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IL “TRADIMENTO STORICO”

30 Maggio 1977 - Autore: Alleanza Cattolica

Cristianità n. 25 (1977)

 

Un elemento indispensabile al successo comunista
IL “TRADIMENTO STORICO”

 

Il compromesso storico non ha ormai più misteri. La sua pratica, anzi, la sua «prassi», è qui, sotto i nostri occhi, nei titoli grandi o minori della stampa, nei comunicati trasmessi dalla radio e dalla televisione, nella vita politica di tutti i giorni, che ne è sostanziata, oltre i disconoscimenti formali del fatto. La sua teoria, l’eurocomunismo, è stata sviscerata e illustrata, ampiamente e variamente, da comunisti e da non comunisti, politici e intellettuali; e le ricorrenze gramsciane sono state occasione non secondaria dell’approfondimento.

Ultimi, di parte comunista «ortodossa», sono venuti, con testi di diversa destinazione, ma sostanzialmente convergenti, Luciano Gruppi e Gian Carlo Pajetta.

Direttore dell’Istituto di studi comunisti «Palmiro Togliatti», direttore per diversi anni di Critica marxista e autore, tra l’altro, di studi sul pensiero di Lenin, sul concetto di «egemonia» in Gramsci e sulla «via italiana al socialismo» in Togliatti, Luciano Gruppi ha le migliori qualifiche tecniche per offrirci ogni desiderabile spiegazione in La proposta del «compromesso storico», premessa alla antologia Il compromesso storico, che raccoglie scritti e discorsi di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, in un arco di tempo che va dal 1918 al 1976 (1).

Gian Carlo Pajetta, dal canto suo, ci chiarisce punti non secondari in una intervista rilasciata a il manifesto, dopo le recenti elezioni municipali francesi (2).

* * *

Come dicevamo, il tema è noto, e descrive una strategia per la conquista del potere da parte del PC in paesi di «capitalismo sviluppato», «dominati dal capitalismo monopolistico e dai trust internazionali […]». In tali paesi «ciò che è essenziale è isolare i trust internazionali, la pressione e l’ingerenza dell’imperialismo ed assicurare a questo fine l’alleanza tra la classe operaia e la piccola e media borghesia. Ciò deve riflettersi anche a livello politico, nel senso di stabilire una intesa tra i partiti della classe operaia e i partiti democratici della borghesia […]. Ciò che è essenziale è tenere isolate le forze eversive e reazionarie. È essenziale impedire o rompere l’alleanza tra le forze di centro e quelle di destra, tra le forze moderate e quelle reazionarie. Bisogna dunque riuscire a mantenere sul terreno della democrazia, dell’antifascismo, le forze moderate, sollecitarle a superare le loro incertezze e le loro contraddizioni, in modo da coinvolgerle in una politica di difesa e di sviluppo della democrazia.

«In Italia, dal 1969 in poi, abbiamo assistito ad una strategia di violenza da parte delle forze fasciste, legate a centrali straniere. Tale strategia voleva gettare lo smarrimento, l’incertezza tra le forze democratiche, spaventare i ceti medi, portarli ad invocare l’ “ordine”. La risposta antifascista è però sempre stata pronta, vigorosa, unitaria. Il governo, la DC italiana non sono stati assenti in questa risposta […], perché da parte delle forze di sinistra si era operato in modo da riuscire ad impegnare il più possibile sia la Democrazia cristiana che il governo sul piano dell’antifascismo […].

«In questo quadro va intesa la proposta del “compromesso storico”, che sta ad indicare la necessità di una alleanza tra la classe operaia e i ceti medi […].

«La formula del “compromesso storico” può essere compresa se non viene isolata, ma considerata entro l’obiettivo fondamentale: la costruzione di un largo arco di alleanze sociali e politiche. Bisogna intendere che questa formula, se vuole essere prima di tutto l’indicazione di una necessità, di una iniziativa politica, di una strategia di lunga portata, contiene in sé anche un elemento volutamente “provocatorio”, come ebbe ad osservare lo stesso Berlinguer. Essa dice agli altri partiti, alla DC ed ai cattolici in generale: i comunisti sono, come sempre, disposti a trattare per stabilire un ampio accordo unitario delle forze democratiche che guidi lo sviluppo del paese. Ma dice anche ai comunisti: non si sconfigge il nemico principale della classe operaia, del socialismo e, prima ancora, dello sviluppo democratico, cioè il capitalismo monopolistico e quella politica dei dirigenti della DC che ne èl’espressione, se non si stabiliscono larghe alleanze. Queste alleanze devono giungere sino alle masse popolari cattoliche, sino alla base lavoratrice popolare della stessa Democrazia cristiana. Ma ogni alleanza comporta determinati compromessi. Lenin ce lo insegna. Si tratta di distinguere tra i diversi tipi di compromesso. Vi è il compromesso che colpisce l’autonomia politica e ideale della classe operaia, che la rende subalterna alla egemonia della borghesia. Esso va respinto. Vi è invece il compromesso che consente al movimento operaio, nella sua piena autonomia, di realizzare determinate alleanze, di spostare a proprio favore i rapporti di forza, di far convergere movimenti diversi verso obiettivi di progresso politico e sociale. Questo è un compromesso necessario e giusto, rivoluzionario […].

«L’accordo dunque, i compromessi anche, su cui esso si costruisce, tra le grandi forze nazionali dei comunisti, dei socialisti e delle stesse masse popolari cattoliche ha oggi in Italia un valore rivoluzionario perché serve ad isolare l’ingerenza imperialistica, i trust internazionali, le forze reazionarie e conservatrici» (3).

Chiediamo scusa al lettore per la lunga citazione, ma l’abbiamo ritenuta indispensabile come base per considerazioni estremamente semplici che verremo facendo.

Cominciamo con un poco di traduzione del gergo comunista di cui Luciano Gruppi si avvale con una certa abbondanza. Dunque, in paesi caratterizzati da «capitalismo sviluppato», cioè in paesi civili, l’assalto rivoluzionario allo Stato presenta oggettive difficoltà derivanti dalla grande articolazione sociale e dalla stratificazione storica, che non facilita la dialettizzazione delle componenti del corpo sociale stesso. Questo è, con ogni evidenza e per riconoscimento dello stesso Gramsci, il caso dell’Italia. In questi paesi l’assalto rivoluzionario allo Stato deve essere preceduto dalla mobilitazione del dissenso, degli scontenti, a qualsiasi classe sociale appartengano, che vanno desolidarizzati dall’ordine vigente; e tale ordine, per favorire l’operazione, deve essere adeguatamente caricato di tutti i possibili elementi negativi, «fascistizzato», cioè demonizzato. Ciò che, considerata la varietà della struttura sociale, non si riuscirebbe a ottenere aggressivamente, con uno scontro frontale e una frattura verticale, che permetterebbero di individuare con chiarezza chi è l’aggressore e chi il difensore di quanto rimane della civiltà, si tenta di ottenere coagulando contro nemici «fantastici» quanti dovrebbero essere i naturali difensori della città dai suoi nemici «reali».

Il fine è dichiarato con grande semplicità e chiarezza: la transizione al socialismo non è assolutamente abbandonata, ma si fa presente anche ai propri «compagni» che il «compromesso» è l’unico mezzo serio per raggiungere lo scopo, stando così le cose.

L’ipotesi della violenza pare messa da parte, almeno temporaneamente, e la possibilità di una vittoria elettorale delle sinistre, cioè la conquista del 51% dei suffragi, lontana e non sufficiente.

Ce ne parla, in termini franchi, Gian Carlo Pajetta: «[…] il problema del 51% – dice l’esponente comunista – […] viene presentato spesso in modo mistificato. Innanzitutto noi ce lo auguriamo (perché buttarlo via?). Ma ne siamo lontani. Ma, soprattutto, non siamo in Gran Bretagna, dove per governare basta un solo deputato in più. Questo può essere sufficiente quando si chiede di governare quasi come i conservatori, non quando ci si propone la prospettiva di una profonda trasformazione sociale. […] siccome per noi essere un partito rivoluzionario vuol dire realizzare mutamenti di fondo, noi non pensiamo che questi mutamenti possano essere realizzati e vissuti senza un consenso più vasto. E soprattutto senza una partecipazione di massa effettiva. Per questo sottolineiamo l’insufficienza di una risicata maggioranza puramente parlamentare». E ancora: «Il fatto è che noi pensiamo di trovare nella DC forze che possano essere, non dico inclini, ma obbligate a riconoscere realisticamente la necessità di profondi cambiamenti e quindi ad aprire la strada a un processo di trasformazioni sociali sostenuto da una larga base di massa, quale può essere quella della sinistra sommata all’elettorato popolare e di ceto medio della DC. Questa è la condizione perché questo processo si sviluppi, non dico in modo indolore per tutti naturalmente, ma attraverso una via democratica e con qualche certezza di continuità e di successo» (4).

La strategia comunista costituisce, a questo punto, un dato di tale chiarezza da divenire autentica «pietra d’inciampo» per chiunque sia mediamente alfabetizzato. Non è pressoché possibile prepararsi a recitare la parte di chi non sapeva, di chi è stato ingannato, ecc. Infatti, la meta comunista non è assolutamente venuta meno: sono cambiati, caso mai, i mezzi per perseguirla; anzi, ai mezzi consueti se ne sono soltanto aggiunti dei nuovi.

Lo scopo, la conquista dello Stato per la trasformazione della società e dell’uomo, passa attraverso la conquista della società (egemonia) e la condivisione delle responsabilità di governo con i rappresentanti dei propri avversari, che non pensano certamente di dover combattere i propri dirigenti. Esclusa, o considerata momentaneamente pericolosa una vittoria sul proprio nemico, in quanto troppo risicata e rivelatrice di un animus combattivo da occultare, si punta alla vittoria attraverso… la dichiarazione di sconfitta da parte dei propri avversari, cioè attraverso la resa dei propri nemici!

Ma qui il discorso si chiude e se ne apre un altro, di portata enorme: se il comunismo teme il confronto, vuol dire che non è assolutamente sicuro di vincere. In queste condizioni arrendersi, concedergli la vittoria dichiarando la propria sconfitta non può essere accreditato come un cedere all’evidenza, ma ha piuttosto, tra altri nomi «troppo umani», come vigliaccheria, paura, ecc., un nome particolarmente infamante: si chiama tradimento. Anzi, considerata la sua portata, si chiama «tradimento storico».

Note:

(1) Cfr. Il compromesso storico, a cura di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1977.

(2) Cfr. il manifesto, 25-3-1977.

(3) LUCIANO GRUPPI, La proposta del «compromesso storico», in Il compromesso storico, cit., pp. 9-12.

(4) il manifesto. cit.

 

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