di Pio Kinsky dal Borgo
Malá Strana, il quartiere di Praga che, al di là della Moldava, è dominato dalla collina di Hradčany e dal castello reale, ha il proprio centro nella piazza alla quale dà il nome, Malostranské náměstí. Su questa sbocca la via regia, ovvero il percorso seguito per l’incoronazione dei re di Boemia e degli imperatori del Sacro Romano Impero che, attraversando il fiume sul ponte Carlo, porta al castello e alla cattedrale di San Vito.
Lì, dal 1858, l’anno della sua morte, avvenuta a Milano il 5 gennaio, si ergeva il monumento bronzeo al maresciallo Josef Václav Radecký di Radec (1766-1858), realizzato mediante la fusione delle artiglierie catturate al nemico, per iniziativa di un’associazione patriottica boema dedita alla la promozione delle arti figurative e con il concorso di molti donatori, non ultimi tra questi l’imperatore Francesco Giuseppe (1830-1916), che inaugurò il monumento il 10 novembre di quell’anno, e l’imperatore emerito Ferdinando I (1793-1875), il quale a Praga trascorreva gli anni successivi all’abdicazione a favore del nipote. Ferdinando, quinto re di Boemia con questo nome, e Francesco Giuseppe furono però solo due dei ben cinque sovrani asburgici che Radetzky – secondo la grafia germanica imperante anche in Boemia – servì durante la lunghissima carriera militare, oltre a Giuseppe II (1741-1790), durante il regno del quale essa cominciò nel 1784, Leopoldo II (1747-1792), già Granduca di Toscana come Pietro Leopoldo dal 1765 al 1790 e Francesco II (1768-1835), primo imperatore d’Austria.
Era nato in terra boema, nei pressi di Sedlčany, e servì il Sacro Romano Impero fino alla fine formale di esso e ciò che ne rimase successivamente, aggiungendosi, in qualche modo, al novero dei personaggi che l’Europa seppe produrre per la propria difesa dalle aggressioni esterne e interne anche nella fase discendente della civiltà cristiana. È facile riferirsi ai più noti, che dell’Impero furono vere colonne portanti, come Raimondo Montecuccoli (1609-1680) ed Eugenio di Savoia (1663-1736), ma la categoria contò figure di rilievo anche nell’epoca di Radetzky, come il feldmaresciallo Karel Filip Schwarzenberg (1771-1820), il principale autore della sconfitta di Napoleone a Lipsia (1813).
Una carriera lunghissima dunque, che attraversò il vero e proprio cambiamento d’epoca segnato dalla Rivoluzione Francese (1789-1799) e dalla scia di sangue che la sua esportazione militare aveva prodotto nel continente con le guerre napoleoniche. Una carriera che ha subito il giudizio spesso impietoso di moltissimi storici e che in Italia ha patito la damnatio memoriae imposta dalla vulgata ideologica risorgimentale, che lo volle crudele repressore dei moti indipendentistici. Pochi hanno messo in risalto il consenso e l’affetto che il feldmaresciallo seppe conquistarsi fra le sue truppe e perfino fra i suoi amministrati come governatore del Lombardo-Veneto. Lasciando agli storici il compito di ricercare e auspicabilmente proclamare la verità, basterebbe la semplice ricognizione del suo operato all’epoca della cosiddetta Prima guerra d’Indipendenza (1848-1849) per notare come alla guerra di aggressione portata dal Piemonte l’ormai ottantaduenne feldmaresciallo seppe opporsi con intelligenza politica non inferiore alle sue riconosciute capacità militari, evitando di infierire sul Regno di Sardegna sconfitto e di destabilizzarne le fragili istituzioni messe alla prova dall’abdicazione di Carlo Alberto di Savoia (1798-1849) e dalla violenta pressione eversiva della minoranza rivoluzionaria.
Oggi nell’immaginario collettivo la figura di Radetzky rimane forse legata quasi solamente alla famosa Marcia che Johann Strauss padre compose nel 1848 per celebrarne la vittoria a Custoza. Ma perfino nella sua Boemia le cose sono andate se possibile anche peggio e il feldmaresciallo ha subito una sorta di totale disconoscimento che si palesa anzitutto nella grafia del cognome. Si è trattato del ripudio formale di una figura di concittadino che se non altro ha reso illustre la propria patria con indubbie qualità militari, quali hanno rivestito poche personalità della storia ceca, come Jan Žižka di Trocnov (1360-1424), il condottiero hussita tristemente famoso per le stragi e le distruzioni provocate dal proto-protestantesimo.
Ma il ripudio ha una genesi precisa: la fine dell’impero austro-ungarico nel 1918 e il rovesciamento della monarchia asburgica tenacemente perseguito e finalmente realizzato dalle forze rivoluzionarie nell’ottobre di quell’anno. Il monumento si salvò, almeno inizialmente, dalla demolizione, a differenza della colonna mariana posta sulla piazza del municipio della Città Vecchia, abbattuta dai manifestanti repubblicani il 3 novembre di quell’anno. La statua del maresciallo fu invece provvisoriamente coperta, ma nel maggio del 1919 venne smontata e ricoverata nel Lapidario del Museo Nazionale. Non è provato il coinvolgimento nella decisione di rimuovere il monumento dell’ambasciata italiana posta nelle vicinanze, precisamente nel palazzo Thun Hohenstein, destinato alla nuova rappresentanza diplomatica del Regno d’Italia. Al contrario, alcune fonti accennerebbero a una smentita da parte di quest’ultima. Ma anche quella rimozione rimane il simbolo di un ripudio ideologico della propria storia – che peraltro non fu comune a tutta la classe intellettuale della nuova Cecoslovacchia – promosso da una élite politica radicata nell’inter-nazionalismo massonico e rappresentata dalle massime figure del nuovo stato, Tomáš Garrigue Masaryk (1850-1937) ed Edvard Beneš (1884-1948).
Solo dopo la fine del regime socialcomunista, agli inizi dell’ultimo decennio del secolo XX, si instaurarono le condizioni propizie per una lettura meno ideologizzata della storia mitteleuropea e, in un convegno del 1992 tenutosi presso l’Istituto Storico Militare si levarono voci unanimi di esperti favorevoli al ripristino del monumento. Dieci anni fa un numeroso gruppo di interessati fondò lo Spolek Radecký Praha, l’associazione avente lo scopo prevalente di ricollocare la statua sulla piazza di Malá Strana e al sodalizio ha concesso il patrocinio l’arcivescovo e primate di Boemia, cardinale Dominik Duka. A fugare possibili sospetti di una sterile tendenza nostalgica basterebbe il motto che il sodalizio si è dato: «La tradizione è la custodia del fuoco, non il culto della cenere», una espressione, questa, del compositore e direttore d’orchestra austriaco Gustav Mahler (1860-1911).
Tra le condizioni favorevoli alla realizzazione dell’intento concorre il progetto urbanistico di riqualificazione della piazza, nella quale il gruppo bronzeo potrebbe trovare posto in una collocazione diversa, anche se non distante, da quella originaria.
Nessuno può ancora affermare che, come sta accadendo in queste settimane per la colonna mariana del Staroměstké Náměstí, l’opera potrà andare a buon fine nonostante un’opposizione culturale a tratti rabbiosa, ma un altro passo è stato certamente compiuto verso la riconciliazione di uno dei più antichi popoli europei con la propria storia.
Martedi, 28 aprile 2020