Dal punto di vista giuridico
Infondatezza di sofismi e obiezioni avanzati a difesa della duplice iniziativa referendaria del MpV
L’infelice duplice iniziativa referendaria del direttivo del MpV viene talvolta difesa con asserzioni di totale infondatezza.
I
Per esempio, l’asserzione secondo cui, se entrambe le proposte – pur diversamente votate – ottenessero oltre il 50% dei voti favorevoli, sarebbe il comitato promotore, ossia il MpV, a decidere, e a indicare la proposta cui attribuire l’effettiva vittoria referendaria.
L’asserzione è di infondatezza assoluta, e non necessita, evidentemente, di essere discussa, stanti le disposizioni di legge (cfr. legge 25 maggio 1970, n. 352) che disciplinano l’istituto del referendum e indicano gli organi competenti per tale decisione.
II
Secondo un’altra asserzione infondata, la soluzione «minimale» del direttivo del MpV si limiterebbe a ricalcare, senza ulteriormente dilatarli, i limiti posti dalla sentenza n. 27/1975 della Corte Costituzionale.
L’asserzione si manifesta come palesemente e gravemente difforme dalla verità, e deve, invece, essere affermato che la soluzione abortista «minimale» del direttivo del MpV aggrava enormemente l’iniquità della sentenza 27/75 della Corte Costituzionale.
Con tale sentenza, infatti, la Corte non fa che ampliare – pur con gravissima ingiustizia – la previsione dello «stato di necessità», come causa di non punibilità dell’aborto, introducendo – ben oltre l’immediato pericolo per la vita della madre – il «danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile» anche solo per la salute della madre. Ma con tale sentenza l’aborto rimane un reato, e la sussistenza delle cause di non punibilità è accertata con un giudizio ex post dalla magistratura, così che chi procedesse all’aborto saprebbe di doversene assumere la responsabilità penale, dovendosi comunque rigorosamente provare – al fine di escludere la responsabilità – la sussistenza di tale situazione di grave pericolo.
Con la soluzione abortista «minimale» del direttivo del MpV, invece:
1. Sono enormemente ampliate le indicazioni terapeutiche.
Infatti, non si tratta più del «danno o pericolo grave, medicalmente accertato» per la salute della madre, ma bastano anche solo le premesse ipotetiche di tale pericolo grave: basta che siano indicati «processi patologici» tali da determinare il pericolo. Ad essere accertati, infatti, non sono più il «danno o pericolo», ma i «processi» che li determinerebbero (cfr. art. 7). Inoltre, non è più necessario che il «pericolo grave» sia «non altrimenti evitabile»: anche se fosse «altrimenti evitabile», la sola esistenza dei «processi» che lo determinerebbero sarebbe sufficiente ad autorizzare l’aborto.
2. L’aborto è preventivamente autorizzato e legalizzato.
Diversamente da quanto fa la sentenza 27/75, con la soluzione «minimale» del direttivo del MpV l’aborto cessa di essere un reato: non è più questione di non punibilità, bensì di positiva autorizzazione e legalizzazione, e questo grazie al meccanismo della «certificazione» dei «processi»: basterà che l’indicazione della sussistenza dei «processi» sia proceduralmente corretta per aversi non più una verifica ex post circa l’eventuale non punibilità, ma un’autorizzazione ex ante che pone l’aborto sotto la tutela della legge. Inoltre il controllo relativo alla sussistenza dei motivi per tale autorizzazione preventiva è praticamente abbandonato per intero alla «buona fede» del medico abortista, interamente protetto, per parte sua, dalla sola correttezza procedurale della «certificazione» che gli consente di auto-autorizzarsi all’omicidio. Se tale buona fede mancasse (e come supporla, in chi cerca pretesti per praticare l’omicidio?), non rimarrebbe comunque nulla, per perseguire il medico, se non una improbabile, e probatoriamente diabolica, prova di falsità ideologica; e, si badi, per perseguirlo non in ordine all’aborto in sé stesso (la correttezza procedurale dell’auto-certificazione lo protegge), ma in ordine all’attestazione di una malattia inesistente.
3. Si dispongono l’assistenza e il finanziamento pubblici dell’aborto, e l’obbligo della sua esecuzione.
Infine, nella soluzione «minimale» del direttivo del MpV vi sono i gravissimi elementi che certamente non sono ricavabili dalla sentenza 27/75 della Corte Costituzionale: l’organizzazione, l’assistenza e il finanziamento di Stato per l’esecuzione degli aborti, e l’obbligo, per gli enti che esercitano attività ospedaliera e per le case di cura autorizzate, di eseguire «in ogni caso» gli aborti richiesti.
Tutti gli elementi indicati attestano l’infondatezza e la falsità dell’asserzione secondo cui il direttivo del MpV si sarebbe limitato a ricalcare i limiti della sentenza della Corte Costituzionale. Al contrario, il direttivo della MpV li ha dilatati enormemente, senza che nessun motivo lo costringesse a farlo o gli impedisse di espungere le norme che prevedono, per esempio, il finanziamento e l’assistenza di Stato e l’obbligo dell’esecuzione.
III
Secondo un’altra asserzione infondata e assolutamente inconsistente, contro una richiesta di referendum mirante all’abrogazione di ogni norma legalizzatrice dell’aborto (prescindendo dallo stato di necessità: art. 54 c. p.) potrebbe formularsi l’obiezione secondo cui la Corte Costituzionale potrebbe dichiarare, in sede di controllo preventivo, l’inammissibilità di tale richiesta, con la motivazione della illegittimità costituzionale della normativa consequenziale all’abrogazione.
Tale infondata asserzione o obiezione nasce dalla confusione tra sindacato di legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge, previsto dall’art. 134 della Costituzione e disciplinato in particolare dagli artt. 23-36 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e sindacato di ammissibilità del referendum, previsto dall’art. 75 comma 2º della Costituzione e disciplinato specificamente dall’art. 33 della legge 25 maggio 1970, n. 352.
Quest’ultimo articolo di legge, al comma 4º, esplicitamente statuisce che la Corte Costituzionale, chiamata al giudizio di ammissibilità, «decide con sentenza […] quali tra le richieste siano ammesse e quali respinte perché contrarie al disposto del 2º comma dell’articolo 75 della Costituzione». Il comma 2º dell’art. 75 della Costituzione, d’altra parte, stabilisce: «Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali».
La deliberazione di ammissibilità, pertanto, concerne soltanto l’oggetto della richiesta di referendum e si restringe alla verifica del contenuto della legge sottoposta al procedimento abrogativo (art. 75 comma 2 Costituzione): nel nostro caso, si restringe a giudicare se la legge 22 maggio 1978, n. 194, sia o non sia da annoverare tra «le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali».
Benché la Corte Costituzionale, con sentenza recente, abbia ritenuto di ampliare l’ambito dei poteri esplicitamente attribuitile dall’art. 75 comma 2º Costituzione e dall’articolo 33 comma 4º legge 25 maggio 1970 n. 352, si deve osservare che tale estensione dei poteri è stata ottenuta attraverso il rinvenimento di un limite logico implicitamente ritenuto connaturato alla struttura giuridica del procedimento abrogativo popolare. E, soprattutto, si deve osservare che tale limite nulla ha da spartire con l’anticipazione, al momento del giudizio di ammissibilità, del giudizio sulla legittimità della legge consequenziale. Infatti, motivando nella sentenza n. 16 del 1978 l’inammissibilità di alcune richieste di referendum, la Corte così si è espressa: «[…] la normativa dettata dall’art. 75 non implica affatto l’ammissibilità di richieste comunque strutturate, comprese quelle eccedenti i limiti esterni ed estremi delle previsioni costituzionali, che conservino soltanto il nome e non la sostanza del referendum abrogativo. Se è vero che il referendum non è fine a sé stesso, ma tramite della sovranità popolare, occorre che i quesiti posti agli elettori siano tali da esaltare e non da coartare le loro possibilità di scelta; mentre è manifesto che un voto bloccato su molteplici complessi di questioni, insuscettibili di essere ridotti a unità, contraddice il principio democratico, incidendo di fatto sulla libertà del voto stesso (in relazione agli articoli 1 e 48 Costituzione)».
Limite preventivo alla proponibilità del referendum, oltre a quello esplicitamente previsto dalla legge, è dunque unicamente quello che si ricava dall’esigenza che il quesito proposto all’elettore non incida di fatto sulla libertà del voto, per l’impossibilità di ridurre a unità una serie di quesiti afferenti a problemi diversi ed eterogenei.
La natura e la funzione, dunque, del giudizio preventivo di ammissibilità, quale risulta precisato anche dalla sentenza citata, impediscono che il giudizio sulla proponibilità della richiesta abbia a oggetto profili di illegittimità delle discipline consequenziali all’avvenuta abrogazione.
In via preventiva, invero, la Corte è chiamata a giudicare non della legittimità di una certa disciplina normativa rispetto ai canoni costituzionali, bensì della competenza del corpo elettorale a pronunciarsi su determinate materie. I due giudizi non costituiscono un doppione, ma si riferiscono a problemi diversi: in via preventiva il giudizio (di ammissibilità) concerne il potere dell’organo (corpo elettorale); in via successiva il giudizio (di legittimità) concerne la conformità o meno della norma ai precetti costituzionali. E che le cose stiano così è confermato dal fatto che la legge non attribuisce alla Corte Costituzionale, in sede di giudizio di ammissibilità, il potere e il dovere di svolgere il complesso lavoro interpretativo volto alla ricerca (presupposto del giudizio di legittimità) relativa alle future discipline consequenziali da applicare in seguito all’abrogazione per referendum: indagine questa che spetta per legge all’autorità giudiziaria, che in via incidentale soltanto può provocare giudizio di legittimità della norma.
Riprova, infine, dell’assoluta impossibilità per la Corte di prendere in esame in sede di giudizio di ammissibilità aspetti eventuali di illegittimità della disciplina consequenziale, si ricava dal pronunciamento della stessa Corte sull’ammissibilità del referendum sulle norme penali in materia di aborto (Corte Costituzionale, sentenza 18-22 dicembre 1975, n. 251): in quella occasione, invero, la Corte aveva esplicitamente limitato il suo compito all’accertamento dell’ammissibilità delle richieste di referendum ai sensi del comma 2º art. 75 Costituzione, dandosi carico di giudicare «se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell’art. 75 Costituzione siano ammissibili ai sensi del comma 2º dell’articolo stesso». E si badi che tale pronuncia era successiva alla sentenza della stessa Corte del 18 febbraio 1975, n. 27, con la quale, pur dichiarandosi parzialmente illegittimo l’art. 546 codice penale, si era però affermato il rilievo costituzionale della vita del concepito. Rilievo costituzionale che sarebbe stato completamente messo nel nulla dalla disciplina consequenziale (pertanto costituzionalmente illegittima) al referendum abrogativo allora proposto dai radicali.
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I dati a cui si è fatto riferimento – della cui rilevanza chiunque abbia competenza giuridica non può non tenere conto adeguato – sembrano dunque largamente sufficienti a palesare l’infondatezza e l’inconsistenza delle asserzioni esaminate, alle quali volentieri – a fronte di quesiti posti dal Consiglio Direttivo di Alleanza Per la Vita – sono date le attuali doverose risposte.
dr. Carlo Alberto Agnoli
giudice presso il Tribunale di Bolzano
dr. Francesco Mario Agnoli
giudice presso il Tribunale di Ravenna
componente del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati
presidente del MpV di Ravenna
dr. avv. Mauro Ronco
docente di Diritto Penale presso l’Università di Torino
Roma, 31 agosto 1980.