Silvia Scaranari, Cristianità n. 408 (2021)
Qual è lo Stato più islamico al mondo? Molti risponderebbero l’Arabia o il Pakistan o il Marocco; invece è l’Indonesia, un Paese di straordinaria importanza strategica ed economica nel Sud-Est asiatico.
17.508 isole, 270 milioni di abitanti, 1.340 etnie e 2.500 lingue parlate, fra cui 27 ufficialmente riconosciute oltre alla lingua nazionale, il Bahasa Indonesia: ecco uno spaccato di questo mondo che si dilata per 1.913.578,68 kmq, un’estensione pari a oltre sei volte quella dell’Italia.
Da sempre proiettato sul mare, apre i commerci con la Cina e con l’India già nei secoli VI-VII e da esse assorbe induismo e buddhismo, oltre a diverse strutture socio-politiche. Nel secolo XIV mercanti persiani e indiani vi introducono l’islam, che cresce poco per volta fino a diventare la religione della maggioranza della popolazione.
Dopo tre secoli di dominio olandese ottiene l’indipendenza nel 1949, diventando una repubblica presidenziale. È da sempre un Paese che ha la pluralità nelle sue vene ma oggi le cose stanno cambiando.
Parliamo di Indonesia con don Donatus Maria Triman Andi Wibowo, salesiano, professore universitario, molto attento alle dinamiche sociali e religiose del suo Paese.
Nato nel 1964 a Kendal, nell’isola di Giava, segue studi filosofi e teologici prima in Indonesia e poi a Roma presso la Pontificia Università Antonianum. Intanto, nel 1991, viene ordinato sacerdote salesiano. I suoi interessi filosofici sono decisamente poco «ecclesiali»: la sua prima tesi ha come titolo Human Existence according to Erich Fromm (Esistenza umana secondo Erich Fromm) e la seconda, per la laurea, The Power of Error in K. R. Popper’s P1 → TT → EE → P2” (La potenza dell’errore in P1 → TT → EE → P2 di K. R. Popper). Vicario episcopale e responsabile della casa per la gioventù a Malang, è contemporaneamente professore di Filosofia del Diritto, Etica delle Professioni Legali, Antropologia Legale e Filosofia della Scienza presso l’Università Cattolica Widya Karya di Malang e poi professore di Filosofia dell’Uomo e Metodologia della Ricerca Scientifica. Trova comunque il tempo per fondare gli Indonesian Philosophical Studies (IPHILS) nel 2014 e scrivere decine fra articoli e saggi sul circolo ermeneutico, sull’interpretazione della legge, sull’ermeneutica della pubblicità in televisione, sul rapporto tra fisica e libertà, passando per riflessioni sull’amore umano e sull’educazione senza tralasciare interrogativi esistenziali quali «Cos’è esistere?» e «Cos’è il reale?».
D. Don Wibowo, può presentare in poche parole la sua Patria?
R. L’Indonesia è un arcipelago enorme, il più grande del mondo, e anche la sua popolazione è la più composita del mondo. Parliamo migliaia di lingue e apparteniamo a migliaia di etnie ma fra le tante ne emergono alcune. I cinque gruppi etnici più numerosi sono i giavanesi (40,2%), i sudanesi (36,7 %), i batak (3,6%), i sulawesi (3,2%) e i maduresi (3,03%). Le religioni ufficialmente riconosciute dallo Stato indonesiano sono islam, cattolicesimo, protestantesimo, induismo, buddismo e confucianesimo, a cui solo recentemente si sono aggiunte alcune credenze popolari.
L’islam è la religione della maggioranza, circa l’87%, cioè 216 milioni di persone; è dominante in tutte le province tranne Bali, Nusa Tenggara Timur, Kalimantan Barat, Sulawesi Utara, Maluku, Papua Barat dan Papua, e ha una forte concentrazione urbana. La stragrande maggioranza dei musulmani indonesiani appartiene al sunnismo, mentre solo lo 0,5% è sciita.
I cristiani — cattolici e protestanti — sono soltanto il 9,87% della popolazione e rappresentano la maggioranza nelle province di Nusa Tenggara Timur, Sulawesi Utara, Papua Barat e Papua. In altre parole, i cristiani vivono soprattutto nella parte orientale dell’Indonesia e per due terzi sono dediti ad attività rurali.
Rispetto ai protestanti, che sono il 6,96% della popolazione, i cattolici rappresentano solo il 2,91% e hanno una presenza significativa soltanto nelle provincie di Nusa Tenggara Timur, Kalimantan Barat e Yogyakarta.
Le altre confessioni religiose sono decisamente inferiori: i buddisti vivono nella provincia di Giacarta e sono normalmente di etnia cinese, mentre gli indù rappresentano l’83% della popolazione solo nell’isola di Bali. Gli indù, ma soprattutto i buddisti, vivono prevalentemente nelle città.
D. Veniamo alla situazione religiosa. In Indonesia è stato adottato da tempo il metodo della Pancasila. Può spiegarci che cos’è, come e se funziona? Garantisce la libertà religiosa? È possibile annunciare il Vangelo? Sono possibili i matrimoni interreligiosi?
R. Pancasila è un’ideologia nazionale su cui si fonda l’Indonesia come Stato e come nazione. Etimologicamente deriva dalla parola sanscrita «panca» che sta per «cinque» e «sila» per «i princìpi»; quindi Pancasila significa «i cinque princìpi». Tutti e cinque sono inseparabili e interdipendenti fra loro:
- 1.Fede nel solo e unico Dio.
- 2.Umanità basata sulla giustizia e sulla civiltà.
- 3.Unità dell’Indonesia.
- 4.Democrazia guidata dalla saggezza interiore dell’unanimità derivata dalle deliberazioni dei rappresentanti.
- 5.Giustizia sociale per tutto il popolo indonesiano.
In teoria la Pancasila dovrebbe garantire la libertà religiosa, perché al punto 1, dove si afferma la «fede nell’unico e solo Dio», il termine Allah indica genericamente il Dio delle religioni riconosciute e non solo l’islam.
Siamo molto lontani dalle posizioni adottate nel 2013 in Malaysia, quando il governo ha proibito ai non musulmani di usare il termine Allah. La libertà religiosa è garantita non solo dalla Pancasila ma anche dalla Costituzione del 1945, articoli 28E e 29; dalle leggi n. 39 del 1999, articolo 22, e n. 12 del 2005; dal Codice Penale, articoli 156 e 175; e dal decreto presidenziale n. 1/PNPS del 1965.
Nonostante ciò, vi sono alcuni regolamenti regionali discriminatori, come la legge n. 1 del 1974 che proibisce i matrimoni interreligiosi; il decreto congiunto del ministero degli Affari Religiosi e del ministero dell’Interno n. 8 e n. 9 del 2006, secondo cui la costruzione di nuovi luoghi di culto deve essere sostenuta almeno da novanta credenti aderenti, da sessanta persone locali e anche dall’ufficio distrettuale del ministero degli Affari Religiosi e del Forum per l’Armonia Religiosa del distretto (FKUB), prima che il sindaco entro novanta giorni decida o meno di dare la sua approvazione.
Secondo Robin Bush, «l’Indonesia non applica la legge della shari’a a livello nazionale, ma si stima che almeno 52 dei 470 distretti e comuni dell’Indonesia abbiano introdotto più di 78 regolamenti ispirati alla shari’a» (1). Per tutti gli indonesiani la libertà religiosa è in realtà un problema molto complesso, che non ha a che fare solo con la religione ma anche con altri aspetti della convivenza: politica, economia, cultura, geopolitica e addirittura il complesso psicologico post-coloniale del Paese.
È un compito da realizzare, anzi da risolvere, giorno per giorno. Nonostante tanti sforzi fatti sia nel campo politico sia in quello legale, il problema della tolleranza e della libertà religiosa non si è mai risolto adeguatamente. Faccio notare, per esempio, che l’appartenenza religiosa deve essere registrata sulla carta di identità personale, cosa che dà adito a possibili discriminazioni.
Anche in campo politico è in crescita l’intolleranza. Il 59% dei musulmani sostiene che un non musulmano non possa avere il diritto di diventare presidente dell’Indonesia, il 55% vicepresidente, per il 52% neanche sindaco. Di fatto, secondo Burhanudin Muhtadi, direttore dell’istituto di sondaggio Indikator Politik, il 30,7% dei musulmani sono molto intolleranti, il 17,1 % intolleranti e soltanto il 32,2% tolleranti.
D. Negli ultimi anni si è notata una crescente intolleranza da parte musulmana. Sono emersi nella cronaca internazionale episodi di aggressione da parte di gruppi jihadisti e secondo diversi studiosi del fenomeno le schegge impazzite del fallito Stato islamico stanno cercando di trovare nuove basi per ripartire. Una di queste potrebbe essere proprio qualche isola indonesiana. L’idea di uno Stato islamico gode di consenso sociale o è un fenomeno marginale?
R. La maggioranza dei musulmani indonesiani appartiene all’ahlussunnah wal jama’ah,ossia all’islam sunnita; mentre il resto sono gli sciiti, Ahmadiyah, Islam Jama’ah, Salamullah, Inkar Sunnah, al-Qiyadah al-Islamiyah, Al Haq, e così via.
Questi ultimi gruppi, essendo di minoranza, subiscono frequentemente atti di odio e di ostilità da parte di correnti estremiste.
Pur non essendo mai arrivati a una situazione ideale, il clima di tolleranza era buono nel secolo scorso.
Oggi la situazione sta in certi casi degenerando. L’islam tradizionalista viene rappresentato dall’organizzazione sociale Nahdlatul Ulama (NU) (2) mentre i modernisti lo sono dalla Muhammadiyah (3).Tutte e due le organizzazioni giocano un ruolo molto importante nella politica indonesiana e nella dinamica socio-religiosa del Paese.
Secondo Haidar Alwi, attivista dell’antiradicalismo, vi sono tre tipi di radicalismo/estremismo islamico in Indonesia:
1) un radicalismo in ambito di fede secondo cui molte persone sono kafir (infedeli) e andranno all’inferno;
2) un radicalismo in azione, come Jamaah Ansharut Daulah (JAD), che usa tutti i mezzi per uccidere nel nome della religione;
3) un radicalismo politico che vuole trasformare l’Indonesia in un khilafah (Stato islamico). Nell’anno 2015, Ansyaad Mbai, già membro dell’Agenzia Nazionale Contro Terrorismo, ha detto che vi erano diciotto gruppi radicali indonesiani affiliati all’ISIS: fra l’altro, Mujahidin Indonesia Barat, Mujahidin Indonesia Timut, Jamaah Tawhid Wal Jihad, Forum Aktivis Syariah Islam, Pendukung dan Pembela Daulah, Gerakan Reformasi Islam, Asybal Tawhid, Ansharul Kilafah Jawa Timur, Laskar Jundullah, Jamaah Ansharut Tauhid, Front Pembela Islam, Jamaah Islamiyah, Hizbut Tahir Indonesia, Jamaah Ansharut Daulah,e così via.
Se all’inizio del secolo gli indonesiani vivevano in un clima di serena relazione fra le diverse appartenenze religiose, oggi si vede una tensione crescente. Le azioni violente sono ancora criticate dalla maggioranza ma sempre più sono coloro che si dimostrano favorevoli e che, pur non prendendo parte, ne appoggiano lo spirito.
D. Nonostante il crescente clima di intolleranza, i cristiani ricoprono cariche politiche e sociali importanti? Sono ben integrati nelle attività della vita quotidiana?
R. Anche se non sono tanti, i cristiani hanno sempre dimostrato la loro dedizione alla patria e in particolare al bonum commune civitatis.
Nelle comunità a base della società alcuni detengono posti strategici, come capo del villaggio, tesoriere, segretario, o anche solo hanno un certo carisma e vengono considerati all’unanimità modelli pubblici da seguire.
Molti cristiani fanno parte di movimenti socio-caritativi — volontariato sociale e umanitario — e di vari gruppi di dialogo interreligioso, come Gusdurian e FKUB.
A livello nazionale alcuni hanno ottenuto posti di grande rilievo pubblico e sono ambasciatori, ministri o viceministri, direttori generali di qualche ministero, oppure membri del parlamento. Molti di loro vivono il loro incarico come un vero e proprio «apostolato» verso il prossimo, cioè come un lavoro serio per il bene di tutti i cittadini della Repubblica.
D. Come vede Lei il futuro del suo Paese?
R. Il motto nazionale impresso sulla nostra bandiera è Bhinneka Tunggal Ika, unità nella diversità o diversità nell’unità, letteralmente «molti, ma uniti».
Indica l’apertura degli indonesiani verso il diverso. Si nasce, si vive, si muore sempre circondati dal diverso, in molte forme. Non vi è spazio per la xenofobia o per lo chauvinismo radicale. Inoltre, il motto esprime un desiderio o un compito da realizzare, da vincere giorno per giorno. Ecco perché Bhinneka Tunggal Ika non ci fa dire che «tutto è a posto» ma ci stimola a lavorare. Non possiamo nasconderci tutti i problemi reali d’intolleranza, di discriminazione, di persecuzione, insomma la paura del pluralismo e della libertà. Questi vi sono e dobbiamo ripeterlo senza stancarci, ma per noi la diversità è una sorta di chiamata verso un sano pluralismo e una convivenza pacifica, che è l’opposto del relativismo o dell’indifferentismo sociale. L’unità è un’energia di rispetto, di reciprocità e di amore verso il diverso, e non di totalitarismo sociale, politico e religioso.
Trascurare anche uno solo di questi aspetti provocherebbe un disastro per l’intero popolo, ridurrebbe a pezzi l’orgoglio di una convivenza pacifica, tradizionalmente conservata finora, che deve restare un progetto perseguito e realizzato ogni giorno.
Note:
1) Robin Bush, Regional Sharia Regulations in Indonesia: Anomaly or Symptom?, nel sito web <https://www.academia.edu/2446949/10_ REGIONAL_ SHARIA_ REGULATIONS_ IN_ INDONESIA_ ANOMALY_ OR_ SYMPTOM>, p. 2 del pdf, consultato il 30-4-2021.
2) Fondata da Hasjim Asjari (1875-1947) nel 1926, è in origine la risposta indonesiana conservatrice al crescente movimento modernista della Muhammadiya. Asjari è un maestro — nel 1929 in Egitto un altro maestro, Hassan al Banna (1906-1949), fonda i Fratelli Musulmani — che vive e opera a Giava. Inizialmente, come i Fratelli, si propone di agire nel sociale con attività caritative, costruzione di scuole e ospedali, raccolta di generi di prima necessità nell’intento di combattere la povertà. Pur essendo espressione di un islam conservatore, nel 1928 decide di adottare la lingua indonesiana al posto dell’arabo nei sermoni durante la preghiera del venerdì o nelle celebrazioni pubbliche ufficiali. Una svolta decisiva verso la politica avviene durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), quando Hasjim proclama il jihad contro gli antichi coloni olandesi. Alla fine del conflitto il movimento partecipa con altri alla fondazione di un partito politico, il Masyumi, con l’intento di ricostituire uno Stato islamico in Indonesia. Quando il Presidente Sukarno (Kusno Sosrodihardjo, 1901-1970) nel 1953 rifiuta questa ipotesi, Nahdlatul Ulama inizia a sobillare la contestazione e nel 1957 prende parte alla ribellione Permesta. Subito dopo inizia a lavorare per creare una rete fra la NU, il Partito dell’Unione islamica Indonesiana (PSII) e l’associazione educatori islamici (PERTI) per formare il Blocco Islamico finalizzato alla creazione di uno Stato Islamico, ottenendo il 44,8% dei seggi parlamentari. Poco dopo NU patisce delle divisioni interne sulle diverse modalità di intendere la partecipazione politica e una sua ramificazione vede la figlia di Hasjim, Gus Dur, assumere la leadership. Nel 1998 proprio lei dà vita al Partito per il Risveglio Nazionale (PKB), che nelle elezioni del 1999 ha ottenuto il 13% dei voti. Oggi il movimento ha trovato nuovamente una sua collocazione, più vicina alle origini, con un netto impegno nell’ambito della educazione e della predicazione. Promuove attività educative con più di 6.800 scuole islamiche (pesantren), 44 università e diversi istituti impegnati negli studi sullo sviluppo agricolo e sulla crescita demografica. Si calcola che i suoi aderenti siano più di trenta milioni.
3) Muhammadiyah, invece, è stata fondata nel 1912 da Ahmad Dahlan (1868-1923), nell’isola di Giava, al fine di ottenere la riapertura della «porta dell’ijtihad» ovvero la possibilità di interpretare i testi sacri (Corano e Sunna) in modo moderno, senza i rigidismi del taqlid (interpretazione tradizionale) praticato dagli Ulama conservatori. Oggi è diffusa in tutta la Repubblica con circa 29 milioni di membri. Fin dalle origini il punto centrale del movimento è stato il sistema educativo al fine di offrire una formazione equilibrata fra tradizione islamica e modernità. Dahlan ha aperto scuole primarie e secondarie, convinto che l’educazione dei giovani fosse la strada maestra per riportare il popolo indonesiano a un islam purificato da un certo diffuso sincretismo con le religiosità locali e allo stesso tempo aperto alle istanze dei tempi moderni. Recentemente le scuole del movimento sono state aperte anche a non musulmani e lo stesso vale per le molte e diverse attività caritative da loro gestite. Pur avendo dichiarato, fin dalla fondazione, che il movimento non avrebbe dovuto avere un’espressione partitica, durante il periodo di riforme del 1998 alcuni soci spinsero la dirigenza ad un maggiore attivismo politico. La proposta venne rifiutata ma si concesse la libera partecipazione, tanto che oggi molti suoi membri sono impegnati in diversi partiti svolgendo anche ruoli di primaria importanza.