Maurizio Dente, Cristianità n. 122-123 (1985)
Informazioni dirette e accurate sul tentativo sempre più scoperto di costruire in Nicaragua un primo modello di «teocrazia della liberazione».
Dietro la maschera «cristiana»
Il «socialismo reale» sandinista
«Per la prima volta ha dato le cifre dei consiglieri militari stranieri nel suo Paese: “Approssimativamente” settecento dopo il rientro a Cuba di un centinaio; vi sono poi altrettanti tecnici ed esperti cubani nel campo sanitario e della produzione» (1). In questi termini distaccati, cosciente di quella regola della «disinformazione» (2) secondo cui spesso la menzogna risulta tanto più credibile quanto più è grande, un redattore di Rinascita, il settimanale ideologico del Partito Comunista Italiano, ha registrato, tra altre, anche questa dichiarazione del presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, resa durante il viaggio che lo ha di recente portato in Europa per cercarvi nuovi aiuti economici e politici (3). Naturalmente la cifra relativa ai «consiglieri» militari indicata da Daniel Ortega è risibile: secondo l’associazione S.O.S. Nicaragua (4) «almeno 7500 cubani sono presenti nel paese» (5), mentre, secondo il dipartimento di Stato e quello della Difesa degli Stati Uniti, la presenza dei cubani è da calcolare in «circa 9 mila» (6). Di questi, 3 mila sono militari e poliziotti impegnati nell’esercito, nella polizia e nei servizi segreti, mentre gli altri sono impiegati in settori diversi, compreso quello della agitazione politica. Comunque, tutti hanno ricevuto un addestramento militare e pertanto, in caso di necessità, potrebbero essere mobilitati, come è accaduto a Grenada in una situazione che presenta rilevanti analogie con quella del Nicaragua. Ai cubani, poi, bisogna aggiungere i «consiglieri» militari e civili sovietici, bulgari, cecoslovacchi, libici, tedesco-orientali, tutti operanti nel paese, nonchè le Brigate Internazionali costituite da elementi dell’OLP, la Organizzazione per la Liberazione della Palestina, dei montonero e dei tupamaro sudamericani, e così via. L’«insospettabile» settimanale di sinistra madrileno Cambio 16 stimava in cento gli esponenti della sola ETA, la organizzazione terroristica basca, presenti in Nicaragua (7). Ma il silenzio e la minimizzazione relativamente alla massiccia presenza rivoluzionaria che fa da supporto al Nicaragua «sandinista» (8) sono soltanto alcuni aspetti di un’opera di «disinformazione» che ha toccato i livelli più alti in occasione delle elezioni del 4 novembre 1984 (9).
Bayardo Arce, uno dei membri della giunta di coordinamento sandinista, aveva spiegato chiaramente, in una conferenza tenuta ai dirigenti del Partito Socialista Nicaraguense – una piccola formazione filosovietica precedente la creazione del FSLN -, la loro utilità e la loro possibile utilizzazione: «Il processo elettorale che abbiamo iscritto nel programma della Rivoluzione era e resta uno strumento di lotta nello scontro con i nordamericani. Sottraiamo alla politica yankee uno degli argomenti di giustificazione della aggressione contro il Nicaragua […] La democrazia borghese possiede questo strumento, che noi possiamo manipolare, da cui possiamo trarre elementi per la costruzione del socialismo integrale in Nicaragua […] Dobbiamo utilizzare queste elezioni, fare votare in modo plebiscitario il sandinismo, la penetrazione sovietico-cubana, il totalitarismo, il marxismo-leninismo, ecc. […] Vedrete che allora avremo legittimato tutto il processo rivoluzionario, le nazionalizzazioni, la riforma agraria, e persino la internazionalizzazione del conflitto salvadoregno!» (10).
Sulle modalità di svolgimento di queste elezioni «libere» – Honduras, Guatemala, El Salvador, Costarica, Venezuela e Colombia hanno rifiutato di inviare propri rappresentanti, anche se gli ultimi due paesi sono membri del gruppo di mediazione detto Contadora – può essere sufficiente riferire che i certificati elettorali venivano rilasciati in bianco, già timbrati dal Consejo Supremo Electoral. Nomi, date, indirizzi, impronte digitali venivano aggiunti al momento del voto. Non occorrevano altri documenti né fotografia; e, inoltre, i certificati dovevano essere depositati per almeno quindici giorni dopo il voto sempre presso il ricordato consiglio supremo elettorale. Quanto alle urne, secondo la testimonianza del giornalista francese Hugues Kéraly, esse non erano sigillate, ma «chiuse a malapena con nastro adesivo» (11).
Quanto alla partecipazione al voto, indispensabile per potere attribuire un minimo di credibilità alle elezioni, essa va valutata tenendo conto di quanto ha affermato Marta Patricia Baltodano, segretaria della Commissione Permanente dei Diritti dell’Uomo in Nicaragua: i certificati elettorali venivano distribuiti dai Comitati di Difesa Sandinisti, cioè dalla milizia popolare del regime, incaricata della distribuzione anche delle tessere di razionamento dei beni di prima necessità e di quelle per la benzina. «Il 4 novembre nei seggi elettorali si è presentata una folla di povera gente per non rischiare di vedersele ritirare. Ma le vostre democrazie possono considerare accettabili elezioni in cui il partito al potere, che chiede voti per sé, è lo stesso che controlla la organizzazione elettorale e che distribuisce e ritira ai votanti le tessere del razionamento?» (12). Se a tutto questo si aggiungono la esclusione dalla competizione elettorale di ogni forza di opposizione e il volontario ritiro dei partiti semplicemente dissidenti – avvenuto a causa della constatazione della assoluta mancanza di garanzie (13) -, le violenze verificatesi durante la campagna elettorale, nonchè la censura preventiva sull’unico quotidiano indipendente (14), il risultato della consultazione è decisamente significativo. Infatti, il 52% degli elettori iscritti – percentuale che si ottiene sommando le schede bianche, quelle nulle e i voti contrati – si è espresso contro il regime. A questa cifra sarebbe però corretto aggiungere il numero dei nicaraguensi che, in 430 mila, cioè il 14% della popolazione, hanno espresso il proprio parere sul regime abbandonando il paese, e il 7% di cittadini che, con coraggio, ha ufficialmente rifiutato di iscriversi nelle liste elettorali. Sulla base di questi elementi e di questi dati si può affermare che tre nicaraguensi su quattro, in forme diverse, si sono pronunciati contro il regime sandinista.
Fallito miseramente il tentativo di legittimazione elettorale del processo rivoluzionario, ai socialcomunisti di Managua restano altri due strumenti propagandistici: il primo si riassume nella immagine del paese «pacifico» assediato dagli Stati Uniti e dagli oppositori in armi; il secondo comporta l’uso di un «linguaggio cristiano», indispensabile per penetrare in regioni profondamente permeate dal cattolicesimo, come sono quelle dell’America Centrale e Meridionale. Con una tattica ampiamente sperimentata in passato altrove, i socialcomunisti cercano di introdurre cunei dialettici all’interno della Chiesa cattolica, sostenendo apertamente la cosiddetta Iglesia Popular Sandinista, che ha fatto propria la «teologia della liberazione» (15). Quanto alla volontà di pace, basta confrontarla con le cifre fornite da Eden Pastora, ex alleato dei sandinisti e attualmente a capo dell’ARDE, l’Alianza Revolucionaria Democratica, che impegna con le armi il regime di Managua: «In questi ultimi tre anni l’esercito sandinista è passato da 25 mila a circa 150 mila uomini, calcolando i 75 mila miliziani e i 15 mila mercenari internazionali» (16). Per avere un termine di paragone, si può ricordare che la Guardia Nazionale del dittatore Anastasio Somoza negli anni 1978 e 1979, cioè all’apice della guerra civile, contava 14 mila uomini (17). E alla guerra interna contro gli oppositori e le minoranze etniche, come gli indiani miskito, si accompagna l’appoggio alla guerriglia salvadoregna (18).
Quanto al tentativo di dividere la Chiesa cattolica, esso ha avuto fino a ora l’adesione di venti sacerdoti, sui 340 che conta l’intero paese, alla cosiddetta Chiesa Popolare (19). Non è esagerato parlare, come fa Hugues Kéraly, di una vaccinazione della Chiesa in Nicaragua nei confronti della penetrazione socialcomunistica, sotto la forma di «teologia della Liberazione». Il presidente della conferenza episcopale nicaraguense, monsignore Pablo Antonio Vega, ha espresso con chiarezza il concetto: «Noi nicaraguensi non esaminiamo più la teologia della liberazione dal punto di vista delle sue teorie, ma da quello della sua prassi, della sua volontà di adattare la dottrina a nuove forme storiche di dominazione … Anche se la frase può sembrare un po’ dura, non bisogna confondere la teologia con la demonologia, che è l’arte e la scienza di occultare il divino nella vita degli uomini» (20).
La definizione appare drammaticamente puntuale: il Nicaragua è forse il laboratorio principale della «teologia della liberazione» giunta al potere. Ma senza trovare consenso fra i fedeli e senza riuscire, in sostanza, a fare breccia nella Chiesa: infatti, dietro la facciata del «linguaggio cristiano», in Nicaragua spunta con ogni evidenza e senza grande possibilità di inganno, se non per chi «voglia» farsi ingannare, solamente il socialismo.
Maurizio Dente
Note:
(1) GUIDO VICARIO, Un ponte fra Managua e Washington?, in Rinascita, anno 42, n. 19, 25-5-1985, p. 29.
(2) Sulla «disinformazione», una delle principali tecniche della guerra psicologica, merita di essere letto, per i pregi di esposizione e per gli elementi di difesa che offre, il romanzo-saggio di VLADIMIR VOLKOFF, Il montaggio, trad. it., Rizzoli, Milano 1983, in particolare alle pp. 56-68.
(3) Gli aiuti economici ricevuti finora dal Nicaragua da parte dell’Occidente sono molto ingenti. Secondo il periodico americano Policy Review, dell’inverno del 1984, lo stesso Daniel Ortega ammette di avere ottenuto, nel periodo che va dal giugno del 1983 al giugno del 1984, crediti occidentali per 400 milioni di dollari; da parte loro, i paesi del «socialismo reale» avrebbero accordato al Nicaragua aiuti «soltanto» per 65 milioni di dollari (cfr. TFP Newsletter, vol. IV, n. 12, 1985). Alla cifra vanno comunque aggiunte le forniture militari provenienti dai paesi del blocco sovietico, pari a 100 milioni di dollari per il solo 1983, secondo un rapporto del dipartimento di Stato e di quello della Difesa degli Stati Uniti, reso noto nel luglio del 1984 (cfr. Background paper: Nicaragua’s military build-up and support for central american subversion, p. 2).
(4) S.O.S. Nicaragua, 35, Champs-Elysées 75008 Parigi. A questa associazione – fondata dal giornalista Hugues Kéraly e che organizza la contro-informazione sul Nicaragua e il sostegno umanitario alle vittime del socialcomunismo – aderiscono, tra altri, lo storico Pierre Chaunu, lo scrittore cattolico Gustave Thibon, la saggista Suzanne Labin e altre personalità del mondo della cultura.
(5) XAVIER DE MAZENOD, La filiere soviéto-cubaine en Amérique Centrale et dans les Caraibes, in Aspects de la France, 16-5-1985.
(6) Cfr. Background paper: Nicaragua’s military build-up and support for central american subversion, cit., p. 36.
(7) Cien etarras en Nicaragua, in Cambio 16, 3-10-1983. Il reclutamento di queste Brigate Internazionali avviene alla luce del sole: un annuncio apparso in Le Monde, del 13 gennaio 1984, pubblicato da un Comitato di Solidarietà con il Nicaragua, invitava a partire «in Brigate di solidarietà» «per salvare il Nicaragua». D’altra parte, in Francia va anche segnalata la presenza, in qualità di «consigliere speciale» del presidente François Mitterrand, di Regis Debray, ex collaboratore di Giangiacomo Feltrinelli, che ha preso parte, a Managua nel luglio del 1979, ai festeggiamenti per la vittoria della guerriglia sandinista.
(8) La denominazione «sandinista», che il regime di Managua si attribuisce, è assolutamente strumentale e rientra nella pratica della «disinformazione», che prevede il travestimento «nazionalistico» e «cristiano» del socialcomunismo nicaraguense, travestimento che si riflette anche nella fraseologia adottata. «I militanti del regime – osserva Hugues Kéraly nel suo dossier sul Nicaragua, scritto dopo un viaggio effettuato nel paese in occasione delle elezioni-farsa del novembre del 1984 – non utilizzano mai il vocabolario del Partito rimasto in voga nel vecchio continente. Niente “compagni” dallo sguardo d’acciaio. Niente pugni chiusi … Soltanto “fratelli”, hermanos, niente altro che “fratelli”» (S.O.S. Nicaragua. Voyage au Pays du communisme à langage chrétien, Morin, Parigi 1985, p. 9).
Augusto Cesar Sandino, figura di nazionalista nicaraguense degli anni Trenta, non aveva simpatie per il marxismo ed espulse dalle file del suo movimento il comunista salvadoregno Farabundo Marti proprio per ragioni ideologiche. Negli anni Settanta, durante la lotta contro il governo di Anastasio Somoza, il travestimento «nazionalistico» ha permesso di aggregare ai socialcomunisti indipendenti, moderati e nazionalisti autentici. La manovra era, d’altra parte, già stata realizzata durante la rivoluzione cubana da parte di Fidel Castro, maestro e ispiratore dei socialcomunisti nicaraguensi. Dopo la vittoria del 1979, essa ha fatto sì che i sandinisti ottenessero la benevolenza della amministrazione Carter. La vera matrice ideologica del gruppo sandinista risulta, invece, chiara fino dalle origini. Già nel 1971, uno dei fondatori del movimento, Carlos Fonseca Amador, in un messaggio al congresso del Partito Comunista della Unione Sovietica, definiva il FSLN, il Frente Sandinista de Liberación, come «l’erede della Rivoluzione Bolscevica di Ottobre», e affermava che «gli ideali dell’immortale Lenin» per esso «sono una stella polare nella lotta» (Central America’s Guerrillas Aren’t Robin Hoods, in Human Events, 31-3-1979). Anche per la Chiesa nicaraguense non vi sono dubbi circa la identità dei sandinisti: «Il governo sandinista. per ideologia e per metodo, è un governo marxista-leninista. Il termine sandinista serve da facciata, poichè nella sostanza, nelle idee, il governo è appunto marxista», ha dichiarato il presidente della conferenza episcopale del Nicaragua, monsignore Pablo Antonio Vega (Avvenire, 9-3-1984). Alla stessa conclusione è giunto il giornalista e deputato europeo per il Partito Repubblicano Italiano, Jas Gawronsky: «Il Nicaragua – ha scritto di ritorno da un viaggio in quel paese -, sempre più incanalato nel vicolo cieco del marxismo-leninismo, vuole […] convincere del contrario, di essere avviato sulla strada della democrazia» (la Repubblica, 18-2-1984). La tolleranza verso gli elementi non comunisti del FSLN è finita con la presa del potere, come testimonia il distacco, cominciato nel 1981, dell’ex dirigente del FSLN Eden Pastora – poi seguito da altri -, che denunciava la instaurazione del «terrore» in Nicaragua e la organizzazione di «una potente polizia segreta» con l’aiuto di «agenti tedesco-orientali e cubani» (EDEN PASTORA, Tyranny of Far Left or Far Right? Nicaraguan Sees Another Choice, in New York Times, 14-7-1982).
Quanto alle complicità godute dai sedicenti sandinisti in ambienti comunemente considerati «insospettabili», merita di essere citata la cronaca della visita in Nicaragua di una delegazione di politici, di giornalisti e di personalità dello spettacolo, tra cui la figlia di Bob Kennedy e il cantante rock Jakson Browne: «Stanfield Turner, che era capo della Cia proprio quando i sandinisti liberarono il Nicaragua, si è fatto fotografare con il ministro degli esteri Miguel D’Escoto e ha detto di considerare il finanziamento Usa ai “contras” [gli anticomunisti che combattono il regime di Managua (ndr)] un’azione di “terrorismo di stato”» (Paese Sera, 4-5-1985).
(9) Pure nel silenzio il regime di Managua continua la costruzione del nuovo aeroporto militare di Punta Huerte, che sarà dotato della più grande pista dell’America Centrale – 3200 metri -, in grado di ricevere velivoli sovietici di ogni tipo.
(10) Registrazione della conferenza di Bayardo Arce, del maggio del 1984, in H. KÉRALY, op. cit., p. 32.
(11) Ibid., p. 26.
(12) Ibid., pp. 29-30.
(13) La campagna elettorale è stata caratterizzata da una serie di incidenti provocati da unità mobili del regime, con travestimento in abiti civili, che avevano lo scopo di impedire le manifestazioni dei partiti avversari. Al contrario, per spingere la popolazione a partecipare al comizio del principale esponente della giunta di coordinamento, Daniel Ortega, il 1º novembre 1984 fu decretata la chiusura di tutti i locali pubblici e dei negozi (cfr. ibid., p. 39).
(14) La Prensa, quotidiano del pomeriggio, non deve soltanto subire la censura preventiva dei testi e delle fotografie, ma anche l’aggressione ai propri incaricati della distribuzione e il ricatto della mancata concessione della carta. Il giornale, il 3 novembre 1984, ha denunciato la sparizione di bobine di carta inviate in segno di solidarietà all’unico quotidiano indipendente del Nicaragua da alcuni giornali norvegesi: una volta sbarcate, le bobine di carta sono state sequestrate.
(15) «La Chiesa popolare – ha affermato il presidente della conferenza episcopale del Nicaragua, monsignore Pablo Antonio Vega – è una formula per presentare le stesse richieste che prima si ritrovavano nei cristiani per il socialismo. Scelgono la violenza sociopolitica, la lotta di classe come forza generatrice di cambiamento e la dittatura del proletariato» (Avvenire, 24-1-1984).
(16) Citato in H. KÉRALY, op. cit., p. 102.
(17) Cfr. Background paper: Nicaragua’s military build-up and support for central american subversion, cit., p. 8.
(18) A proposito di tale appoggio esistono ammissioni degli stessi capi sandinisti. In una intervista del 1982, il ministro degli Esteri del Nicaragua, Miguel d’Escoto, riconosceva che il flusso di armi diretto a el Salvador passa attraverso il territorio nicaraguense, anche se negava che esso fosse «sostanziale» e «autorizzato» (cfr. Washington Post, 8-3-1982).
(19) La cifra è fornita dal portavoce dell’episcopato nicaraguense monsignore Bismarck Carballo, in una intervista all’inviato del quotidiano Avvenire, Giuliano Ragno (cfr. Avvenire, 15-1-1984).
(20) Citato in H. KÉRALY, op. cit., p. 75.