Continuiamo a raccogliere interviste di vescovi italiani per documentare ai nostri lettori che cosa avviene nelle diverse diocesi. Siamo convinti che l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Covid-19 è una grande tragedia nazionale e mondiale, ma anche un’occasione per fare emergere la forza straordinaria presente nel nostro popolo, in particolare in coloro, come i medici, gli operatori sanitari e i sindaci, che sono più esposti e coinvolti in questa battaglia. Una forza che vorremmo emergesse è anche quella del mondo cattolico, dei tanti sacerdoti che sono rimasti accanto ai fedeli, dei laici che aiutano anziani e poveri.
La fede ha una dimensione pubblica irrinunciabile: essa deve essere visibile e incarnarsi nella vita quotidiana, soprattutto a beneficio dei più deboli, dei tanti che hanno bisogno di “toccare” la presenza divina attraverso un’esperienza visibile. Non vorremmo che l’emergenza in corso potesse impedire domani, ritornati a una condizione di normalità, il pieno contributo che la fede può dare alla costruzione del bene di una comunità perché, come dice il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, «una Chiesa ridotta alle sagrestie non fa bene allo Stato».
D. Ec.za mons. Camisasca, molti fedeli, ma anche cittadini non particolarmente praticanti, sono preoccupati davanti al crescere del numero dei contagiati e dei morti a causa del coronavirus e d’altra parte dal protrarsi della impossibilità di partecipare alle Messe, impedimento che molti dicono si protrarrà per tutta la Settimana Santa. Eppure la Chiesa non ha rinunciato al suo compito e soprattutto nelle diocesi si sforza di essere vicina ai fedeli il più possibile. Ci vuole raccontare cosa avviene nella sua?
R. Ho cercato in ogni modo di spiegare le ragioni delle scelte dei vescovi, e quindi anche mie, in merito alle celebrazioni senza popolo. Ho scritto due lettere a tutti i fedeli, una ai presbiteri e una ai diaconi. Le decisioni prese non sono state facili, né senza dolore. Nessun vescovo, nessun prete, nessun fedele può pensare che le celebrazioni liturgiche senza popolo siano una questione da trattare a cuor leggero. Nello stesso tempo ho aderito, dopo lunga preghiera e riflessione, alle ragioni espresse dai vertici della Conferenza Episcopale. Ogni fedele sa, o dovrebbe sapere, che l’Eucaristia è un bene più grande della vita e che tutto può essere messo in discussione, di fronte a quel bene. Nello stesso tempo, non possiamo mettere in pericolo la salute di un intero popolo. Sarebbe una pessima testimonianza da parte della Chiesa. Si tenga poi presente che i frutti dell’Eucaristia sono ben vivi nel popolo cristiano, anche in ragione delle Sante Messe celebrate ogni giorno dal vescovo e dai sacerdoti: la fede, la carità, la speranza, la pazienza, la serenità, la pace, la comunione. La “fame” di Eucaristia ci rende più attenti al grande dono che essa rappresenta e ci renderà meno formali quando potremo riaccostarci al banchetto eucaristico. Ho poi cercato di essere vicino al mio popolo con un piccolo messaggio serale, lanciato attraverso la televisione locale e su internet, in cui leggo un testo letterario per offrire spunti di riflessione e di memoria. Noto poi, con ammirazione, che molti educatori e responsabili di comunità non hanno perduto tempo: si collegano periodicamente attraverso i social con i ragazzi e i giovani delle loro comunità. La lontananza rende creativi e desiderosi di comunicazione. Sto riflettendo con i giovani della mia Diocesi sulla figura del profeta Geremia, vissuto come noi oggi in un’epoca drammatica: cercando di rispondere alle domande che lui ha posto a Dio, troviamo anche la strada per rispondere alle questioni pesanti ed urgenti che l’epidemia pone a noi stessi. Questioni relative alla giustizia e alla speranza. I sacerdoti della mia Chiesa, come i diaconi, i religiosi e molti laici, cercano di essere vicini in mille modi ai malati, alle famiglie, a chi è solo e abbandonato. Quel miracolo della carità che Manzoni vedeva esercitato dai Cappuccini nel lazzaretto della peste dei Promessi Sposi, oggi vive in molti preti e laici della mia Chiesa.
D. Oltre all’essere accanto ai fedeli e a tutti i cittadini che soffrono, la Chiesa appare emarginata dal dibattito pubblico seguito al diffondersi dell’epidemia. Si tratta quasi esclusivamente degli aspetti medici, della prudenza che bisogna avere rimanendo a casa, delle conseguenze economiche, tutte cose importanti e sacrosante, ma non si accenna quasi mai agli aspetti antropologici, quasi che l’uomo fosse solo una macchina produttiva dedita al consumo. Esiste una “questione culturale” che appare anche in questa circostanza, e se sì come interverrebbe sul punto?
R. Esiste certamente questa questione cui Lei accenna. Mi impressiona assistere, soprattutto sui giornali, alla cancellazione di ogni domanda sul significato di ciò che sta accadendo. Tuttalpiù le riflessioni avvengono in chiave sociologica: siamo chiamati ad uscire dall’individualismo, a riscoprire le relazioni, a un nuovo stile di vita… Tutte cose molto giuste, che ho detto anch’io. Ma non ci si può fermare qui. Bisogna arrivare alle domande radicali, senza misconoscere i diversi piani della realtà. È chiaro che le ragioni del diffondersi di un virus vanno cercate dagli scienziati e dai medici, che ci sono rimedi che solo la medicina può trovare. Ma è altrettanto chiaro che riconoscere o meno l’esistenza di Dio, la sua provvidenza, la sua grazia che rende possibile uscire dal peccato, il suo perdono, la certezza della sua presenza… tutto questo è l’unico fondamento sicuro per poter affrontare il presente e ricominciare dopo questo terribile tunnel.
D. A seguito delle disposizioni contenute nei decreti del Presidente del Consiglio (e, pertanto, in atti non aventi forza di legge), concernenti le cerimonie religiose (proibite alla stessa stregua degli altri eventi ludici, culturali o fieristici), autorevoli giuristi hanno ritenuto di vedere una aperta violazione delle norme concordatarie. Non ritiene che, in tal modo il principio di laicità dello Stato ha conosciuto una pericolosa involuzione, passando dall’indifferenza nei confronti dell’organizzazione religiosa a forme di vera e propria proibizione degli atti di culto, seppur giustificate dall’emergenza sanitaria? Pensa che possa esservi il rischio che un tale atteggiamento, che incide inevitabilmente sulla dimensione pubblica del culto, possa riproporsi in futuro dinanzi a nuove “emergenze”, così progressivamente relegando la fede ad affare esclusivamente privato ed intimistico e, di fatto, limitandone per i fedeli la libertà di pubblica professione?
R. Penso che questo rischio sia presente e che, una volta superata questa situazione drammatica in cui siamo immersi, si debba riflettere su tutti questi temi. La comunità cristiana non è una controparte dello Stato, i suoi fedeli contribuiscono al bene di tutti proprio essendo sé stessi. La preghiera e la liturgia hanno un valore sociale, oserei dire politico, come scriveva il cardinale Jean Daniélou (1905-1974) alcuni decenni fa (cfr. L’orazione, problema politico, Ed. Arkeios, 1993). Una Chiesa ridotta alle sagrestie non fa bene allo Stato.
Mercoledì, 25 marzo 2020