Ignazio Cantoni, Cristianità 318 (2003)
Josef Pieper, La prudenza, trad. it., con prefazione di Giovanni Santambrogio, Morcelliana-Massimo, Brescia-Milano 1999, pp. 88, € 7,75
Josef Pieper, La giustizia, trad. it., con prefazione di Giovanni Santambrogio, Morcelliana-Massimo, Brescia-Milano 2000, pp. 144, € 10,33
Josef Pieper, La fortezza, trad. it., con prefazione di Giovanni Santambrogio, Morcelliana-Massimo, Brescia-Milano 2001, pp. 80, € 7,75
Josef Pieper, La temperanza, trad. it., con prefazione di Giovanni Santambrogio, Morcelliana-Massimo, Brescia-Milano 2001, pp. 128, € 9,30
Lo storico della filosofia e filosofo tedesco Josef Pieper nasce il 4 maggio 1904 a Elte, in Vestfalia, una regione storica della Germania ai confini con i Paesi Bassi. Studia nelle università di Münster, il capoluogo della sua terra natale dove ha sempre vissuto dal 1912, e di Berlino. Si laurea nel 1928 e, da quell’anno al 1932, è assistente al Forschunginstitut für Organizationslehre und Soziologie di Münster; poi, dal 1935 al 1940, lavora all’Institut für neuzeitliche Volksbildungsarbeit di Dortmund. Dopo una parentesi dovuta alla guerra, al servizio militare e a una breve prigionia, nel 1946 diventa professore di filosofia all’Accademia Pedagogica di Essen e libero docente nella facoltà di Filosofia di Münster; quindi, dal 1960 fino all’anno del pensionamento, il 1972, è ordinario di Antropologia Filosofica nella stessa facoltà. Muore il 6 novembre 1997, in un clima di quasi dimenticanza da parte di molti ambienti della cultura cattolica.
All’interno della sua produzione si trovano sette opere di particolare rilievo dal punto di vista della vita spirituale, riguardanti rispettivamente le quattro virtù cardinali e le tre virtù teologali. Edite in tedesco fra il 1934 e il 1972, sono state tradotte in italiano presso Morcelliana fra il 1953 e il 1974. Da tempo fuori commercio, le quattro opere sulle virtù naturali, La prudenza, La giustizia, La fortezza e La temperanza, sono riproposte in traduzioni talora rivedute e con prefazioni del professor Giovanni Santambrogio, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, inizio di un’auspicabile renaissance che riproponga almeno i non pochi testi di Pieper già tradotti in lingua italiana, oggi però introvabili (cfr. una panoramica anche bibliografica, in Bernard Schumacher [a cura di], Josef Pieper, in Grande Enciclopedia Epistemologica, Edizioni Romane di Cultura, Roma maggio-giugno 1997, n. 110).
Intento di Pieper è presentare al lettore contemporaneo le considerazioni sulle virtù svolte dal frate domenicano Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), santo e Dottore della Chiesa, proposto costantemente dal Magistero come “maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia” (Giovanni Paolo II, Enciclica “Fides et ratio” circa i rapporti tra fede e ragione, del 14-9-1998, n. 43). Ma non è solo questo il merito — sicuramente incontestabile — delle fatiche di Pieper: ve ne sono almeno altri due degni di nota.
Anzitutto, egli è stato in grado di cogliere, oltre la dottrina del Dottore Angelico, la sua stessa forma mentis, attenta alla ricerca della verità ovunque si trovi ma non dimentica mai che essa è ultimamente circoscritta dal mistero; in questo Pieper si è spesso distinto da esponenti della terza scolastica o neoscolastica, che sono scivolati in un’interpretazione razionalistica della lettera tomasiana.
Il secondo aspetto particolarmente felice dell’opera del filosofo tedesco è il raro dono di saper comunicare, in modo molto semplice, il nocciolo delle verità, con una chiarezza che non lascia spazio alla cattiva retorica; in questo, sia detto di sfuggita, salvando l’essenza comunicativa dello stesso Dottore Angelico, poiché ripropone le medesime pacatezza e semplicità della quaestio, della discussione tipica dell’università medioevale, all’uomo d’oggi, non avvezzo a tale genere letterario.
Ne La prudenza Pieper tratta della virtù che permette di dirigere ogni azione al debito fine, ricercando allo scopo i mezzi idonei, e come tale è insita in ogni altra virtù. Pieper fa notare d’esordio come, “secondo l’uso presente del parlare e del pensare, la prudenza sembra essere meno una premessa quanto piuttosto un’elusione del bene. Il bene è la prudenza: codesta affermazione suona quasi assurda per noi. Oppure noi la fraintendiamo come la formula di un’etica utilitaristica abbastanza palese. Infatti prudenza ci sembra abbia, secondo il suo concetto, più affinità col solo utile, col bonum utile, anziché col bonum honestum, col nobile” (pp. 20-21).
L’impostazione relativistica della prudenza è la seguente: per essa non solo non si dà alcun tipo di bene in senso stretto, ma non si ha nemmeno alcun principio morale che possa dirigere l’azione: pertanto, prudenza diviene inevitabilmente sinonimo di furbizia. Non così per la morale classica e cristiana: “La preminenza della prudenza significa che la realizzazione del bene presuppone la conoscenza della realtà. Fare il bene può solo colui che sappia come siano e come stiano le cose.
“La preminenza della prudenza significa che in nessun modo sono sufficienti la cosiddetta “buona intenzione” e il così detto “buon proposito”. La realizzazione del bene presuppone che il nostro agire sia conforme alla situazione reale — cioè: alle realtà concrete, che “circondano” una concreta azione umana — e che noi quindi prendiamo sul serio queste concrete realtà con lucida obiettività” (p. 31).
La prudenza ha in sé come dimensione irrinunciabile la ricerca dell’essere, cioè della realtà, in tutte le sue dimensioni; ciò comporta che essere prudente significa, di fronte a una qualsiasi situazione che ci obbliga ad agire, indagare innanzitutto sulla realtà che ci sta di fronte; sulla base di ciò determinare quale è il comportamento idoneo da tenere nei suoi confronti alla luce dei princìpi morali; quindi, grazie a tale quadro, trovare i mezzi necessari per perseguire il fine, cioè il bene, conosciuto.
Le premesse più importanti affinché si possa parlare di prudenza sono identificate nella memoria, nella docilitas e nella solertia. Con la prima “[…] si intende […] qualche cosa che non ha nulla a che vedere con qualsivoglia abilità “mnemotecnica” del non-dimenticare. […] non vuol dire altro che: la memoria “fedele all’essere” delle realtà” (p. 38).
Così, “la fedeltà della memoria significa invero che essa “serba” in sé le cose reali e gli avvenimenti come realmente sono e sono stati. La falsificazione del ricordo, contraria alla realtà, attuata dal “sì” o dal “no” del volere, è la rovina vera e propria della memoria” (ibidem).
La docilitas è “[…] la capacità di istruirsi, che al cospetto della molteplicità reale delle cose e delle situazioni da apprendere, rinuncia a fuggire nell’assurda autarchia di un sapere presunto” (p. 40), e come tale è frutto dell’umiltà.
Infine, la solertia è un potere “[…] in forza del quale l’uomo, quando l’improvviso gli si para dinanzi, non chiude gli occhi volutamente, per poi fare alla cieca, seppure con forza chiassosa, una cosa qualsiasi, ma bensì in virtù del quale egli può rapidamente, seppure con sguardo aperto ed obiettivo, decidersi per il bene ed insieme contro la tentazione all’ingiustizia, alla viltà, alla intemperanza” (pp. 40-41).
Ne La giustizia Pieper tratta della virtù grazie alla quale si rende a ciascuno ciò che gli spetta. Ma in forza di cosa qualcuno può indicare che qualche cosa o qualche atto gli sia dovuto? “È solo in grazia della creazione che nasce la possibilità di dire: a me compete qualche cosa” (p. 31), visto che, evidentemente, se non ci fossero enti non ci potrebbe essere proprietà né dal punto di vista del possessore né da quello del posseduto. Ma “anche pietre, piante e animali sono creati, eppure proprio non è possibile dire che spetti loro in senso stretto alcunché. […] un essere non spirituale non può propriamente avere qualcosa che gli appartenga” (p. 32). Pertanto, tali diritto a ricevere e dovere a corrispondere il dovuto si fondano “[…] sulla natura di colui al quale la cosa compete” (p. 35). Infatti, “proprio perché l’uomo è persona, vale a dire un essere spirituale che esiste intero in sé, per sé e orientato a sé e a motivo della propria perfezione — per questo compete a lui in senso assoluto qualcosa” (p. 37). Tali considerazioni richiamano immediatamente a Pieper il problema del diritto naturale e di quello positivo, cioè del diritto stabilito tramite leggi umane, e quindi in qualche modo convenzionale. Se la giustizia trova il proprio fondamento nella persona, ciò significa che non esiste giustizia allorché convenzioni umane, anche totalmente unanimi, riconoscono come giusto ciò che va contro la natura personale. La giustizia, in tal modo, acquista legami molto stretti con l’antropologia, con la metafisica e la teologia: “[…] l’uomo ha dei diritti irremovibili proprio perché è stato creato come persona per volontà divina, quanto dire sottratto ad ogni umana discussione. In ultima analisi qualcosa spetta all’uomo in modo assoluto proprio perché egli è creatura“ (p. 39).
Questo è l’irrinuciabile fondamento di qualsiasi discorso sulla giustizia e sul diritto. Infatti, date determinate contingenze, si potrebbe pure interrompere la loro fondazione al semplice concetto di persona: ma oggi ciò non è più possibile. “In epoche “moderate” non vi sarebbe […] nulla da obiettare. Non appena però vengano a spuntare negazioni estreme, ecco che non basta più fare assegnamento su fondamenti penultimi. In tempi in cui l’individuo viene trattato come se assolutamente niente abbia ad appartenergli a titolo di diritto, di suum (purché ciò non accada per un mero imbarbarimento di fatto della prassi del potere, bensì come conseguenza di teorie programmatiche), ben poco vale richiamarsi alla libertà della persona e ai diritti dell’uomo. Per l’appunto una esperienza del genere fa parte della nostra epoca” (p. 38).
Ne La fortezza Pieper sostiene che la necessità di questa virtù nasce da una considerazione che si può sintetizzare così: il male esiste, e bisogna resistergli. “La forza del male si manifesta nella sua terribilità. La lotta contro questa forza terribile — resistendo e assalendo, sustinendo et aggrediendo — è l’ufficio della fortezza […].
“Il liberalismo illuministico finge di non vedere il male nel mondo, dovuto sia alla forza demoniaca […], sia semplicemente alla forza misteriosa della cecità umana e del pervertimento della volontà; nel peggiore dei casi la forza del male non gli appare come “seriamente” pericolosa, tanto che non si possa “trattare” con essa e “venire ad un accomodamento”. Nella concezione liberale del mondo il “No” inquietante, spietato e irremovibile che per il cristiano è una realtà evidente, è spento. La vita etica dell’uomo viene falsata in una tranquillità, senza rischio ed eroismo; la via verso la perfezione appare come una “espansione” di tipo vegetale ed uno “sviluppo” che raggiunge il bene senza lotta” (pp. 31-32). È anche questa, per inciso, la causa dell’abdicazione di tanti cristiani, potenziali contro-rivoluzionari, che non hanno compreso — e date queste premesse, non lo possono — le reali profondità metafisiche della Rivoluzione stessa, la sensualità e l’orgoglio, al di là dei meri errori di giudizio, peraltro esistenti.
Pieper prosegue determinando meglio i già accennati modi essenziali per zelare tale virtù: la resistenza al male e l’assalto contro di esso. La prima, lungi dall’essere un retaggio pacifista, è “[…] il “luogo” della fortezza […] quell’estremo caso grave, circoscritto, in cui la resistenza è l’unica possibilità obbiettiva rimasta” (p. 52), in definitiva il martirio, che è la sopportazione estrema del male senza intimo smarrimento. Ma “il forte non sa soltanto sopportare il male inevitabile senza intimo smarrimento; egli non cessa nemmeno di “assalire” il male […] e di allontanarlo […]. Per far questo è però necessaria la disposizione all’assalto, come intimo atteggiamento del forte: coraggio, fiducia in se stessi e speranza di riuscire” (pp. 54-55).
Contestualmente al discorso sulla pazienza, Pieper riporta un passo di san Tommaso a commento del comando evangelico di porgere l’altra guancia (cfr. Mt. 5, 39), che è bene riportare per esteso. Nel commento al Vangelo di Giovanni, il Dottore Angelico scrive: “La Santa Scrittura si deve intendere secondo quanto Cristo stesso e i Santi hanno praticamente realizzato. Cristo però non ha offerto l’altra guancia a quel tale [il servo del Sommo Sacerdote che lo percosse (cfr. Gv. 18, 22-23)] […]. Dunque una spiegazione letterale interpreta erroneamente l’insegnamento del discorso della montagna. Questo insegnamento vuol parlare piuttosto della prontezza dell’anima a sopportare qualche cosa di simile o di più duro, se è necessario, senza alcuna sconvolgente amarezza per l’aggressore” (In Jo., 18, lect. 4, 2; pp. 58-59).
Il forte è messo al riparo dal disastroso egocentrismo dell’uomo contemporaneo, che non vuole rischiare nulla, perché troppo si ama, in nome di un bene superiore. La fortezza, al contrario, apre le porte al pensare grande, alla generosità, all’eroismo, uniche dimensioni veramente umane e divine dell’esistenza, ferma la frase evangelica “[…] chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt. 16, 25).
Ne La temperanza, infine, Pieper tratta della virtù che permette di tenere a freno i desideri disordinati dei piaceri sensibili. L’essere umano, infatti, essendo dotato d’istinti, quali, a titolo puramente esemplificativo, quello dell’autoconservazione, del nutrimento, della sessualità, dopo il peccato originale rischia di travalicare il legittimo soddisfacimento di tali esigenze, rinchiudendosi in un sempre più esasperato sfruttamento dei beni di cui ha comunque bisogno. Tale sfruttamento ha come conseguenza il togliere all’uomo la pace dell’anima, frutto non di apatia, ma d’intimo ordine fra le sue dimensioni sia fisiche sia spirituali. Così Pieper può affermare in modo chiaro che “temperanza significa: attuazione dell’ordine, dell’equilibrio nell’interno dell’uomo” (p. 28). Il filosofo prosegue: “L’elemento distintivo della temperanza (nei confronti delle altre virtù cardinali) è il suo esclusivo rapporto all’operante stesso. La prudenza guarda alla realtà concreta di tutti gli esseri, la giustizia regola i rapporti con gli altri, con la fortezza l’uomo, dimentico di se stesso, sacrifica beni e vita.
“La temperanza invece è ordinata all’uomo stesso” (ibidem). Con ogni evidenza, l’esclusivo rapporto con sé stessi non è sinonimo immediato di egoismo: infatti, “l’uomo ha due modi di convergere su di sé: l’uno disinteressato e generoso, l’altro egoistico. Il primo solo è capace di produrre un’auto-conservazione; il secondo è distruttore. La scienza del nostro tempo pensa che la genuina auto-conservazione dell’individuo consista in un volgersi dell’uomo su se stesso, e che la sua caratteristica consista nel fatto che l’uomo è ancora sconosciuto a se stesso […]. La temperanza è autoconservazione generosa e disinteressata. L’intemperanza è auto-distruzione che si attua attraverso il degenerare egoistico delle forze tendenti all’autoconservazione” (pp. 28-29). Ma come è possibile, chiederà qualcuno, che le forze autoconservatrici possano divenire mortali per la salute fisica e spirituale dell’uomo?
Il senso ultimo della temperanza è il seguente: “L’Angelico asserisce: è connaturale all’essere e alla volontà umana — come a ogni creatura in generale — amare Dio più che se stesso.
“Perciò: la violazione dell’amore di Dio riceve quella sua virulenza dissolvitrice, proprio dall’essere contemporaneamente in contrasto con la natura stessa e la volontà umana. Ed è per una ferrea ed intrinseca necessità che l’uomo, non amando nulla come ama se stesso, esinanisce e sovverte l’intimo senso dell’amore di sé, come d’ogni altro amore. E questo senso intimo consiste in una funzione di conservazione, di attuazione e di compimento. Funzione questa che è retaggio esclusivo di quell’amore di sé, generoso e non egoistico, che non appetisce ciecamente se stesso, ma tende ad armonizzare l’io e il mondo, fisso lo sguardo alla vera realtà di Dio” (p. 31). La perdita della radice ultima dell’amore di sé, ovvero l’amore di Dio, crea inevitabilmente uno svuotamento di significato delle azioni tese all’autoconservazione. Caratteristica comune alla trattazione cattolica — e in specifico tomasiana — del problema della temperanza è il rammentare sempre la bontà intrinseca dei beni sensibili, voluti da Dio stesso. Putroppo ciò viene talvolta misconosciuto, a favore di tendenze manichee — in cui solo apparentemente il rigorismo è l’opposto del lassismo — che intravedono in tali beni sensibili cose intrinsecamente malvagie, oppure, quantomeno, “mali minori”.
Si comprende quindi, nell’ottica cattolica, come alla sessualità temperante sia riservata la massima considerazione, dal momento che “quanto più una cosa è necessaria, tanto più occorre rispettare nei suoi riguardi l’ordine di ragione” (Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II IIae, q. 153, a. 3; p. 40).
Le opere di Josef Pieper sanno trasmettere uno degli aspetti più seducenti del fascino che san Tommaso ha sempre suscitato nei suoi lettori: la netta sensazione che quanto si sta leggendo sia vero.
Ignazio Cantoni