Brevi riflessioni per non cadere nella tentazione dell’astensione.
di Domenico Airoma
Le elezioni politiche – usava dire il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni – sono un’indagine demoscopica particolarmente utile, specialmente per chi non può permettersene una a pagamento, soprattutto perché censisce orientamenti manifesti e non quelli supposti dai ricercatori. Tale giudizio, lungi dallo sminuire la portata delle consultazioni elettorali, contribuisce, tuttavia, a dare il giusto peso al voto e alla politica partitica: non c’è da attendersi da quest’ultima straordinari rivolgimenti epocali; questi conseguono solo ad una profonda e tenace opera di riforma personale e sociale, che si colloca sul piano della pre-politica, che già Thomas Stearns Eliot indicava come terreno privilegiato di azione in vista della ricostruzione di una nuova Cristianità.
Fatta tale indispensabile premessa, non può non rilevarsi che vi è un mondo, quello che si riconosce culturalmente nel relativismo di massa, che attribuisce alle prossime consultazioni un rilievo decisivo; addirittura, l’ex segretario nazionale del Partito Democratico (PD), Piero Fassino, vede nel voto di settembre «un nuovo ‘48»: «la scelta non sarà fra due cartelli elettorali, bensì fra due concezioni opposte della politica e del futuro del nostro Paese. Di qui chi vuole stare in Europa, di là chi ne vuole uscire. Di qui chi vuole una società aperta e giusta, di là chi predica muri e discriminazioni» (La Nazione, 23 luglio). Insomma, come nel 1948 vi fu lo scontro fra chi intendeva portare l’Italia nel blocco socialcomunista e chi preferiva l’Occidente, pur con tutti i suoi difetti, oggi viene riproposto uno scenario analogo; e la drammatizzazione, si badi, viene evocata proprio da coloro che sono alla guida del processo di demolizione di quel che rimane della vecchia Italia per farne una nuova, del tutto in linea con i parametri, soprattutto culturali, di Bruxelles. «Fatta l’Unione Europea(non l’Europa!), bisogna fare gli euro-unitari», si potrebbe dire parafrasando una nota – e direi, famigerata – espressione di altri uomini politici di altre epoche, anche loro esperti in unificazioni forzate poco o punto rispettose della volontà popolare. A disambiguare il linguaggio politicamente corretto di Fassino ci ha pensato una nota esponente del medesimo fronte anti-popolare. Monica Cirinnà, distintasi per aver dato sbocco legislativo alla mistica dei cosiddetti nuovi diritti, non ha esitato ad esporre, apertis verbis, le proprie preoccupazioni per lo scioglimento anticipato delle Camere e per un possibile cambio di maggioranza: «proprio mentre alcuni diritti stavano per trovare la strada del riconoscimento legale, che fosse per forza (sic!) o per buona voglia».
Quanto, poi, allo scenario internazionale, iniziano a levarsi avvertimenti terroristici che disegnano futuri cupi per un’Italia nelle mani di un governo non più succursale di Bruxelles. Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, non usa mezzi termini, dapprima utilizzando il classico spauracchio dello spread («stavolta potrebbe accadere di nuovo, con l’unica differenza che stavolta la coalizione di destra potrebbe essere ancora più brutta»), poi inserendo l’evoluzione del quadro politico italiano in un contesto più ampio di crisi delle democrazie occidentali, tentate da regimi autoritari: «il problema è che in un momento in cui l’Europa è già sotto una grande pressione (…), una delle nazioni maggiori del continente rischia di sprofondare. Non è certamente la prospettiva di cui abbiamo bisogno. D’altra parte, quanto è diversa l’Italia dal resto del mondo? La crisi italiana (…) è incentrata interamente sull’ascesa delle forze antidemocratiche, un fenomeno che sta accadendo in tutto l’Occidente» (La Stampa, 28 luglio).
Prego il cortese lettore di prendere un primo appunto: il senso del prossimo voto sembra, dunque, di qualche rilievo, almeno a giudicare dalle parole di chi è da ascriversi fra i corresponsabili della crisi, non solo economica, che stiamo vivendo: si tratta di stabilire se andare avanti in questo processo oppure, se non arrestarlo, quanto meno ostacolarlo.
Orbene, è vero che le decisioni importanti, in campo economico-finanziario, sono oramai prese in ambito sovranazionale, dove dominano sempre più i gabinetti composti da esperti e tecnici e la volontà popolare è percepita come un fastidioso dettaglio. Ma è altrettanto vero che non è del tutto indifferente l’identità e la mentalità di chi governa i popoli europei. Se è indubbio, infatti, che i capi dei governi nazionali vengono scelti in base al loro pedigree “eurounitario”, come garanzia di affidabilità e di puntuale esecuzione delle direttive, poter finalmente contare su qualcuno che intenda spendere quel poco che conta nella difesa degli interessi nazionali non pare roba da poco. In altri e più chiari termini: non è la stessa cosa se a capo del campo di concentramento – e il paragone non sembri esagerato, se l’obiettivo verso cui si devono concentrare le forze è la stessa concezione dell’uomo – siede qualcuno che provi a difendere i concentrandi, almeno nel riconoscere loro spazi di autonomia, economica ed esistenziale.
Prego, allora, il paziente lettore di segnare un ulteriore appunto: il senso del prossimo voto sta anche nella difesa di quel che rimane delle libertà, cosa di non secondaria importanza, soprattutto per chi è portatore di una visione dell’uomo e della società del tutto antitetiche rispetto ai dettami cari alla dittatura relativistica euro-unitaria. Senza libertà, non si può né testimoniare, né predicare un’antropologia diversa.
Infine, un caveat.
Già si è detto, in esordio, della radicale fallacia di ogni prospettiva che attribuisca alla politica una funzione salvifica. La recente contingenza pandemica ha dimostrato quanto sia pericolosa una politica che faccia della salute l’unico orizzonte di salvezza per l’uomo.
Rimane, tuttavia, il senso di un vuoto: quello di uomini politici in grado di porsi come guide autorevoli e leali servitori dei popoli. Sul punto, val la pena richiamare il monito pronunciato da san Giovanni Paolo II nel lontano 1984: «i capi non si improvvisano, soprattutto in epoca di crisi. Trascurare il compito di preparare nei tempi lunghi e con severità di impegno gli uomini che dovranno risolverla, significa abbandonare alla deriva il corso delle vicende storiche».
Chi, come Alleanza Cattolica, ha trovato in questa opera pre-politica la propria vocazione, riconosciuta dalla Chiesa, non smetterà di impegnarsi, sia nell’impedire che la deriva continui, sia, al contempo, nel formare coloro che saranno chiamati a guidare la risalita, anche andando contro corrente.
Si tratta, per ritornare al senso del voto e per provare a colmare un vuoto, come recitava un manifesto affisso da Alleanza Cattolica in occasione di altra importante competizione elettorale, di votare anti-comunista, ma di non fermarsi lì.
Domenica, 7 agosto 2022