GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 249 (1996)
Finalmente è stato detto qualcosa di molto serio in tema di immigrazione. Infatti, finalmente qualcuno ha istituito un rapporto fra immigrazione e calo demografico. Il sociologo professor Giuseppe De Rita, segretario generale del CENSIS, il Centro Studi ed Investimenti Sociali, e presidente del CNEL, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, il 27 novembre 1995 ha inaugurato la Consulta per l’Immigrazione istituita dallo stesso CNEL e, nell’occasione, ha detto qualcosa d’importante; non tutto, certamente, ma qualcosa da cui cominciare seriamente (1). Ha detto che, secondo le stime dei demografi — affidabili nell’arco dei trent’anni —, l’Italia, nel 2025, avrà 37 milioni di abitanti, cioè 20 milioni in meno rispetto alla popolazione attuale (2). Quindi…
Comincio dal basso, dall’economia, non perché la disprezzi: anzi, ma perché le case si costruiscono — per ora — dalle fondamenta, e dalle fondamenta materiali. Poiché non è possibile immaginare che la Casa Italia — la preferisco alla cosiddetta Azienda Italia, perché ne sottolinea il momento globalmente umano piuttosto che quello esclusivamente produttivo — possa vivere nelle medesime condizioni economiche, allo stesso regime economico, con 20 milioni di abitanti in meno — anche prescindendo dalla composizione del corpo sociale in fasce d’età e dalla loro “cultura di lavoro”, che produce disoccupazione a fronte di opportunità occupazionali sgradite —, senza essere costretta a un ridimensionamento della sua strutturazione economica. Infatti — ha sentenziato lo stesso professor Giuseppe De Rita — “a quel punto, gestiremo l’Italia oppure faremo entrare 20 milioni di extracomunitari” (3); e il resto — aggiungo io — sono chiacchiere o farse.
A fronte di questa ipotesi, quali sono le provvidenze immaginate dalla classe politica, cui tocca — se non intende ridursi a classe amministrativa — non solo gestire l’esistente, ma anche il prevedibile, cioè orientare i comportamenti sociali, tenendo presente che né il trend demografico citato costituisce una novità, né la costituiscono le sue conseguenze sociali?
Se, fra le provvidenze eventuali e possibili per integrare a breve e a medio termine il vistoso deficit demografico, sta l’immigrazione, perché non fare dell’argomento il tema non di un inconcludente e verboso “discorso alla nazione”, ma di un “discorso con la nazione”, a partire da dati veri e da previsioni verosimili?
Senza dati non si ragiona, si fantastica. Senza dati non si possono avanzare previsioni, quindi immaginare adeguate provvidenze. Senza dati tutto è straordinariamente confuso, “nascosto” e “colorato” da prostitute orientali o dell’Europa Orientale, da viados, da piccoli spacciatori, da clandestini terzomondiali indotti a scambiare Torre del Greco con la Germania, da vu cumprà; nella migliore delle ipotesi, da collaboratrici familiari; raramente, per non dire mai, realisticamente costituito da marinai e da lavoratori agricoli stagionali, ancor meno da operai di ferriere.
“Ma non vi è solo l’economia”, dirà qualcuno. Assolutamente no; e mi auguro che questa osservazione non la faccia soltanto qualcuno. Vi sono una cultura, un passato, “conquiste”, “progressi”, da non abbandonare; insomma, una cultura, un passato, conquiste e progressi da trasmettere, cioè vi è una tradizione — con la “t” minuscola — da conservare e da trasmettere. Ma, qual è il possibile — e prevedibile — destino di un’eredità senza eredi? Oppure questa eredità non esiste, quindi si tratta di un falso problema?
Se si dovesse riconoscere che tale eredità esiste, che la sua trasmissione non costituisce un falso problema, realismo esige che si affronti il problema economico insieme a quello della trasmissione dell’eredità. Quindi, che si cerchi non solamente chi colmi gli enormi vuoti generazionali prodotti negli ultimi decenni nel tessuto demografico del popolo italiano — fra l’altro contribuendo per la continua reintegrazione del fondo pensionistico —, ma conservi quanto merita di essere conservato.
Ed ecco presentarsi il problema non solo del controllo dell’immigrazione — dopo essersene pubblicamente confessata l’utilità e l’indispensabilità a più titoli, e dopo aver smesso di recitare la farsa dei disturbati cui fa da pendant quella degli ospiti “scostumati” —, ma della sua promozione vigilata, concertando i flussi migratori con gli Stati possibili esportatori di mano d’opera, avendo presente, per esempio, che la Confederazione Elvetica ha ufficialmente, non clandestinamente, esportato per secoli soldati nel regno di Francia.
Finalmente — quando fosse divenuto chiaro che gl’immigrati servono al paese che li accoglie e che non si fa loro un piacere a riceverli ma che, nella migliore delle ipotesi, il piacere è reciproco — fra i parametri del controllo va posto in adeguato risalto anche quello relativo alla cultura dell’immigrato — quindi non la sua alfabetizzazione o il suo addestramento tecnologico, ma la sua “visione del mondo” —, da scegliersi fra le più contigue e le più compatibili con la cultura dei nativi del paese d’immigrazione. Ove la compatibilità non impedisce, ma certamente attenua le inevitabili frizioni con gli strati più disadattati e meno integrati del corpo sociale italiano, riducendo l’eventualità o almeno la dimensione della cosiddetta “guerra fra i poveri”. Questa attenzione ha un codicillo particolarmente ovvio — ma non per questo presente alla consapevolezza della pubblica opinione e degli uomini pubblici —, relativo alla precedenza da dare, fra i possibili immigrati, agli… emigrati con voglia di rientro. Poiché tali “emigrati con voglia di rientro” esistono, esistono anche dati in proposito? Cosa può dire il ministero degli Esteri relativamente alle domande di rimpatrio inevase, aspetto trascurato, ma non trascurabile, di una politica strisciante di multiculturalismo selvaggio? Se qualcuno fosse tentato di fare spallucce, immaginando cifre esigue, credo utile ricordare che attualmente gli emigrati italiani nel mondo sono circa cinque milioni, mentre il mondo degli oriundi — altra categoria da privilegiare con ogni evidenza — ha una consistenza superiore all’attuale popolazione italiana, dal momento che si aggira attorno ai sessanta milioni di persone.
Dunque, oltre a quello delle zingarelle che forse borseggiano, vi sono problemi molto seri. Da affrontare, come ha detto correttamente il professor Giuseppe De Rita, a mente fredda.
Dunque, un anziano signore, senza eredi e sempre meno autosufficiente, cerca chi lo assista e, ostentando talora disagio, talora dispetto, talaltra bonomia, vuol far credere di farlo per dar lavoro a qualcuno… Sarebbe meglio che confessasse anzitutto a sé stesso il vero, cioè la propria necessità, e che poi scegliesse un assistente sapendo che sarà pressoché inevitabilmente anche un erede, quindi anche sulla base della sua possibile comprensione del valore dell’eredità. Senza dimenticare di confessare, almeno al tramonto della sua esistenza, i danni prodotti sulla sua vita dai cattivi compagni frequentati in gioventù, per esempio quelli del Club di Roma, che l’hanno indotto al suicidio demografico nella prospettiva della propria e dell’altrui felicità, mentre egli oggi si trova almeno nella difficoltà di farsi assistere e di lasciare il proprio a terzi, per certo più prossimo dei suoi figli non nati, ma — ugualmente per certo — meno prossimo di quelli abortiti.
Giovanni Cantoni
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* Articolo anticipato, senza note e con il titolo Italiani, razza in via d’estinzione?, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLIV, n. 278, 1°-12-1995, p. 8.
(1) Cfr. R.R., L’Italia si spopola, in Corriere della Sera, 28-11-1995.
(2) Cfr. ibidem.
(3) Ibidem.