FRANCESCO BARBESINO, Cristianità 311 (2002)
Convenzionalmente la problematica relativa all’esistenza di un prototipo ispiratore delle antiche immagini — icone o reliquie — di Cristo si orienta in modo prevalente verso la Sindone di Torino (1). Quindi, ogni altra immagine viene in qualche modo a “turbare” lo stato d’avanzamento di questa ormai secolare ricerca. È quanto accade, per esempio, relativamente al Volto Santo di Manoppello, al quale è dedicata un’opera, intitolata appunto Il Volto Santo di Manoppello, edita nel 2000 e curata da padre Heinrich Pfeiffer S.J. (2).
L’autore è tutt’altro che ignoto a chi s’interessa, anche se marginalmente, di problemi riguardanti l’iconografia cristiana. Si tratta infatti di un gesuita tedesco, docente di Storia dell’Arte nella Pontificia Università Gregoriana, direttore, presso la stessa, del Corso Superiore per i Beni Culturali della Chiesa e membro della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa. Dell’opera padre Pfeiffer S:J. non è solo curatore, ma anche coautore di gran parte del testo: infatti, sono suoi la Premessa (pp. 13-15) e i capitoli La storia delle Acheropite (pp. 16-23), Il Volto Santo di Manoppello (pp. 24-31), I due modelli per l’immagine di Cristo nell’arte: la Sindone e il Volto Santo di Manoppello (pp. 32-40), Le leggende (pp. 66-71), Ipotesi sulla genesi dell’immagine (pp. 72-74) e La “Relatione historica” (pp. 75-77). Con lui collabora una religiosa trappista boema, suor Blandine Pascalis Schlömer, dell’abbazia di Maria Frieden, di Dahlem, in Germania, autrice del capitolo Il Velo del Volto Santo di Manoppello e la Sacra Sindone di Torino (pp. 41-65). Di lei padre Pfeiffer S.J. dice che “[…] ha dato la migliore descrizione del Volto Santo di Manoppello” (p. 28), descrizione alla quale si rifà ampiamente. L’appendice, Manoppello. Il nucleo urbano e il patrimonio storico-artistico (pp. 86-109) — preceduta dall’Indice dei nomi e dei luoghi (pp. 78-81) — è del professor Adriano Ghisetti Giavarina, docente di Storia dell’Architettura presso la Facoltà di Architettura di Pescara, che presenta il borgo dov’è conservata la reliquia e i suoi aspetti storico-artistici, con corredo fotografico.
L’opera è aperta da Presentazioni del sindaco di Manoppello, in provincia di Pescara, professor Luca Giorgio De Luca (p. 6), del vicesindaco e assessore alla Cultura geometra Giovanni Terreri (p. 7) e del responsabile del Centro Servizi Culturali-Torre de’ Passeri dottor Mario d’Eramo (p. 8). Nella Prefazione raccomanda la ricerca il card. Fiorenzo Angelini, presidente emerito del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, che, con la Congregazione benedettina delle Suore Riparatrici del Santo Volto di Nostro Signore Gesù Cristo, ha fondato l’Istituto Internazionale di Ricerca sul Volto di Cristo e ne è tuttora il maggior promotore (pp. 9-10). Nella prefazione il porporato scrive: “Sono […] convinto che il volume segnerà una data nella storia dell’iconografia riguardante la raffigurazione del Volto di Cristo” (p. 9). Segue un’Introduzione del rettore del santuario dove il Volto Santo è conservato, padre Germano Di Pietro O. F.M. Cap. (pp. 11-12).
L’opera è dunque focalizzata sulla reliquia (3) che si trova a Manoppello, un paese abruzzese posto fra verdi colline ai piedi della Maiella. Nel 1620 vi sono giunti i frati cappuccini che hanno edificato, fuori dell’abitato, un convento con una piccola chiesa dedicata a San Michele Arcangelo. Lì, dal 1638, si custodisce la reliquia intorno alla quale, crescendone la fama, la chiesetta primitiva si è venuta ampliando fino a divenire, nella seconda metà del secolo XX, il Santuario del Volto Santo.
Infatti, quanto richiama al santuario folle di pellegrini è un volto d’uomo impresso su ambo i lati di una tela quasi trasparente — come in una diapositiva — “[…] come quello di una persona viva che si trova dietro al tessuto e che guarda attraverso questa stoffa sottilissima: una persona con capelli di uno splendore meraviglioso, […] che cadono in due bande sciolte su tutti e due i lati. Ma ciò che parla di più in questo volto sono gli occhi di un bianco molto intenso. Lo sguardo è gentile. C’è come un sorriso nell’espressione” (p. 28). Tuttavia per un osservatore non frettoloso “c’è qualcosa di inspiegabile e di totalmente inconsueto. Per esempio la stoffa appare molto antica, con una superficie ruvida, ma da un momento all’altro la stessa stoffa appare come una tessitura finissima e delicatissima e totalmente trasparente, perfino splendente. Nella stessa maniera il volto umano che si può scorgere su questa stoffa appare una volta con un intensissimo colorito e delineato con molta precisione nel disegno dei capelli e degli altri dettagli — ci si trova davanti una immagine che appare compatta in una tonalità scura di un’ocra a tratti verdeggiante — e poi si è sorpresi di vedere invece un tessuto bianco, quasi un soffio tanto è esile” (ibidem). Inoltre, “se si pone il Velo contro la luce, quando essa passa direttamente da dietro attraverso il tessuto, l’immagine sparisce come se i fili l’avessero assorbita” (p. 29). Quasi inutile aggiungere che non si scorgono, neppure a forti ingrandimenti, tracce di apporto di colore sulle fibre del tessuto. Quest’ultimo può venir osservato solo se ci si pone da una determinata angolazione rispetto all’immagine o se si colloca uno schermo opaco posteriormente a essa.
1. Ipotesi di un itinerario
Il Volto Santo o Velo di Manoppello è con certezza acquisito stabilmente dai padri cappuccini dal 1638. Ne fa stato una Relatione historica di padre Donato di Bomba. Questa relazione, scritta fra il 1640 circa e il 1646, è certamente leggendaria per gli episodi più lontani nel tempo, ma non mente riguardo a quelli più prossimi. L’avvenuta donazione ai padri cappuccini del Velo da parte del dottor Donato Antonio de Fabritiis è confermata anche da un atto notarile del 1646.
La Relatione historica narra quella che si può considerare la vulgata dell’acquisizione del Volto Santo. Un giorno del 1506 il dottor Giacomo Antonio Leonelli se ne stava a conversare con altri signori dinnanzi alla chiesa di San Nicola di Manoppello quando gli si avvicina un pellegrino “d’aspetto Religioso et molto venerando” (p. 76), che lo invita ad appartarsi con lui in chiesa e ivi gli consegna un involto, raccomandandogli di tenerlo molto caro. Dall’involto, subito srotolato, appare il Volto Santo, ma il misterioso pellegrino era già scomparso né è in alcun modo possibile rintracciarlo. Così il Velo diviene un bene della famiglia Leonelli e circa cento anni dopo costituisce la dote di una Marzia Leonelli, andata sposa a “un soldato ed uomo d’armi” (p. 77). Sembra che il fratello della sposa si opponesse alla consegna della reliquia e che l’uomo d’armi se ne sia impadronito con la forza ma che, una volta in possesso della reliquia, l’abbia conservata con poca cura e rispetto. In seguito, nel 1618, Marzia, per riscattare il marito in prigione a Chieti, cede per quattro scudi il Velo al dottor Donato Antonio de Fabritiis, che dopo il 1620 ne fa dono ai padri cappuccini giunti a Manoppello proprio in seguito a una sua sollecitazione. La Relatione historica precisa che, già prima della ratifica del passaggio di proprietà del Velo, il primo superiore dei cappuccini, padre Clemente da Castelvecchio, aveva rifilato il panno tagliando con le forbici tutti “gli stracciatelli” (ibidem) che pendevano dal consunto tessuto mentre fra Remigio di Rapino provvedeva a racchiuderlo fra due vetri entro una cornice di noce, con una luce di cm. 24 x 17,5.
Questo racconto, certo in parte leggendario, diviene uno degli elementi analizzati da padre Pfeiffer S.J. a sostegno di uno dei fatti che ritiene di aver accertato dopo anni di ricerche e che sintetizza così: “Il Velo con il suo volto non è nient’altro che la Veronica romana creduta smarrita” (p. 13).
La Veronica, sarà bene ricordarlo, era la pia donna che, secondo una leggenda tardomedioevale —diffusissima in Occidente, fino a divenire una delle stazioni della Via Crucis —, aveva deterso con il suo velo il volto di Gesù durante la dolorosa salita al Calvario. Il nome è la forma latina tarda e paretimologica del nome greco Berenice; compare in uno scritto apocrifo del secolo VI, gli Atti di Pilato, ed è stata talvolta identificata con l’emorroissa guarita da Gesù, della quale parlano i Vangeli Sinottici (4). Il sudore e sangue sgorgato avevano impresso miracolosamente sul panno la Vera icona del Salvatore. Questo Volto è un oggetto storico certamente presente a Roma dal secolo XII. Papa Innocenzo III (1198-1216) ne promuove in particolare il culto, istituisce una processione annuale e concede indulgenze a quanti piamente vi partecipino. Racchiusa in una cornice dorata, dono di tre signori veneziani, viene esposta in San Pietro durante le maggiori festività e in particolare durante gli Anni Santi del 1300 e del 1350. Ostensioni alle quali accenna anche Dante Alighieri (1265-1321) rispettivamente nella Vita nuova (5) e nel Paradiso (6).
Dunque la Relatione historica, come avviene per molti testi leggendari, contiene un nocciolo di verità. Il misterioso pellegrino che consegna in segreto il Velo al dottor Leonelli, e subito dopo scompare definitivamente dalla scena, è con ogni probabilità leggendario. Padre Pfeiffer S.J. ritiene che dietro l’acquisizione violenta della reliquia, operata dall’uomo d’armi, si nasconda una diversa acquisizione violenta, tutt’altro che leggendaria, quella avvenuta a Roma in San Pietro, o nel vicino archivio, a opera d’ignoti i primi anni del secolo XVII. Si fa rilevare che i vetri del reliquiario del 1350 che custodiva la Veronica sono rotti e i documenti attestano che questo è avvenuto prima del 1618. Si tratta di due vetri paralleli che, evidentemente, servivano per vedere il Volto di Cristo da ambedue i lati. Un indizio a favore dell’ipotesi dell’effrazione è la scheggia di cristallo di rocca individuata proprio sul bordo inferiore del Volto Santo di Manoppello.
Non mancano anche prove iconografiche: prima del 1616 tutte le copie della Veronica hanno, come il Volto Santo, gli occhi aperti mentre le poche immagini giunte fino a noi dopo tale data presentano gli occhi chiusi. Quanti, e sono veramente pochi, nel secolo XX hanno potuto osservare la tela custodita in San Pietro, nella cappella che si apre sopra la statua della Veronica — pilastro sud-occidentale della cupola — affermano che si tratta di un panno quadrato di colore chiaro, non trasparente, sul quale non si distingue alcun lineamento (7). Un altro elemento che induce a pensare che l’originale non sia più lì. D’altra parte, l’ultima ostensione pubblica risale agli anni 1600-1601. In seguito, sia Papa Paolo V (1604-1621) che Papa Urbano VIII (1623-1644) ne proibirono qualsiasi copia, anzi quest’ultimo, nel 1629, decretò la distruzione di tutte quelle esistenti.
A questo punto padre Pfeiffer S.J. compie un ulteriore passo procedendo a ritroso nella storia ma, molto correttamente, lo presenta solo come una ragionevole ipotesi. L’ipotesi è questa: il velo di Manoppello, alias Veronica romana, un tempo era conosciuto nell’Impero Romano d’Oriente come l’Immagine di Camulia. L’immagine che si riteneva acheropita (8) — cioè non fatta da mani d’uomo, al pari della Veronica —, originaria della piccola città di Kamulia, o Kamuliane, in Cappadocia, viene traslata da Cesarea, capitale della regione, a Costantinopoli nel 574. In breve la Camuliana diventa il palladio, l’immagine protettrice della capitale: garantiva protezione alla città e vittoria agli eserciti imperiali. Si ritiene che la reliquia venisse accolta con entusiasmo a Bisanzio per sostituire il Labarum di Costantino I (280 ca.-337), andato perduto durante il regno di Giuliano l’Apostata (331-363), anche se le caratteristiche di questa insegna sono a noi tuttora ignote. Viene segnalata in Africa nella battaglia di Costantina, del 581, in quella sul fiume Arzaman, del 586, e in molti altri episodi bellici. L’imperatore Eraclio (575-641) in partenza per una campagna in Persia, nel 622, stringeva in mano uno stendardo sul quale era ricamata l’immagine di Camulia. E ancora nel 626, durante l’assedio di Costantinopoli da parte degli àvari, la santa immagine viene esposta sulle mura a difesa della città.
Un giorno l’immagine sparisce per non ricomparire più a Costantinopoli. Potrebbe esser andata distrutta in battaglia, ma l’ipotesi più ragionevole, sostenuta anche dal padre gesuita, è che sia stata inviata segretamente a Roma.
Nella Vita di Germano I, patriarca di Costantinopoli (715-730), si narra che questi mette in salvo l’Acheropita gettandola in mare; miracolosamente questa giunge al largo di Ostia, ove viene ripescata e portata a Roma. Malgrado il carattere in parte leggendario della narrazione sono noti altri documenti che sembrano confermare la sostanza dell’avvenimento, cioè l’invio della reliquia a Roma (9).
Padre Pfeiffer S.J. colloca la data di questo trasferimento negli anni che intercorrono fra il primo e il secondo regno di Giustiniano II (679 ca.-711), dal 695 al 705, ma, a mio avviso, questo potrebbe essere avvenuto almeno dieci o vent’anni più tardi (10).
Naturalmente la Camuliana, messa in salvo a Roma, rimaneva ancora proprietà del Patriarcato di Costantinopoli e non poteva essere assunta come protettrice di una città, ove era stata inviata in via temporanea con il tacito accordo che venisse restituita, quando fosse cessata la persecuzione delle immagini. Giustamente l’autore fa notare che la Veronica-Camuliana viene mostrata pubblicamente solo dopo il definitivo declino della potenza di Bisanzio, cioè dopo la caduta di Costantinopoli del 1204 (11).
Ma dove viene conservata per quasi cinque secoli prima che iniziassero le ostensioni pubbliche? Anche a questa domanda si è cercato di dare una ragionevole risposta. Da tempi antichissimi è noto che nell’oratorio di San Lorenzo, detto Sancta Sanctorum, situato nei Palazzi Laterani, si venera un’immagine del Salvatore. Quest’immagine, che si riteneva “non fatta da mano d’uomo”, era il palladio di Roma. Oggi si presenta come una tavola rivestita di lamine d’argento, al disopra delle quali appare un volto dai grandi occhi, con barba e baffi sottili, circondato dal nimbo inserito in uno spazio ottagonale. Per secoli fu impossibile condurre su di essa uno studio accurato e solo nel 1907 Papa san Pio X (1903-1914) concede a monsignor Joseph Wilpert (1857-1944), archeologo di chiara fama, questo eccezionale privilegio (12). Questi individua le tracce di tre successivi restauri. Quello nel nostro caso di maggior interesse è eseguito sotto il pontificato di Papa Alessandro III (1159-1181) e consiste nell’applicazione di un velo di seta dipinto sulla tavola sottostante, estremamente danneggiata dal tempo.
Sulla base di queste indicazioni padre Pfeiffer S.J. avanza l’ipotesi che il velo dipinto, applicato sopra l’immagine originale con un procedimento del tutto inconsueto, possa indicare che in passato nel Sancta Sanctorum si venerava un altro Velo, quello dell’Immagine di Camulia, forse nascosto da una maschera metallica. Quando questa può finalmente venir mostrata pubblicamente, sull’icona originaria si applica una copia dell’Acheropita, che era stata ormai trasferita definitivamente — fino al furto che si consumerà nei primi anni del secolo XVII —, con il titolo di Veronica, in San Pietro (13).
2. I modelli originari del volto di Cristo
Sempre secondo il padre gesuita gli archetipi a cui attingono fin dai primi secoli dell’era cristiana le immagini di Cristo, sia in Occidente che in Oriente, sono le uniche due Acheropite giunte fino a noi: la Sindone di Torino e il Volto Santo di Manoppello. Malgrado l’iconografia del volto del Salvatore si sia sviluppata con il passare dei secoli, essa tuttavia è rimasta sostanzialmente fedele a un tipo classico, che si riconosce in base a numerosi particolari caratteristici, o elementi spia, sempre presenti, almeno in parte, in tutte le rappresentazioni artistiche. È utile sottolineare che, a differenza degl’idoli pagani o delle immagini di Buddha, si tratta sempre di un volto asimmetrico e personale.
Questi elementi riconducono invariabilmente all’una o all’altra o ad ambedue le reliquie, mentre al tempo stesso testimoniano che queste esistevano ed erano note già almeno dal secolo IV.
La Sindone evidenzia maggiormente la struttura ossea mentre il Volto Santo, più rotondo, sottolinea gli aspetti vitali, gli occhi in particolare.
Là dove si può supporre una più diretta conoscenza della Sindone — o Mandylion o Immagine di Edessa (14) —, i caratteri iconografici del Telo di Torino sono prevalenti. Così avviene, per esempio, nei mosaici del Cristo Pantocratore a Costantinopoli e nelle aree permeate dalla cultura bizantina, mentre nel caso in cui si può supporre una conoscenza diretta della Veronica romana, come per l’arte fiamminga del 1400, prevale l’influenza di quest’ultima.
Tuttavia vi sono numerosi casi nei quali questo semplice schema non viene rispettato: secondo l’autore, nelle catacombe romane e nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo, del 520, gli occhi di Cristo sono quelli del Velo di Manoppello, che all’epoca non doveva ancora esser giunto in Italia. D’altra parte, se gli elementi spia appartenenti alle due Acheropite spesso sono riconoscibili nella stessa immagine o una di esse invade l’area ove, per ragioni geografiche e storiche, si sarebbe tentati di escluderne l’influenza, le indiscutibili coincidenze iconografiche aprono più problemi di quanti, allo stato attuale della conoscenze, non si sia in grado di risolvere. Padre Pfeiffer S.J. si pone infatti alcune difficili domande: “Furono fatti dei disegni secondo il modello del Volto Santo che oggi è venerato a Manoppello già verso la fine del IV secolo?” (p. 38). Come ricorda altrove lo stesso padre gesuita (15), sant’Ireneo di Lione (130 ca.-200 ca.) racconta, nell’opera Contro le eresie (16), che i seguaci dell’eresiarca gnostico egiziano Carpocrate (sec. II), possedevano e veneravano immagini di Cristo “[…] alcune immagini dipinte, altre fabbricate anche con altro materiale” (17), realizzate sul modello fatto eseguire da Ponzio Pilato “[…] nel tempo in cui Gesù era con gli uomini” (18). “Questi disegni furono fatti a Roma? I due modelli, la Sindone ed il Velo, erano ancora insieme a quel tempo? I due modelli erano insieme, ma separati l’uno dall’altro materialmente, o formavano ancora un’unità, con un pezzo di stoffa sovrapposto all’altro?” (ibidem). Domande legittime che rimandano però a un altro ordine di problemi sui quali già si sono versati fiumi d’inchiostro senza che si sia ancora giunti a una interpretazione coerente con l’insieme dei risultati proveniente dalle varie indagini sperimentali, storiche ed esegetiche. Quali e quanti furono i panni funerari utilizzati nella sepoltura di Gesù; come e quando furono utilizzati e in quale disposizione vennero collocati sulla salma e, infine, chi furono i primi possessori di tali reliquie e quale l’itinerario da queste percorso nei secoli successivi?
3. Volto Santo e icone del Volto di Cristo
A questo punto dell’analisi iconografica a padre Pfeiffer S.J. subentra suor Schlömer O.C.S.O. Come lei stessa racconta, diversi anni fa, ricoverata nell’infermeria dell’abbazia, è in qualche modo costretta a osservare l’unico oggetto che, oltre al Crocifisso, arredava le pareti della camera: la riproduzione di un Volto di Cristo conservato presso il Museo delle Icone di Recklinghausen, in Germania. Nel tentativo di riprodurlo inizia a famigliarizzarsi con i tratti caratteristici di quel Volto. In seguito ha modo di approfondire la conoscenza delle icone e della loro tecnica pittorica, fino a divenire lei stessa pittrice d’icone e a scoprire, non senza sorpresa, la presenza di alcuni elementi caratteristici che erano comuni ai Volti di Cristo osservabili in chiese e in musei, realizzati in un ampio arco di secoli.
Tutte queste osservazioni conducevano inevitabilmente a ricercare un prototipo. La religiosa trappista lo cercava in Oriente, nella Santa Sindone, l’immagine che era più cara al suo cuore; malgrado avesse conosciuto il padre gesuita, che le aveva parlato della Veronica romana conservata a Manoppello, in un primo tempo non volle interessarsene. Si decise infine dicendo a sé stessa che non spettava a lei rigettare a priori una venerata immagine solo perché i tratti somatici non erano quelli che avrebbe desiderato. E così, dopo una prolungata osservazione, è in grado d’individuare sul Velo di Manoppello molti tratti caratteristici o elementi spia, presenti in tutte le antiche icone di Cristo.
Nell’opera vengono analizzati sei esempi d’immagini famose disposte in ordine cronologico secondo la datazione storica loro attribuita, da quella relativamente più recente a quella più antica. Esse vanno da Il Risorto dell’Altare di Vyšši Brod, conservato nella Nationalgalerie di Praga, in Cechia, e datato 1350, al Cristo Pantocratore nell’abside della chiesa di Santa Prudenziana a Roma, della fine del 300. Le immagini inserite nel testo mostrano il Volto di Cristo e, a lato, lo stesso con il Velo sovrapposto (19), dalla parte anteriore o posteriore.
Davanti a queste ottime riproduzioni è doveroso anzitutto ricordare il detto antico, secondo cui contra factum non est argumentum. Infatti, mi pare balzi agli occhi la strettissima somiglianza fra il Volto di Manoppello e quello delle icone considerate, anche se alcuni elementi iconografici sono propri della Santa Sindone.
Si tratta di un risultato che sarebbe sufficiente a giustificare una maggior attenzione da parte dei sindonologi al Velo di Manoppello (20) e alle ricerche sin qui condotte da suor Schlömer O.C.S.O.
4. Volto Santo e Sindone
Se, spesso, nella stessa opera d’arte alcuni elementi propri della Santa Sindone appaiono contemporaneamente ad altri tipici del Volto di Manoppello, è pur vero che non era visibile in passato il Volto della Sindone, così come oggi lo conosciamo attraverso il suo negativo fotografico, con un’eccezionale ricchezza di particolari. Come sarebbe stato possibile riprendere alcune tracce delicatissime del Volto, se non fosse stata nota l’immagine impressa sul Velo? Eppure la tradizione, anche se espressa in racconti leggendari, non ha mai associato le due reliquie. Queste le domande che si pone anche suor Schlömer O.C. S.O.
A prima vista i due Volti sembrano escludersi vicendevolmente; a un’immagine dai contorni sfumati se ne contrappone una quasi fotografica. Qui colori sfumati, là colori forti. Il volto maestoso, solenne anche nella morte, si trasforma in un comune viso umano la cui bellezza affiora solo se lo si osserva a lungo con pazienza. Tuttavia, sovrapponendo il negativo della Sindone, successivo alla prima fotografia scattata da Giuseppe Enrie (1888-1961) nel 1931 (21), e la parte anteriore del Velo s’individuano ben dieci punti di congruenza. La religiosa trappista fornisce nel testo istruzioni molto dettagliate per ottenere tale sovrapposizione.
D’altra parte una prova immediata di questa sostanziale somiglianza si ottiene se si osserva che alcune celebri icone — per esempio, quella del Cristo del Monastero di Santa Caterina al Sinai — si sovrappongono quasi perfettamente sia alla Sindone che al Volto Santo.
Ancora una notazione. In altri scritti di suor Schlömer O.C.S.O. trovo un’affermazione che, a mio giudizio, dilata in modo improprio l’oggettiva corrispondenza constatata fra i due Volti: “Capii che la Sindone doveva esser letta diversamente: gli occhi non sono chiusi e si vedono anche i denti come nel Velo di Manoppello” (22). Mi limito agli occhi. Si può concedere che l’occhio sinistro sia socchiuso e che permetta d’intravedere la pupilla, perché l’ispessimento di forma circolare che si osserva al centro dell’occhio destro in questo caso è scivolato sul sopracciglio (23). Tuttavia che l’occhio destro sia chiuso, e vi sia un bottone o una moneta sovrapposto alla palpebra è provato con certezza (24) e non può venir ignorato.
Naturalmente questo appunto nulla toglie alla ricerca altamente meritevole e ricca di risultati di suor Schlömer O.C.S.O. né, tanto meno, all’opera curata e redatta da padre Pfeiffer S.J., esemplare oltre tutto per l’impianto logico e la concisione, e che perciò si raccomanda non solo agli addetti ai lavori ma anche a quanti vogliano conoscere una fra le meno note e fra le più misteriose reliquie della Cristianità.
Francesco Barbesino
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(1) Cfr., riassuntivamente, Pierluigi Baima Bollone, Sindone. 101 domande e risposte, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000; e Gian Maria Zaccone e Bruno Barberis (a cura di), Sindone, cento anni di ricerca, Centro Internazionale di Sindonologia e Poligrafico Zecca dello Stato, Torino 1998.
(2) Cfr. Heinrich Pfeiffer S.J. (a cura di), Il Volto Santo di Manoppello, CARSA, Pescara 2000. Tutti i rimandi all’opera sono inseriti nel testo fra parentesi.
(3) Sull’uso del termine “reliquia” e sulla problematica relativa, cfr. padre H. Pfeiffer S.J., Teologia della reliquia, in Il Telo. Giornale Italiano di Sindonologia, anno II, n. 4, Roma luglio-agosto 1998, pp. 18-21.
(4) Cfr. Tiziana Maria Di Blasio, Veronica. Il mistero del Volto. Itinerari iconografici, memoria e rappresentazione, Città Nuova, Roma 2000, pp. 14-19.
(5) Cfr. Dante Alighieri, Vita nuova, XL.
(6) Cfr. Idem, La Divina Commedia. Paradiso, canto XXXI, vv. 103-108.
(7) Cfr. Ian Wilson, La Veronica e la Sindone, in Il Telo. Rivista di Sindonologia, anno I, n. 1, Roma gennaio-aprile 2000, pp. 14-16.
(8) Circa il termine greco acheiropoíeton, “non fatto da mano d’uomo”, cfr. Mc. 14, 58, nel quale alcuni testimoni riportano l’affermazione di Gesù “Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo [cheiropoíeton] e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo [acheiropoíeton]“.
(9) La stessa informazione, sfrondata dai suoi caratteri leggendari, è fornita dal cronista bizantino Giorgio Monaco, detto Amartolo, “il peccatore” (sec. IX), nel suo Chronikon, dell’anno 842. In questo documento si dice che san Germano I, patriarca di Costantinopoli (m. 733), esiliato dall’imperatore Leone III Isaurico (717-741) per la sua ferma opposizione all’iconoclastia, portò seco nell’esilio la reliquia che poi inviò a Roma a Papa san Gregorio II (715-731). Questi fatti sono ripresi anche da alcuni codici greci della Vaticana del secolo XI, copie di un documento giudicato non posteriore di 130 anni agli avvenimenti narrati: cfr. Gino Zaninotto, L’Acheropita del Ss. Salvatore nel Sancta Sanctorum del Laterano, in Lamberto Coppini e Francesco Cavazzuti (a cura di), Le icone di Cristo e la Sindone. Un modello per l’arte cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 164-180.
(10) Il disaccordo su questo punto, certamente marginale, si fonda su alcune considerazioni: a. Giustiniano II, anche nel suo secondo regno, si mantenne perfettamente ortodosso. I solidi, le monete da lui fatte coniare, presentano il volto di Cristo, anche se a differenza del modello sindonico del primo regno, che sarà ripreso nei secoli successivi, presenta un Volto di tipo siriaco-palestinese che i numismatici — cfr., per esempio, James D. Breckenridge, The Numismatic Iconography Justinian II (685-695, 705-711 A.D.), The American Numismatic Society, New York 1959, pp. 98-99 — ritengono possa aver tratto ispirazione dalla Camuliana; in particolare, a differenza degli altri coni aurei, si vedono nettamente le pupille degli occhi. b. Dopo Giustiniano II il primo imperatore iconoclasta fu Leone III Isaurico, ma anche questo si pronunciò apertamente contro le immagini solo nel 727 e depose san Germano I nel 730. La data del 705 è tuttavia sostenuta, oltre che da padre Pfeiffer S.J., anche da altri autori poiché l’oratorio in San Pietro era di Papa Giovanni VII (705-707) e venne in seguito indicato come Oratorio di Santa Maria della Veronica e correva voce che lo stesso Papa vi avesse riposto la preziosa reliquia: cfr., per esempio, Ferdinand Gregorovius (1821-1891), Storia della città di Roma nel Medioevo, 1859-1872, trad. it., nuova ed. integrale a cura di Luigi Trompeo, Gherardo Casini Editore, s.i.l. 1988, vol. II, pp. 225-229.
(11) Per la verità nel “Liber Pontificalis” seu “Gestae” seu “Vitae pontificum romanorum” l’Acheropita, quale palladio, venne portata in processione da Papa Stefano II (752-757) dal Laterano fino alla Basilica di Santa Maria ad Presepe allorché, nel 753, il re longobardo Astolfo (m. 756) minacciò di distruggere la città; ma si dice anche che il Pontefice “si pose l’immagine sulle spalle” e questo particolare indurrebbe a escludere che si trattasse di un panno di stoffa: cfr. G. Zaninotto, op. cit., p. 168, nota 274.
(12) Cfr. ibid., pp. 172-177.
(13) Zaninotto condivide la suddetta ipotesi: “Per un certo periodo la tavola lateranense e la Camuliana convissero nello stesso ambiente: l’oratorio di San Lorenzo. Per l’influsso di questa, la tavola assunse il nome di Acheropita e assolse la funzione di palladio di Roma” (op. cit., p. 179); cita pure in nota lo scrittore inglese Gervasio di Tilbury (secc. XII-XIII) che, in un passo degli Otia imperialia, opera scritta all’inizio del secolo XIII per Ottone IV di Brunswick (1175 ca.-1218), constata un’evidente somiglianza fra il volto di Cristo della Veronica, conservato in San Pietro, e la tavola dipinta che si trova nell’oratorio di San Lorenzo (ibidem).
(14) Dal contesto sembra che padre Pfeiffer S.J. condivida senza obiezioni l’ipotesi, per altro altamente probabile, sviluppata in modo particolare dagli studi di Zaninotto e di Wilson dell’identità fra l’Acheropita conservata fino al 994 a Edessa e poi traslata come Mandylion a Costantinopoli e la Sindone di Torino.
(15) Cfr. H. Pfeiffer S.J., Dai Carpocraziani alla Sindone, in Il Telo. Rivista di Sindonologia, anno II, n. 4, Roma gennaio-aprile 2001, pp. 4-7.
(16) Cfr. Ireneo di Lione, Contro le eresie, I, 25, 6, in Idem, Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di don Enzo Bellini (1935-1981) e per la nuova edizione di Giorgio Maschio, Jaca Book, Milano 1997, pp. 45-483 (p. 105).
(17) Ibidem.
(18) Ibidem.
(19) Solo per l’Immagine di Edessa a Genova e L’Icona di Cristo in Vaticano, nella Sagrestia della Cappella Matilde — ambedue del 1200 —, nelle quali la corrispondenza con il Volto Santo di Manoppello non è perfetta, manca questa sovrapposizione. In compenso, nel testo compare la riproduzione sia dell’Icona di Recklinghausen, sia la stessa con il Velo sovrapposto.
(20) Cfr. P. Baima Bollone, Sindone o no, Società Editrice Internazionale, Torino 1990, p. 168.
(21) Per esempio, Enrico Morini, in Icone e Sindone — testo per altro assai pregevole —, in L. Coppini e F. Cavazzuti (a cura di), op. cit., pp. 17-34 afferma semplicemente: “Non prendo in considerazione invece il Volto Santo di Manoppello, dalle evidenti caratteristiche pittoriche post-rinascimentali” (p. 31, nota 38).
(22) Suor Blandine Paschalis Schlömer O. C.S.O., Penuel. Il volto del Signore, in Il Telo. Rivista di Sindonologia, anno I, n. 1, Roma gennaio-aprile 2000, p. 34.
(23) Mario Moroni e Francesco Barbesino: Le monete di Pilato ed i decalchi sugli occhi dell’Uomo della Sindone: ricerche numismatiche, prove sperimentali e nuovi riscontri, in Il Telo. Rivista di Sindonologia, anno II, n. 4, Roma gennaio-aprile 2001, pp. 30-36, memoria presentata al I Congresso Sul-Americano. I Congreso Brasilero sobre O Santo Sudario, svoltosi a Rio de Janeiro dal 2 al 4 settembre 1999.
(24) Cfr. quanto accertato mediante le ricerche degli studiosi statunitensi dello STURP — Shroud of Turin Research Project, il “Progetto di Ricerca sulla Sindone di Torino” — che hanno, con l’elaborazione elettronica, esplorato le zone orbitali della santa Sindone e le successive conferme ottenute dai ricercatori italiani dell’università di Torino Giovanni Tamburelli e Nello Balossino: cfr. Nello Balossino, Computer processing of the body image, in Silvano Scannerini e Pietro Savarino (a cura di), The Turin Shroud, past, present and future. International Scientific Symposium, Torino, 2.-5. March 2000, Sindon-Effatà Editrice, Torino-Cantalupa (Torino) 2000, pp. 111-124.