Pubblichiamo il comunicato del Centro Studi Rosario Livatino, del Forum Socio-sanitario e del Movimento per la Vita Italiano sul codice deontologico ed etico della professione sanitaria relativamente al caso del suicidio assistito. Roma 15 febbraio 2020
Il Centro studi Rosario Livatino, il Forum delle Associazioni socio sanitarie e il Movimento per la Vita Italiano esprimono preoccupazione per il testo, approvato il 6 febbraio 2020 da parte del Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo), degli “indirizzi applicativi dell’articolo 17” del Codice deontologico medico, che ha fatto seguito alla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale sul suicidio assistito: un testo che stabilisce «la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare», qualora ricorrano le condizioni previste dalla Consulta per la non punibilità nel giudizio penale del medico che abbia aiutato al suicidio.
Premesso che la scelta di completo adeguamento alla sentenza non era per l’Ordine obbligata né necessaria, ci chiediamo come si concili un Codice deontologico così modificato alle ancora vigenti disposizioni della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, che (art. 1 co. 2 L. 833/78) definisce quest’ultimo «il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione»: poiché non è ben chiaro a quale degli obiettivi propri del SSN – la promozione, il mantenimento, il recupero della salute – si ascrive l’aiuto che il medico è chiamato a dare al suicidio, ci si trova di fronte al paradosso di una norma deontologica che tutela il paziente meno rispetto a una norma di legge positiva.
Quel che sorprende è che un Ordine, qual è quello dei medici, assuma una decisione che va in controtendenza rispetto all’autonomia della professione. La sentenza n. 242 non fissa l’obbligo per il medico di assecondare l’intenzione suicidiaria, e anzi ricorda che costui continua ad avere come faro esclusivo la propria “coscienza”; prima ancora, la l. 219/2017, istitutiva delle DAT- disposizioni anticipate di trattamento, ha stabilito all’art. 1 co. 6 che «[…] Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali».
Se la legge 219 rinvia alla “deontologia professionale”, e la sentenza 242 richiama la “coscienza del singolo medico”, vuol dire che le regole della disciplina medica hanno un loro peso e non sono in tutto subordinate a quelle della legge dello Stato: perché allora cambiarle, o integrarle, riprendendo la lettera – controversa e opinabile – della sentenza 242? Comportarsi come se le disposizioni deontologiche fossero per intero sottoposte alla legge significa per un verso avallare una visione statalistica del diritto, negando rilievo all’autonomia dei gruppi sociali – fra i quali gli Ordini professionali -, e quindi al pluralismo dell’ordinamento; per altro verso delineare una sorta di “etica di Stato”, con la subordinazione a quest’ultimo di quella coscienza che chiama in causa la professionalità e l’autonomia del medico. Ribadiamo che non può essere una legge dello Stato o una sentenza della Consulta a stabilire che cos’è la professione medica, prescindendo dalle norme di tradizione plurimillenaria che l’Ordine ha maturato al proprio interno: non può esserlo senza ledere al tempo stesso l’etica del medico, e quella relazione con l’Ordine di riferimento su cui si fonda la fiducia dell’assistito. L’invocato “raccordo” tra norme deontologiche e norme giuridiche non può giungere a violare l’essenza costitutiva della professione medica: tutela della vita e della salute, sollievo dalla sofferenza.
Per tutto questo auspichiamo sul punto un opportuno ripensamento, e comunque la non archiviazione di un dibattito sull’etica della professione sanitaria, oggi ancora più importante rispetto al passato.
Roma, 15 febbraio 2020