Janusz Kotański, Cristianità n. 400 (2019)
Testo, rivisto e annotato, dell’intervento tenuto da S.E. Janusz Kotański, ambasciatore della Repubblica di Polonia presso la Santa Sede, nel corso della prima sessione del convegno 30 anni senza Muro. L’Europa non nata, organizzato da Alleanza Cattolica a Roma, presso il Salone dei Piceni, il 16 novembre 2019. È stato mantenuto lo stile colloquiale della relazione. Gli inserti fra parentesi quadre e le note sono redazionali.
Comincerò con una citazione dall’enciclica Dives in misericordia di san Giovanni Paolo II (1978-2005): «Desidero attingere all’eterno ed insieme, per la sua semplicità e profondità, incomparabile linguaggio della rivelazione e della fede, per esprimere proprio con esso ancora una volta dinanzi a Dio ed agli uomini le grandi preoccupazioni del nostro tempo» (1).
Il prossimo anno festeggeremo il centesimo anniversario della nascita di Karol Wojtyła (1920-2005), che con il suo storico pontificato ha cambiato il volto della Chiesa e del mondo.
Più ci addentriamo nello studio delle opere del Papa polacco, più apprezziamo il suo essere stato un fenomeno: come sacerdote, mistico, filosofo, artista. La profondità del suo spirito e del suo intelletto rappresenta per noi, i suoi concittadini, e per la Chiesa una grande sfida intellettuale e morale. Tutta la sua eredità è come un palinsesto, che ancora attende di essere decifrato nella sua completezza.
Quel che rapisce e commuove nel caso del nostro grande Santo Padre è, fra le altre cose, il suo straordinario dono di comunicare con il mondo. Qui si manifestavano i lati più accattivanti del suo carattere: candore, dono di parlare bene delle cose più difficili, schiettezza, senso di umorismo, saper assumere il tono serio nei momenti che lo richiedevano. Infine il timbro della voce, caldo, ma forte. Una figlia di nostri amici, sentendolo una volta, ha chiesto: «Ma è Dio che parla?».
Dio sicuramente ha parlato attraverso san Giovanni Paolo II, come ha parlato attraverso i profeti nei secoli passati. Dell’aspetto profetico dell’insegnamento di Wojtyła, così evidente in questi tempi, si potrebbe parlare a lungo, magari in un’altra occasione.
Infine, saltava agli occhi il suo coraggio, l’amore e la fiducia nella saggezza degli interlocutori. Faccio solo un esempio. Nel 1987 ha detto ai giovani a Cracovia: «Mi ricordo che quando ero giovane come voi e leggevo il Vangelo, per me l’argomento più forte a favore della veridicità di ciò che stavo leggendo era che nel Vangelo non c’è nessuna segreta promessa, nessuna segreta promessa» (2). Ed egli stesso non le faceva.
Vorrei anche sottolineare che Wojtyła, laddove era possibile e adeguato al contesto, non evitava gli accenti di carattere personale. Non esitava a parlare di sé stesso. Non vi era però in questo nessuna traccia dell’insopportabile esibizionismo. Capiva che gli interlocutori si sentono in questo modo più a loro agio e possono meglio seguirlo.
E ricordo anche il suo speciale senso di umorismo, con una buona dose di autoironia, che non feriva mai nessuno. Forse alcuni in Polonia si annoiano nel sentir ricordare le sue battute sui millefoglie alla crema di Wadowice, dopo la maturità. Ma ricordiamoci che quando le diceva era qualcosa di nuovo e speciale. Possono fare quel tipo di battute solo persone che riescono a non prendersi troppo sul serio. E per questa leggerezza della parola era, è, e sarà amato.
È riuscito a far spalancare le porte del Vaticano, ad arrivare con la sua parola, scritta e detta, ai rappresentanti di tutte le religioni, culture e razze. Non si lasciava sedurre da una popolarità facile, da star, che è la trappola anche di molti uomini della Chiesa.
Desiderava che i suoi incontri fossero accompagnati da una scintilla di verità — veritatis splendor — e che fossero una fonte di scambio di pensieri e esperienze, una ricchezza.
Si sa che i viaggi apostolici sono stati un tratto caratteristico del quasi ventisettennale pontificato di Giovanni Paolo II. Essi sono anche stati un grande banco di prova di come venivano recepiti i suoi messaggi dagli interlocutori. E che effetto facevano! Sappiamo che sono stati un successo e che le sue parole raccoglievano buoni frutti. Un ottimo esempio di questo successo è offerto dal suo primo viaggio apostolico, in Messico, intrapreso solo tre mesi dopo il conclave, nel gennaio del 1979, dove non ha temuto di affrontare il tema della teologia della liberazione, un argomento molto difficile per la Chiesa, facendolo in modo eccellente.
Straordinario è stato anche il primo pellegrinaggio nella sua patria nel 1979, che ha avviato il processo di cambiamenti storici in Europa. È iniziata allora la rivoluzione senza spargimento di sangue sul Vecchio Continente. Descrivendo l’influenza del primo pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Polonia George Weigel sottolinea: «Contava anche come si esprimeva. Parlava un bellissimo melodioso polacco, completamente differente dalla parlata ingessata della Polonia comunista».
Il desiderio dell’incontro e di portare la buona novella a tutti diventò per Lui un imperativo sin da subito: «Voglio andare da tutti, da tutti coloro che pregano, dal beduino nella steppa, dalla carmelitana o dal monaco cistercense nei loro conventi, dal malato al suo letto di sofferenza, dall’uomo attivo nel pieno della sua vita, dagli oppressi, dagli umiliati…dappertutto…vorrei oltrepassare la soglia di tutte le case».
Voleva arrivare a tutti e, rivolgendosi alle folle, riusciva sempre a stabilire il contatto con «ciascuno separatamente».
E indipendentemente se si trattava dell’omelia pronunciata agli abitanti di Puebla, dell’intervento nella sede delle Nazioni Unite, della lettera a Leonid Breżniew [1906-1982] o ai rappresentanti del mondo della cultura, le sue parole commuovevano, non lasciavano mai indifferenti e obbligavano alla riflessione.
Seguiva senza dubbio le orme di San Paolo, «un pellegrino instancabile» sul quale ha scritto: «quando si legge quel che ha scritto a varie comunità, si avverte che è stato da loro, che conosceva persone in quei luoghi e che conosceva i loro problemi. È una cosa importante in qualunque tempo, anche oggi». Non è vero che queste parole potrebbero riferirsi anche al loro autore? Anche Giovanni Paolo II è diventato apostolo delle nazioni!
È impossibile tenere conto di quante catechesi, discorsi, improvvisate omelie — e aveva capacità di improvvisare senza problemi, senza mai tediare l’interlocutore ripetendo le stesse battute —, quante pagine ha riempito. Non senza motivo il cardinale Joseph Ratzinger nella bellissima litania al beato Giovanni Paolo II chiedeva di rivolgergli le preghiere, in quanto «esempio di laboriosità» e «insegnante della preghiera». Era convincente e autentico perché trattava gli argomenti sui quali aveva riflettuto a fondo e per i quali aveva anche molto pregato. L’aveva notato già negli anni 1960 il cardinale — e presto beato — Stefan Wyszyński [1901-1981].
Un eccellente esempio è costituto dall’enciclica Redemptor hominis. Se consideriamo il carattere del documento che, pubblicato nel marzo del 1979 — e quindi pochi mesi dopo l’inizio del pontificato —, ne delinea in qualche modo il programma, capiremo tutto il genio di Giovanni Paolo II.
Perché, come ricordano testimoni diretti della nascita di quel testo, Giovanni Paolo II «ce l’aveva in testa» e la mise per iscritto un po’ alla volta, nonostante i numerosi impegni quotidiani.
Vorrei fare un riferimento al libro Dono e mistero, dove leggiamo queste importanti affermazioni: «La parola, prima di essere pronunciata sul palcoscenico, vive nella storia dell’uomo come dimensione fondamentale della sua esperienza spirituale. In ultima analisi, essa rimanda all’imperscrutabile mistero di Dio stesso» (3).
Tutto quel che abbiamo ottenuto da Giovanni Paolo II era l’espressione della sua vita spirituale, insondabile, sempre rivolta verso Dio. Proprio la parola/logos sembra essere un segno iconico di Giovanni Paolo II, grande evangelizzatore, ovvero la dimensione mistica della potenza della parola e il dono soprannaturale di annunciarla in modo profetico.
Essendo un umanista e un artista, egli ha sempre posto l’accento sull’importanza della cultura, in quanto elemento indispensabile per una piena dimensione della vita di ogni uomo e collante che unisce la nazione.
La lingua come strumento di base nella creazione culturale ha avuto per lui un valore fondamentale: tramite la lingua, «l’uomo esprime la verità sul mondo e su se stesso e partecipa agli altri il frutto della sua ricerca nei vari campi del sapere. Si realizza così una comunicazione tra soggetti che serve ad una più profonda conoscenza della verità e, mediante ciò, all’approfondimento e al consolidamento delle rispettive identità» (4).
Nel libro Dono e mistero Giovanni Paolo II ricorda che durante il primo anno degli studi di lingua e letteratura polacca attirò la sua attenzione lo studio della lingua. «Questo mi introdusse in orizzonti completamente nuovi, per non dire nel mistero stesso della parola» (5).
La Provvidenza ha preparato bene Karol Wojtyła al ruolo che avrebbe svolto in futuro. E ogni nuova esperienza era un nuovo seme che avrebbe portato a tempo debito i suoi frutti. Nell’ambito linguistico lo è stato lo studio della filologia polacca e l’esperienza del teatro di Mieczysław Kotlarczyk [1908-1978], ovvero avere a che fare con la pura e nobile parola, con la grande letteratura. Lo è stata anche la propria produzione artistica: misurarsi con le parole, esprimere i pensieri più profondi con i poemi e componimenti teatrali. Lo è stato infine anche l’incontro con i testi dei mistici: san Giovanni della Croce [1542-1591], santa Teresa d’Avila [1515-1582], sentirsi rapiti dal Trattato della vera devozione alla santa Maria Vergine di san Luigi Maria Grignion de Montfort [1673-1716].
Da un altro canto c’era l’esperienza della pastorale accademica di Cracovia, ovvero i corsi per i giovani e l’apostolato per i laici. Il contatto diretto con le persone di diverse età, estrazione sociale, educazione e capacità intellettive. Dopo vi si aggiungeranno gli incontri interdisciplinari, talmente importanti che verranno «importati» a Castel Gandolfo.
Grazie all’ampiezza dei contatti conosceva sempre nuove persone, le ascoltava, apprendeva i loro problemi, dialogava in modo incessante. E così, scriveva: «la mia azione pastorale si è come moltiplicata, superando barriere e penetrando in ambienti altrimenti difficilmente raggiungibili» (6).
Non stupisce quindi che questa ricca esperienza unita all’atteggiamento filosofico — un particolare interessamento al sistema fenomenologico di Max Scheler [1874-1928] — ha dato concreti «frutti pastorali» (7).
In Dono e mistero Karol Wojtyła fa una sintesi di questa sfera del suo servizio pastorale: «Dopo tanti anni di ministero della Parola, che specie da Papa mi hanno visto pellegrino in tutti gli angoli del mondo, non posso fare a meno di dedicare ancora qualche considerazione a questa dimensione della vita sacerdotale. Una dimensione esigente, giacché gli uomini di oggi si aspettano dal sacerdote, prima che la parola “annunciata”, la parola “vissuta”. Il presbitero deve “vivere della Parola”. Al tempo stesso, però, egli si sforzerà di essere anche preparato intellettualmente per conoscerla a fondo ed annunciarla efficacemente» (8).
Contava non solo quel che diceva, ma anche come lo diceva. Non solo quel che scriveva, ma come lo scriveva. E tra il contenuto e la forma c’era una totale armonia di cui facevano parte la verità e l’autenticità, così come il costante riferimento alla dimensione trascendente.
La leggerezza e la disinvoltura con la quale citava vari autori e opere letterarie era dovuta alla sua profonda conoscenza di letteratura. Spesso gli piaceva citare i poeti polacchi, soprattutto [Cyprian Kamil] Norwid [1821-1883], ma anche [Julius] Słowacki [1809-1849], [Adam] Mickiewicz [1798-1855], [Jan] Kasprowicz [1860-1926], [Jerzy] Liebert [1904-1931] o tra i poeti suoi contemporanei, padre Jan Twardowski [1915-2006]. E lo sapeva fare bene! Una volta, sotto il Castello di Wawel a Cracovia ha dato questa interpretazione di Słowacki: «Il tuo smarrito a Roma! Uno dalla Polonia, di Cracovia, si è perso ed è a Roma […]. Vorrei scusarmi con il vate nazionale per aver distorto il suo pensiero. Ora mi vado a scusare con lui nella cattedrale di Wawel». Tipico di Wojtyła!
Bisogna però aggiungere che i riferimenti letterari non erano in Giovanni Paolo II un semplice espediente per vivacizzare il testo o il discorso, ma un elemento inerente al pensiero. Amava così tanto la poesia e la narrativa che da giovane aveva studiato il francese per conto proprio per poter leggere in originale. Così come anche lo spagnolo per poter leggere i testi del Dottore Mistico [cioè san Giovanni della Croce].
Aggiungo solo, visto che siamo in tema di lingue straniere, che tre settimane dopo l’apertura del Muro di Berlino, è venuto in visita in Polonia Michail Sergeevič Gorbačëv, il primo e, allo stesso tempo, l’ultimo capo dell’Unione Sovietica ricevuto in udienza dal capo della Chiesa cattolica. Come ricorda il cardinale Jean-Louis Tauran [1943-2018], il Papa si preparò a quell’incontro leggendo per un mese il Nuovo Testamento in russo.
Era capace di commuovere le persone semplici e commuoveva anche gli artisti. Il migliore esempio di ciò è la famosa Lettera agli artisti del 4 aprile 1999, della quale Czesław Miłosz [1911-2004], che non si commuoveva facilmente ha scritto: «La lettera di Giovanni Paolo II agli artisti è un gesto sorprendente, che rapisce, meraviglioso» (9).
Resta ancora una questione fondamentale: il modo di Giovanni Paolo II di comunicare verbalmente con il mondo. Penso che a volte si ponga troppo accento sul fatto che Karol Wojtyła è stato nel passato un attore e che questa esperienza l’abbia aiutato nei contatti con il mondo. Magari può essere vero fino a un certo punto, ma contava soprattutto la personalità, lo spessore spirituale e la forza delle sue parole.
Le emozioni che esternava erano l’espressione naturale di vivere i contenuti che trasmetteva, l’emanazione del grado di coinvolgimento nei problemi di questo mondo. Non erano degli espedienti «da attore».
Lo abbiamo potuto costatare con l’affievolirsi delle forze di Giovanni Paolo II, quando anche la sua voce non era più forte come quella di una campana. Ancora più concentrati ascoltavamo e vivevamo quel che ci voleva trasmettere con così tanta fatica.
Personalmente non scorderò mai la sua voce — decisa e pacata — con cui a Zaspa, a Danzica, parlava di Solidarność e di solidarietà. E il suo appello allo Spirito Santo sulla Piazza della Vittoria nel 1979 e le parole amare che ha quasi gridato a Kielce, in difesa della vita dei bambini non nati nel 1991: «È mia madre, questa Patria! Sono i miei fratelli e sorelle! Lo dovete capire tutti voi che con leggerezza trattate questi argomenti, dovete capire che non potete essere indifferenti a queste cose, non possono non ferirvi! Dovrebbero ferire anche a voi!» (10).
Richiederebbe una riflessione a parte il tema dei documenti ufficiali del Papa perché sono a mio parere la quintessenza della personalità e del genio di Giovanni Paolo II. Sorvolerò sulla loro rilevanza dottrinale e l’importanza degli argomenti affrontati.
Perché? Perché stupiscono per la loro profondità, erudizione, disciplina quasi medioevale e, allo stesso tempo, per l’impeto rinascimentale, per l’ampio contesto degli argomenti trattati, per le frasi poetiche, e così via.
Vorrei concludere con una citazione tratta dalla lettera apostolica in occasione del quattrocentesimo anniversario della morte di San Giovanni della Croce: «Il testimone annuncia ciò che ha visto e udito, ciò che ha contemplato, a imitazione dei profeti e degli apostoli» (11).
Non è vero che questa frase rispecchia a pieno san Giovanni Paolo II?
Note:
(1) Giovanni Paolo II, Enciclica «Dives in misericordia» sulla misericordia divina,del 30-11-1980, n. 2. (2) (2) Idem, Discorso ai giovani di Cracovia, del 10-6-1987.
(3) Idem, Dono e mistero. Nel 50° del mio sacerdozio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996. Il testo è disponibile all’indirizzo web <http://www.vatican.va/archive/books/gift_mystery/documents/archive_gift-mystery_book_1996_it.html> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 27 dicembre 2019).
(4) Idem, Memoria e identità, trad. it., Rizzoli, Milano 2005, p. 96.
(5) Idem, Dono e mistero. Nel 50° del mio sacerdozio, cit.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Czesław Miłosz, List i jego odbiorcy, inMagazyn Kulturalny Tygodnika Powszechnego, n. 3-4 (35-36) del 30-5-1999. Una traduzione in lingua inglese dell’articolo si trova all’indirizzo web <http://www.jp2love.com/jp2-and-artists-more,2,John-Paul-II-Letter-to-the-artists-by-Czeslaw-Milosz-.html>.
(10) Idem, Omelia pronunciata a Kielce del 3-6-1991. Il testo in polacco è disponibile nel sito web <https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/pl/homilies/1991/documents/hf_jp-ii_hom_19910603_messa-maslow.html>.
(11) Idem, Lettera apostolica «Maestro della fede» in occasione del IV Centenario della morte di San Giovanni della Croce, Dottore della Chiesa, del 14-12-1990, n. 8.