
I greci e i romani apprezzavano la bellezza del corpo e della forza, i cristiani contemplano estatici la bellezza dell’animo. L’opera di Diego Velàzquez
di Mario Vitali
Il Concilio di Trento (1545-2563) aveva auspicato un’iconografia fedele alle fonti bibliche e capace di suscitare devozione. L’opera “Cristo Crocifisso”, conservato al Museo del Prado di Madrid, fu realizzata dal pittore spagnolo Diego Velázquez (1599-1660) che è stato uno dei più grandi pittori del periodo barocco e figura di spicco del secolo d’oro della Spagna.
Dalla famiglia ricevette una solida formazione religiosa, i genitori lo indirizzarono agli studi linguistici e filosofici ma, fin da giovanissimo, Diego mostrava una rara sensibilità per l’arte e cominciò a formarsi come artista presso importanti maestri andalusi.
Il dipinto di Velázquez, è una delle opere più intense e spirituali del maestro spagnolo. La perfezione del corpo di Cristo e la sua carnagione pallida richiamano i pittori italiani, in particolare Guido Reni e Caravaggio, gli artisti dei quali Diego aveva ammirato e studiato le opere durante il primo soggiorno italiano avvenuto nel 1631. La composizione si rifà anche ai crocifissi medievali in cui i chiodi erano quattro, a differenza di quanto avverrà dal Trecento quando i chiodi saranno tre dei quali uno solo per i piedi.
Dalle ferite si può vedere il sangue che scorre abbondante, caratteristica tipica della devozione spagnola e che riecheggia la profezia di Isaia: “Disprezzato e reietto dagli uomini uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. (Isaia 53:3-5).
Nonostante le ferite e la morte il volto di Gesù sembra disteso, non mostra più gli spasimi del dolore, ha gli occhi chiusi e il capo coronato di spine, la testa reclinata in avanti in segno di obbedienza al Padre.
L’artista scrupolosamente scrive sulla targa posta in cima alla croce “Gesù di Nazareth Re dei Giudei” nelle lingue ebraica, greca e latina.
L’atmosfera cupa e il realismo del corpo richiamano la pittura caravaggesca. Il fondo scuro ricorda il buio che scese sulla terra dall’ora sesta all’ora nona e indica il trionfo della luce e della resurrezione sulla morte e sul peccato.
Gesù è illuminato, dalla carne chiara splende la luce, come un abbaglio rispetto al buio e alle tenebre circostanti. Il volto è contornato da un’aureola che l’avvolge di luce mentre i folti capelli lo ombreggiano.
Il buio isola il Crocifisso e lo trasforma in un’immagine che va oltre lo spazio e il tempo.
Un particolare interessante è il ciuffo di capelli che copre metà del viso e che può essere anche spiegato come un espediente dell’artista per coprire parzialmente il volto del Signore che, per quanto sembri perfetto, non soddisfava l’aspettativa di bellezza dell’autore.
Nonostante ciò, Velàzquez ha comunque saputo dare a Gesù la bellezza divina cantata dal Salmo: “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal. 44,3).
Innalzato sulla croce, Cristo ha “tutto compiuto”. La bellezza della sua vita è tutta qui: ha fatto quel che doveva fare….ha detto quel che doveva dire…ha dato tutto quello che aveva..
A questo “compimento” anche noi aspiriamo, essere trovati alla fine dei nostri giorni come i servi fedeli, all’opera fino alla fine…
Sabato, 24 maggio 2025