanto l’intero ciclo delle guerre risorgimentali[1]. Per inciso, la vittoria contro l’ex alleato rende italiano anche il Tirolo del Sud, ribattezzato Alto Adige, che resta separato dal territorio tirolese.
L’Italia unita — fallita la linea insurrezionale — è frutto di una guerra di conquista e lo Stato che ne esce, monarchico, parlamentare, «laico» e moderno, va a sovrapporsi a una società che per secoli è vissuta all’interno di sistemi politici ed economici diversi, forse obsoleti, ma che calzavano come un guanto sul corpo della nazione. Ed è animato da un disegno «ortopedico»-rieducativo, ispirato all’ideologia liberale, che, attraverso il lungo servizio militare in luoghi lontani, l’«educazione nazionale» obbligatoria, la costruzione di una miriade di «luoghi della memoria» — in una mitografia largamente alterata e mitizzata — e gli organi di opinione già «di massa», mira a «fare» anche gl’italiani.
Martedì, 26 novembre 2024
Per approfondire
— Patrick Keyes OʼClery, La rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, Ares, Milano 2000.
— Paolo Macry, Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, il Mulino, Bologna 2012.
— 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità? Atti del convegno omonimo, Roma, 12-2-2011, a cura di Francesco Pappalardo e Oscar Sanguinetti, Cantagalli, Siena 2011.
— Roberto Martucci, L’invenzione dell’Italia unita. 1855-1864, Sansoni, Firenze 1999.
[1] Cfr. G.S. [Gaetano Salvemini (1873-1957)], Le guerre del Risorgimento, in La Voce. Edizione politica, Firenze, anno I, n. 5, 7-7-1915, pp. 246-247 (p. 246).