di Silvia Scaranari
Un mese fa un’operazione di intelligence americana, con l’appoggio turco, ha portato alla scoperta del nascondiglio del sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi. L’operazione si è conclusa, secondo i comunicati ufficiali del Presidente Trump, con la morte del leader dello Stato Islamico che si sarebbe fatto esplodere insieme ad alcuni familiari.
Al-Baghdadi, nato Awwad al-Badri, a Samarra in Iraq nel 1971, dopo una gioventù di studi islamici che lo portano a conseguire un PhD presso l’Università di Scienze Islamiche al-A ‘zamiyya di Baghdad si avvicina al radicalismo islamico e collabora con i gruppi jihadisti di al-Qaeda fino al 2013, quando decide di dar vita ad una nuova organizzazione militare. Occupa parte di territorio tra Iraq e Siria auto-proclamando, nel luglio del 2014, il sedicente Stato Islamico, un territorio senza confini, in cui vivere secondo un rigoroso rispetto della shari‘a a e in cui far affluire musulmani da tutto il mondo per dare vita alla rinascita del Califfato.
Molto si potrebbe dire sulle pretese di Al-Baghdadi e sulla sua fine dopo rocambolesche avventure che lo hanno portato più volte sul punto di essere catturato e ucciso, ma non è questo il dato importante.
Se anni fa i gruppi jihadisti erano vincolati al fondatore (tipico il caso dei primi anni di Osama bin Laden) oggi la situazione è molto cambiata. Il jihadismo ha fatto esperienza e per certi versi si autoalimenta. L’esigenza di un capo rimane ma non è più importante che sia carismatico o che abbia delle credenziali spendibili. A due giorni dalla morte del capo un comunicato ufficiale rendeva noto il nome del nuovo leader, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi, ricominciando con la solita serie di minacce. E per rendere credibile il nuovo corso un attacco alle forze militari italiane, le meno colpite in questi lunghi anni di guerra e di presidio dell’area mediorientale, rivendicato da un comunicato diffuso tramite la loro agenzia di stampa, Amaq: “Con l’aiuto di Dio, soldati del Califfato hanno colpito un veicolo 4X4 con a bordo esponenti della coalizione internazionale crociata ed esponenti dell’antiterrorismo peshmerga nella zona di Kifri, con un ordigno, causando la sua distruzione e ferendo quattro crociati e quattro apostati”.
L’Isis non è morto, è solo un po’ ferito, tanto che osa colpire, cosa che per altro ha continuato a fare nel silenzio generalizzato di un Occidente cieco e sordo. Sconfitto in Medioriente si è spostato, ha trovato nuove aree geografiche in cui ricollocarsi. Certamente le sconfitte inferte nell’area siro-iraqena hanno danneggiato l’organizzazione, costretta a trovare nuove fonti di finanziamento e nuovi territori da controllare, ma non ne ha sconfitto le matrici culturali. Dal Medio Oriente si è spostato nel Sud est asiatico e soprattutto in Africa: in Nigeria inglobando Boko Haram, in Somalia e Kenia, utilizzando al-Shabab, ma anche in Ciad, Camerun, Niger, Mali e Algeria. Uno degli Stati più tranquilli, il Burkina Faso, dove fino a pochi anni fa convivevano serenamente famiglie islamiche con famiglie cristiane, ha visto un crescendo impressionante di violenze che partendo dal nord si sono spostate verso l’est, seminando sangue e devastazioni rivendicate da Ansarul Islam, l’organizzazione nata nel 2016 in Mali e dal 2017 affiliata all’Isis. In Mozambico Ahlu Sunnah Wa-Jama ha provocato centinaia di morti.
Ma questi attacchi non sono sulla Promenade di Nizza, non sono al centro di Parigi o di Londra, non sono ai mercatini di Natale di Berlino e quindi non fanno rumore. E così, nella nostra colpevole indifferenza, la violenza cresce, ferisce, uccide.
L’Occidente non vuole capire che non sono le armi che possono fermare il radicalismo islamico. Stesso commento può valere per i grandi leader del mondo islamico che si compiacciono di dichiarazioni pubbliche in cui prendono le distanze dalla violenza e ribadiscono senza sosta che l’islam è una religione di pace. Lo sanno bene uomini, donne, bambini musulmani rapiti, mutilati, uccisi perché accusati di non vivere l’islam nella sua purezza originaria. Forse queste vittime aspettano dai Gran Imam, dai Muftì, dai Mullah qualcosa di più significativo: operare per cambiare la mentalità, per dare vita ad una nuova educazione nelle loro scuole, nelle loro leggi, nei loro costumi.
All’islam non serve la laicizzazione tanto agognata dall’Occidente, privo di valori e sensibilità religiosa, serve un recupero della retta ragione, una rilettura del testo sacro, serve una coraggiosa analisi delle fonti originali, serve un senso religioso della vita che non si fermi alla forma ma scenda nel profondo dei cuori, serve scoprire la Verità che solo in Cristo trova la sua compiutezza.
Giovedì, 28 novembre 2019