Di Giacomo Gambassi da Avvenire del 03/09/2024
Ha vissuto per mesi con la musica ossessiva che saturava la cella d’isolamento in cui era stato rinchiuso. «C’era un altoparlante in un angolo della minuscola stanza. E per tutto il giorno da lì uscivano canzoni sovietiche». Una pausa. «Ecco come si riesce a far impazzire le persone. Ed ecco perché così tanti prigionieri di guerra si tolgono la vita durante la detenzione». Un altro flash. «Quando mi hanno messo per la prima volta in cella, c’era un giovane in piedi che guardava fisso nel muro. Ed è rimasto così per l’intera notte. Poi ho capito che era stato sottoposto all’elettroshock. E gli avevano intimato che, se non avesse saputo a memoria l’inno russo, lo avrebbero ucciso la mattina dopo. Lo ha imparato in una sorta di stato di trance. Lo avevano catturato con la sua fidanzata perché aveva gridato in strada “Gloria all’Ucraina!”». Padre Bohdan Geleta è uno dei testimoni del “metodo gulag” segnato da torture, violenze e privazioni che la Russia impiega nei campi dove vengono internati i prigionieri di guerra ucraini. Perché lui è stato uno di loro.
Religioso redentorista e sacerdote della Chiesa greco-cattolica, è rimasto nelle mani dei militari di Putin per «un anno e sette mesi», dice. Insieme con padre Ivan Levitskyi, redentorista anche lui. Entrambi preti a Berdyansk, la città affacciata sul mare d’Azov nella parte della regione di Zaporizhzhia conquistata dai russi all’inizio della guerra. Ed entrambi arrestati il 16 novembre 2022 dagli uomini dell’Fsb, i servizi segreti di Mosca. Senza un’accusa specifica. «Ci hanno offerto subito di collaborare ma non abbiamo mai ceduto», spiega padre Geleta. In diciannove mesi i due sacerdoti si sono trovati in tre diversi luoghi di reclusione. Fino allo scorso 27 giugno quando sono stati liberati, in uno scambio di prigionieri fra Ucraina e Russia che anche la Santa Sede contribuisce a favorire come “via di dialogo” grazie all’intervento in prima persona di papa Francesco, alla segreteria di Stato, alla rete delle nunziature e alla missione di pace del cardinale Matteo Zuppi. «La preghiera è stata la mia forza – confida padre Bohdan -. Non sapevo se sarei sopravvissuto ma posso dire di aver condiviso con Cristo la sua croce e la sua sofferenza». Eppure, ammette il sacerdote nell’intervista realizzata con il dipartimento per la comunicazione della Chiesa greco-cattolica ucraina, nonostante la ritrovata libertà, la sua vita e il suo ministero non sono più come prima. «La guerra cambia tutto e tutti. Una parte di me è ancora lì, in mezzo a quanti sono ancora prigionieri. E oggi mi sento chiamato a continuare a pregare e a servire le persone che hanno vissuto e vivono questi traumi». La liberazione dei sacerdoti era stata salutata con parole di affetto da papa Francesco e i due preti avevano incontrato il cardinale Pietro Parolin a conclusione della visita del segretario di Stato vaticano in Ucraina lo scorso luglio.
Padre Bohdan, partiamo dalla sua missione di sacerdote in un territorio sotto occupazione come Berdyansk.
Quando è iniziato il conflitto, la città sembrava estinta, come in un film di fantascienza. Nessuno per strada: solo il vento e le foglie. Tutti i negozi chiusi. Abbiamo accolto chi fuggiva da Mariupol aprendo anche le porte del monastero. Nessuno ci ha proibito di pregare ma l’80% dei nostri parrocchiani aveva lasciato la zona. Nei mesi d’occupazione abbiamo continuato a celebrare le liturgie e a incontrare la gente. Ma più volte abbiamo visto un’auto con la lettera “Z” dell’esercito russo intorno alla chiesa. E il pensiero che un giorno o l’altro ci avrebbero portato via non ci ha mai abbandonato.
Il vostro presentimento si è concretizzato nel novembre 2022.
Padre Ivan è stato fermato nel centro cittadino dove era andato a guidare la preghiera. Io al termine di un funerale. Due persone con il volto coperto sono entrate in chiesa. Avevano le armi. E hanno detto in russo: “Vieni con noi”. Ho chiesto loro in ucraino perché fossero entrati in chiesa in quel modo. Mi hanno risposto che non capivano l’ucraino e che avevamo violato alcune norme: in particolare dovevamo chiedere il permesso alle autorità locali per pregare in città. Ma lo facevamo da nove mesi. E siamo finiti nel polo di detenzione preventiva di Berdyansk.
Così è iniziato l’incubo della prigionia.
Immediatamente siamo stati separati. Io sono stato messo nella cella numero tre. Eravamo in 7 o 8 in un locale per due reclusi. Dormivamo sul pavimento. I muri erano fradici di umidità. Nei quattro mesi che abbiamo trascorso lì, abbiamo visto passare molti reclusi: alcuni rimanevano una settimana, altri mesi. Si udivano anche le grida provenire dai corridoi perché c’erano persone che venivano torturate: era orribile.
Come è stato giustificato l’arresto?
Fin da subito l’Fsb ci ha chiesto di collaborare ma non siamo mai scesi a compromessi. Abbiamo solo detto la verità: che questa è una guerra e che gli occupanti sono criminali. E lo abbiamo fatto sempre a viso aperto. Ho anche spiegato che non volevo il passaporto russo. Poi a distanza di settimane mi hanno rivelato che erano state trovate alcune armi nella nostra chiesa e che sarei stato processato e condannato a 25 anni di carcere.
Solo falsità.
Per le autorità russe la nostra Chiesa è una setta che si è separata dall’ortodossia e che va sradicata. E la loro violenza è anche supportata dal fanatismo religioso.
Poi sono arrivati i trasferimenti.
Siamo finiti in un’altra prigione, la 77° colonia penale di Berdyansk dove la mia cella era invasa dalla musica. La preghiera è stata la salvezza. E ho sentito anche la preghiera della Chiesa, a cominciare da quella del Papa e del nostro arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk. Dopo dove mesi, ho rincontrato per la prima volta padre Ivan: siamo stati bendati e ammanettati prima di essere caricati in un’auto. Per tre giorni siamo stati in uno scantinato. Poi siamo giunti nella colonia di Horlivka.
Altra città ucraina occupata della regione di Donetsk, nell’autoproclamata Repubblica popolare filorussa.
Lì abbiamo passato dieci mesi, quelli più duri. Io non sono mai stato picchiato, ma padre Ivan sì. E ha perso conoscenza due volte. Siamo stati rasati. Ci hanno dato le uniformi. Ed è iniziata la vita da prigionieri di guerra marcata da troppi abusi. Molti dei nostri compagni erano giovani militari: ragazzi di 21 o 22 anni catturati dopo le prime settimane di invasione. Poi c’erano i soldati del battaglione Azov che erano i più maltrattati. Avevamo tutti gli stessi abiti, tranne i soldati di Azov che dovevano essere distinguibili. Le giornate erano scandite dal lavoro: in realtà scavavi una buca, la riempivi o strappavi l’erba. Le uniche informazioni che avevamo erano filtrate dal nemico: che l’Ucraina era caduta, che Zaporizhzhia era stata occupata, che Kharkiv era in mano russa, che l’esercito di Putin avrebbe presto raggiunto Kiev e i confini della Polonia. Alcuni di noi ci credevano; la stragrande maggioranza no perché ogni giorno sentivamo i colpi d’artiglieria e le esplosioni: significava che la guerra non era persa.
Mai una celebrazione.
Tutti sapevano che eravamo preti. Però i secondini ci hanno proibito di dialogare con gli altri o di radunare chicchessia. Ci incontravamo solo noi due per pochi minuti al mattino e alla sera. Avevamo una Bibbia in russo, leggevamo un brano e recitavamo il “Padre nostro” e l’“Ave Maria”. Ma ci bastava.
Ci si abitua?
Impossibile abituarsi. Spesso mi domandavo dove i soldati russi trovassero la forza per essere così crudeli.
Come è avvenuta la liberazione?
Più volte era stata ventila l’ipotesi di un rilascio in occasione delle maggiori festività: il Natale, la Pasqua, qualche ricorrenza civile. Ma solo a maggio è arrivato un segnale chiaro. Non sapevamo che fosse l’attesa liberazione. Anzi, pensavamo che ci avrebbero deportati in Russia, in qualche posto remoto della Siberia. In un aereo abbiamo incontrato altri cento ucraini. Ci hanno portato a Mosca e tolto le manette. Poi di nuovo a volto coperto ci hanno caricato su due velivoli e poi in un elicottero. Alla fine eravamo in dieci e siamo entrati in Bielorussia, poi in Ucraina dove è avvenuto lo scambio.
Dopo due mesi dal rilascio, come si convive con un fardello così pesante?
Anzitutto voglio dire, specialmente alle madri, alle mogli, alle famiglie che hanno una persona reclusa, di non perdere la speranza. E poi mi sento legato da una misteriosa solidarietà spirituale a quanti restano in stato di detenzione: non possono e non devono essere dimenticati.