Di Matteo Matzuzzi da Il Foglio del 31/08/2021
Da domenica prossima e fino al 12 settembre, Budapest sarà teatro del 52esimo Congresso eucaristico internazionale che porterà nella capitale ungherese vescovi da ogni parte del mondo e – per la messa conclusiva – il Papa. Sarà presente anche Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli. Il programma è fitto, tra messe (molte parrocchiali in tutte le lingue, celebrate da vescovi e cardinali), momenti di preghiera, sessioni “operative” e testimonianze. Tutto inizierà con la grande messa d’apertura durante la quale è prevista la prima comunione per migliaia di bambini. Poi, l’adorazione eucaristica. Una settimana cristiana nel cuore del continente più secolarizzato. Chiediamo al padrone di casa, il cardinale Péter Erdö, arcivescovo di Esztergom-Budapest, se è attraverso questi segni che si convince il fedele tiepido, spesso con un modo tutto suo di essere cristiano, a essere davvero credente. “E’ possibile essere, oggi, credenti tiepidi? Un sondaggio ha indagato quali sono i valori più accettati tra la gente di oggi. Le possibili risposte tra le quali si poteva scegliere erano numerose. In un certo gruppo il risultato era che Dio occupava il quinto o il sesto posto in una dozzina di valori. Ma questo era una media, perché nelle risposte concrete molte volte Dio stava al primo o all’ultimo posto. Se crediamo in Dio, lui non può essere altro che il primo. Nelle decisioni esistenziali concrete, se siamo credenti, è lui il primo che dobbiamo prendere in considerazione. Nelle nostre società dell’Europa centro-orientale, le generazioni più anziane hanno pagato un grande prezzo se volevano restare fedeli alla loro religione cattolica. Anche oggi in determinate situazioni professarsi cattolico, comportarsi da cattolico coerentemente, può avere delle gravi conseguenze. Per il resto – aggiunge il cardinale Erdö – credere in generale in Dio e rifiutare la Chiesa è una posizione possibile ma non tanto cristiana, perché noi non crediamo in un dio filosofico astratto, bensì siamo discepoli di Gesù Cristo, Dio fatto uomo nella storia, crocifisso e risorto che ha lasciato alla Chiesa il suo insegnamento e l’Eucarestia e che ha dato il mandato di annunciare la Buona Novella”.
Da anni si sente parlare della necessità di rievangelizzare l’Europa. Ci hanno provato in tanti, ciascuno con le proprie idee e i propri progetti, ma il fiume della secolarizzazione sembra non avere ostacoli davanti a sé. E’ possibile che l’insuccesso di questi tentativi sia dovuto in primo luogo all’errata comprensione di ciò che non ha funzionato nella trasmissione della fede dalle vecchie alle nuove generazioni? Qual è la sua impressione? “Lei afferma che ‘il fiume della secolarizzazione sembra non avere ostacoli davanti a sé’. Forse possiamo avere questa impressione, guardando solamente le forze sociali in Europa ma, mi pare, che l’ostacolo più grande di una secolarizzazione senza limiti si trovi nella secolarizzazione stessa. Nella storia delle idee, si può osservare una prima fase di questa secolarizzazione nella quale il concetto di Dio è stato sostituito da un’altra cosa, specialmente con l’idea di progresso”.
“Allora si voleva servire questa grande idea con un atteggiamento quasi religioso. In una fase successiva, però, anche la secolarizzazione è stata secolarizzata e ci si domandava, giustamente, che cosa significasse progresso. Andare verso una situazione che rappresenta un valore più grande? Ma se Dio non esiste cos’è la base di comparazione che ci permette di giudicare cos’è prezioso? Ossia cosa significa andare avanti? Dov’è il davanti e dov’è il dietro? Per molta gente è rimasto il desiderio di sentirsi bene nel dato momento. Ma se questo è l’unico punto di vista, allora si capisce perché molti hanno paura dell’avvenire. Forse domani posso sentirmi meno bene, oppure si comincia ad aver paura degli altri perché è possibile che devo rinunciare a qualche cosa per gli altri. Allora anche l’individualismo può essere la conseguenza di questa mentalità. La risposta cristiana è quindi il rapporto personale con Cristo. Ciò significa un rapporto storico, concreto, perché Gesù Cristo è una persona storica e il rapporto con lui ha una concretezza storica che presuppone anche la testimonianza della Chiesa. D’altronde il rapporto con Gesù Cristo è anche un rapporto diretto ed esistenziale, non soltanto un fenomeno culturale. Questa immediatezza viene messa in risalto da movimenti spirituali e anche dalle cosiddette comunità carismatiche”.
Uno dei relatori previsti, Moysés Azevedo, ha detto che “in Europa la fede non è morta, sta solo dormendo”. A un europeo occidentale, che spesso osserva chiese semivuote e frequentate solo da anziani, sembra una frase azzardata. Spesso ha più la sensazione che ormai ci sia poco da fare. Esiste, se non una ricetta, una proposta valida per risvegliare questa fede assopita? Risponde l’arcivescovo di Budapest: “Non conosciamo, certamente, una ricetta per risvegliare la fede o la prassi religiosa nell’Europa occidentale, ma abbiamo delle esperienze storiche, per esempio dell’Albania, dove tutte le religioni erano proibite durante il regime comunista eppure con la libertà c’è stata una rinascita della religiosità. Esempi simili anche se non così estremi, potevano vedersi in alcune parti dell’ex Unione sovietica. La nostra esperienza di fede del 1989-1990, malgrado ogni gioco delle forze umane che stavano dietro ai cambiamenti, era la prova che qui agisce la Provvidenza divina, come se fosse stato comunque un vero e proprio miracolo. Per tornare alla persona menzionata nella domanda precedente, la sua comunità che si chiama Shalom è attiva anche a Budapest. Abbiamo visto conversioni e vocazioni tra quelli che si sono messi in contatto con loro. Gesù agisce anche in Europa e afferma anche oggi: Talita Kum”.
Guardando il programma del Congresso, spiccano le testimonianze: molti sono vescovi che arriveranno dalle più svariate parti del mondo. Spesso si tratta di pastori di Chiese ferite e perseguitate, di Chiese martiri. C’è un nesso con la sofferenza che ha patito a lungo, penso al Novecento, la Chiesa ungherese? “I cattolici ungheresi come in generale i popoli della nostra regione capiscono ancora la sofferenza dei perseguitati. Per questo il simbolo della preparazione del Congresso eucaristico è stata la Croce missionaria benedetta da Papa Francesco a Roma che contiene le reliquie dei santi ungheresi e di quelli della nostra regione, specialmente i martiri del XX secolo. Quando arrivano notizie di persecuzione dei cristiani o di attentati contro chiese o persone cristiane, sentiamo fortemente la fratellanza e la solidarietà e cerchiamo il modo di aiutarli. La religione cristiana, infatti, è quella più perseguitata nel mondo. Ascoltando le notizie sui nuovi martiri, cattolici e altri cristiani, sentiamo la verità delle parole di Papa san Paolo VI, che parlava dell’ecumenismo del martirio”.
Eminenza, viviamo in un’epoca in cui appare sempre più difficile trovare un equilibrio tra l’affermazione dell’identità nazionale e il mondo globale in cui viviamo. Spesso assistiamo a un’esaltazione degli opposti eccessi: da un lato l’esaltazione del proprio “orticello di casa”, dall’altro la promozione di utopie che vorrebbero un mondo unito senza confini. Come si può uscire da questa situazione? Che ruolo può giocare la Chiesa soprattutto all’inizio del millennio che aveva tanto insistito sul riconoscimento delle radici giudaico-cristiane nel nostro continente? “La Chiesa in Europa ha educato i singoli popoli. Non ha soppresso la loro identità, ma ha elevato la cultura di ciascuno di loro. La situazione ideale sarebbe quindi una fraterna comunione tra i popoli riconciliati. Questo si esprime nella visione escatologica del Salmo 87 dal quale abbiamo preso il motto per il nostro Congresso eucaristico. Tale salmo afferma che Egitto e Babilonia, Filistea, Tiro ed Etiopia tutti sono nati a Gerusalemme e il Signore registrerà nel libro dei popoli che tutti sono nati qui. Tale visione per noi sembra profetica, e può riferirsi alla Chiesa, ma può riferirsi anche alla pienezza dei tempi, dove non soltanto le singole persone ma anche i popoli possono avere una certa vocazione”.
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