Di Eugenio Capozzi da l’Occidentale del 07/07/2019. Foto da articolo.
La vicenda della nave Sea Watch e il suo prevedibile seguito (l’afflusso nuovamente crescente delle imbarcazioni delle ong verso le acque territoriali italiane) ci forniscono alcune importanti indicazioni sulle caratteristiche del fenomeno dell’immigrazione clandestina dal Mediterraneo verso il nostro paese, sui suoi possibili sviluppi e sui risultati della linea politica tenuta in merito dal ministro degli Interni Salvini.
Il primo elemento emerso in maniera ormai inequivocabile è il fatto che le Ong in giro per il Mediterraneo per raccogliere “naufraghi” (si legga: emigrati dal Nord Africa diretti clandestinamente in Europa) agiscono in stretto coordinamento tra di loro in vista di obiettivi comuni. Questi obiettivi sono sostanzialmente due. In primo luogo, garantire la continuità del business degli immigrati, fungendo da anello di collegamento tra i trafficanti africani di esseri umani e il sistema dell’”accoglienza” (onlus, organizzazioni assitenziali e tutto il loro “indotto”) sul suolo europeo. In secondo luogo (ma i due aspetti sono strettamente connessi) indebolire e delegittimare il governo italiano, e in particolare Salvini, ponendolo in conflitto con altre istituzioni nazionali ed internazionali.
Che le ondate di partenze dalle coste libiche rappresentino un vero e proprio mercato, alimentato dalle somme pagate dai migranti e dai fondi statali destinati alla gestione dei sedicenti “richiedenti asilo” nei paesi di approdo, è un dato evidente per chiunque non sia accecato dal sentimentalismo terzomondista/multiculturalista. Ma i cospicui finanziamenti che affluiscono alle ong impegnate a fare da traghettatrici non provengono soltanto da benefattori spinti dall’ideologia o da organizzazioni interessate al sistema dell’”accoglienza”, bensì anche da grandi gruppi economico-finanziari, il cui obiettivo è soprattutto quello di assicurare l’arrivo in Europa di una cospicua quantità di forza lavoro a buon mercato, da occupare in condizioni di semi-legalità e bassissime garanzie, abbassando il livello di retribuzione e pretese dei lavoratori autoctoni.
L’ideologia umanitaria e solidarista di cui si fanno scudo le ong e i loro sponsor politici è un tenue velo che – “falsa coscienza” come tutte le ideologie nell’accezione marxiana – copre a malapena questo potente blocco di interessi. In tal senso è assolutamente vitale, per tutti i sostenitori del business migratorio, che rimanga il più possibie aperto il canale italiano per l’arrivo in Europa, e sia il più possibile invertita la linea di tendenza alla chiusura dei porti attuata prima da Minniti, poi da Salvini.
Ciò perché chiaramente l’Italia appare tuttora come l’anello debole della catena rispetto agli altri Stati europei affacciati sul Mediterraneo (in primo luogo Spagna e Francia) che hanno fatto e tuttora fanno argine (al di là delle dichiarazioni ufficiali) molto più decisamente alla pressione degli sbarchi.
Che la strategia sia questa, e che si tratti di una strategia strettamente coordinata, è dimostrato dalla determinazione dei “traghettatori” umanitari a dirigersi unicamente verso le coste italiane, scartando qualsiasi altra possibilità alternativa, per sbarcare il loro “carico”. Come pure dalla loro precisa volontà di sfidare le leggi e l’ordinamento del nostro paese per dimostrare di poter scavalcare tutti gli ostacoli posti alla loro azione. In particolare, gli esponenti di queste associazioni mostrano di conoscere bene le contraddizioni che possono crearsi tra provvedimenti governativi e legislazione italiana da una parte, pronunciamenti della magistratura italiana e delle istituzioni europee dall’altra. Quelle contraddizioni costituiscono lo scenario ideale perché si riapra pienamente la via italiana al “mercato” al cui servizio essi operano.
Da questo punto di vista, l’ordinanza della Gip Vella sul caso della Sea Watch 3 rappresenta esattamente la dimostrazione che la linea scelta dalle ong è per ora vincente, o quanto meno ha ampie possibilità di affermarsi. Lo spazio giuridico aperto da quella ordinanza – che ha classificato l’azione della “capitana” Rackete, al dilà delle violazioni di norme vigenti, come dettata da un nobile scopo e da uno stato di necessità – è infatti un precedente che giustifica a priori un numero indeterminato di possibili casi simili, mettendo sostanzialmente il governo, stanti le norme attuali, nell’impossibilità di opporre un argine efficace a gran parte degli sbarchi.
E’ quindi chiaro come le proclamazioni di Salvini, le sue filippiche e intimazioni, di per sé non servano a molto, e mostrino anzi alla lunga, nella situazione attuale, la sua sostanziale impotenza. Nonostante il braccio di ferro ingaggiato per la sua approvazione, il decreto sicurezza bis appare insomma ancora di gran lunga insufficiente a contrastare efficacemente il fenomeno. Fenomeno che potrebbe arrestarsi soltanto con misure ben più decise (la sistematica requisizione delle navi in mare da parte delle forze dell’ordine o della Marina militare appena fossero violate le acque territoriali, il rimpatrio in Libia degli immigrati senza ingresso nel territorio italiano). Ma si tratta di misure che presupporrebbero una unità di azione tra ministero dell’Interno e della Difesa, e un governo compatto sulla linea salviniana. Cosa, per il momento, piuttosto improbabile.
La pressione delle ong quindi sembra considerare, e incoraggiare, la possibilità che su questo tema l’esecutivo si spacchi, fino a provocare una crisi di governo, con Salvini che invoca elezioni anticipate ed un mandato pieno per combattere finalmente senza mani legate (almeno nella maggioranza) la sua guerra per la difesa dei confini. Il che fa pensare che le forze che spingono in questo senso siano ragionevolmente convinte che tale scenario non abbia molte possibilità di avverarsi. Infatti, come è noto, la “finestra di opportunità” per le elezioni anticipate è già praticamente quasi chiusa. E successivamente per quasi un anno il leader leghista sarà costretto a rimanere nel governo, accettando le mediazioni con i 5 Stelle, con gli organismi Ue e con i governi degli altri stati, e subendo le decisioni chiaramente ostili della magistratura sul tema.
L’unico fattore del quale la strategia posta in opera dai vari soggetti coinvolti nella “filiera” dell’immigrazione clandestina sembra non tenere conto è l’esasperazione crescente dell’opinione pubblica italiana di fronte al fenomeno, e in particolare alla prospettiva di un ritorno agli sbarchi massicci di centinaia di migliaia di persone l’anno, come fino al 2017.
Un’esasperazione che ad ogni episodio aumenta, traducendosi in una tensione sociale e politica sempre più difficilmente contenibile, e in una continua ascesa del consenso alla Lega (e in misura minore a Fratelli d’Italia). Ma anche questo effetto forse è stato in realtà preso in considerazione dai soggetti che hanno promosso la strategia di attacco coordinato alle frontiere e ai porti italiani. Probabilmente perché essi ritengono che anche un’ulteriore crescita delle intenzioni di voto in tal senso non potrà tradursi appunto, almeno a breve, in un mandato popolare a Salvini e a Giorgia Meloni in mancanza di consultazioni anticipate. E che dunque una dimostrazione pratica del fallimento della strategia anti-sbarchi del ministro degli Interni potrà tramutare questa massiccia riserva di consensi in un boomerang, generando una generale caduta di fiducia degli elettori nella leadership salviniana.
Rimane soltanto da farsi una domanda: perché la sinistra italiana, e il Pd in particolare, sposa in toto la linea dell’”accoglienza” indiscriminata – ora abbracciata, sconfessando Minniti, persino da Matteo Renzi, che sul tema era stato in passato molto più prudente) quando è cosciente dell’assoluta impopolarità di simili posizioni nella società italiana e persino nel suo elettorato?
Questa sarebbe una questione a cui dedicare una riflessione a parte. Una risposta indicativa, al di là degli interesse di parte in ballo (il legame tra molte cooperative dell’”accoglienza” e gli enti locali ancora amministrati da quel partito) può essere il fatto che le sinistre europee di radice socialista hanno ormai sostanzialmente perso la loro ideologia di riferimento, e l’unica identità che attualmente li connota è il globalismo “dirittista”, multiculturalista, politicamente corretto.
Esse sono ormai rassegnate ad essere minoranza politica e sociale, espressione di élites che gli immigrati illegali li vedono solo “in cartolina” e hanno di essi una visione idealizzata, ma piuttosto che tentare l’impresa ardua di recuperare consensi presso le altre parti dell’opinione pubblica preferiscono tenersi stretto il loro attuale “zoccolo duro”: non più quello operaio di un tempo, bensì quello dei ceti metropolitani cosmopoliti con l’appendice di fasce di impiego pubblico medio-alto di età avanzata. Sperando di diventare prima o poi, con la presenza sempre più massiccia di immigrati regolarizzati in un modo o nell’altro, il loro riferimento politico primario. Si tratta di un calcolo molto incerto. Ma al momento considerato da quella classe politica, per la cultura prevalente in essa, senza alternative.