di Maurizio Milano
Il Venezuela è un Paese ricco di petrolio, grazie alle immense riserve di cui gode, tra le più importanti al mondo. Eppure è un Paese oggi alla fame, ben oltre la semplice povertà: mancano elettricità, acqua, medicinali, generi alimentari di prima necessità; la gente fa lunghe code per accaparrarsi cibo in negozi sempre più presi d’assalto dai disperati. È una crisi non solo economico-sociale e istituzionale, ma un vero dramma umanitario senza precedenti.
Come mai? In effetti sorprende, o dovrebbe sorprendere, che un Paese così ricco di risorse naturali giaccia in uno stato di totale prostrazione, con miseria profonda, inflazione alle stelle (si è arrivati addirittura al 700%), violenza diffusa e totale assenza di prospettive. Dare tutta la colpa al calo del prezzo del petrolio che ha seguito la crisi finanziaria del 2008, come si sente dire, non convince per nulla: il popolo venezuelano, infatti, non ha mai goduto di condizioni di benessere diffuso anche quando il petrolio veniva venduto a tre volte i prezzi correnti e d’altronde anche i Paesi arabi, che hanno anch’essi un sistema economico-finanziario centrato sul greggio, non sono certamente caduti in una situazione di miseria, e neppure di povertà.
Al di là della crisi economico-finanziaria internazionale, la situazione negli ultimi anni è insomma davvero scappata di mano e il Paese latino-americano si è avvitato in una crisi mai conosciuta prima. La situazione del Venezuela non è comunque un unicum a livello mondiale: sono infatti moltissimi i Paesi che dispongono d’immense risorse naturali e che però non riescono a uscire da situazioni strutturali di estrema povertà. Si pensi a molti Stati dell’Africa o alla stessa Cuba castrista, che del Venezuela condivide la stessa impostazione socialista.
Le ragioni profonde della crisi, dunque, non sono primariamente di tipo economico, bensì di ordine culturale e politico. Quando in una nazione non viene rispettato il diritto alla proprietà privata; quando la libertà ‒ anche economica ‒ viene conculcata; quando lo Stato accentra in sé ogni potere economico e politico, controllando la società in modo opprimente e capillare, mancano i “fondamentali” affinché la ricchezza possa generarsi e moltiplicarsi. Non importa quanto abbondanti siano le risorse materiali a disposizione: se il potere politico nega i presupposti di base affinché persone, famiglie, imprese e corpi intermedi ‒ cioè la “società civile” in tutte le proprie articolazioni ‒ possano sprigionare energie creative e accrescere il benessere diffuso, l’esito ultimo sono sempre il fallimento economico e la disgregazione sociale.
Come la storia insegna, un’economia libera e prospera non può nascere e svilupparsi in Stati totalitari e oppressivi. Non è un caso, infatti, che nessun regime comunista abbia mai creato ricchezza diffusa. Nessuno. La torta diviene sempre più piccola e quel poco che c’è viene distribuito all’interno della nomenklatura e, a forza di mungerla, la vacca smette di dare latte.
La crisi dell’Unione Sovietica, fallita proprio sul piano materiale dopo avere rinnegato le proprie tradizioni cristiane, ha provato egergiamente, al di là di ogni ragionevole dubbio, come l’uomo che rinnega Dio sia capace soltanto di costruire inferni terrestri.
La storia del resto si ripete: ora è la volta del fallimento dell’ideologia chavista. Come insegna Papa Leone XIII (1810-1903) nella lettera enciclica Rerum Novarum del 1891, in un sistema economico socialista «le fonti stesse della ricchezza inaridirebbero […] e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria»: parole profetiche, peccato non avergli dato retta.
I comunisti, però, dicono di amare i poveri. Forse è vero: ovunque governino, ne moltiplicano il numero. A questo punto, solo la fine del regime socialista di Nicolás Maduro Moros potrebbe fare uscire il Venezuela dalla spirale distruttiva in cui langue. L’alternativa, infatti, è solo l’implosione.
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