L’Iraq conteso tra il progetto della “mezzaluna sciita”, dal Libano a Teheran, e lo speculare tentativo, da parte della Turchia, di unire tutti i popoli turchi. Rischia ancora una volta di andarci di mezzo l’Occidente
di Silvia Scaranari
L’Iraq, che è stato la culla della civiltà ed un mosaico di diversità etniche e religiose fin dall’antichità, oggi è sinonimo di insicurezza e instabilità, di violenza e di tensione. Dopo la lunga dittatura di Saddam Hussein, l’occupazione occidentale mal tollerata, l’ascesa dell’Isis e milioni di sfollati, ecco le conseguenze della pandemia e la crisi economica, che compongono il quadro di una nazione molto provata dagli eventi. Negli ultimi giorni si aggiunge una certa instabilità sociale, con ribellioni di piazza e impiego di forze armate per ristabilire l’ordine dopo le dichiarata dimissioni da leader politico di Muqtaba al-Sadr, fondatore e guida del movimento sciita “sadrista” che al momento detiene la maggioranza relativa dei seggi in Parlamento.
Ma occorre fare un passo indietro per comporre un quadro, o meglio un vero mosaico. Il popolo iracheno è musulmano al 97-98% (1,2% cristiano, con una riduzione di circa il 90% dal censimento del 1997, 0.2% yazida), ma con un’importante distinzione fra sunniti (circa il 34%) e sciiti (circa il 65%).
I sunniti, sebbene minoritari, durante il lungo governo di Saddam Hussein hanno goduto di significativo potere in quanto identificati con il partito Ba’th del presidente. Identificazione decisamente erronea, in quanto il movimento Ba’th (Partito del Risorgimento Arabo Socialista), fondato poco dopo la Seconda guerra mondiale dai siriani Michel Aflaq e Salah al-Din al-Bitar, si è sempre qualificato come panarabo, ben poco religioso e molto politico. Allo stesso tempo, è vero che il governo di Saddam ha fortemente ostacolato, e in certi momenti anche apertamente perseguitato la maggioranza sciita considerata una quinta colonna del vicino e acerrimo rivale Iran.
La caduta del regime dittatoriale ha portato all’emergere di nuovi gruppi politici, al risveglio di movimenti religiosi e alla nascita di nuove formazioni. Il ritorno in patria di molti leader religiosi esiliati e l’influenza dei vicini Iran e Libano hanno portato diversi gruppi a guardare alla politica interna ed estera con una vivace dialettica, dove la contrapposizione sciiti-sunniti è stata il punto cruciale. La comune avversione verso l’occupazione militare occidentale ha costretto i due gruppi ad una malvoluta alleanza, subito dissolta dall’avvio della “normalità democratica” messa in atto alcuni anni fa.
Gli sciiti iracheni vivono in maniera molto ambigua il rapporto con l’Iran. Come sciiti vedono nel Paese del grande imam Khomeini un punto di riferimento, guardano alla Rivoluzione del 1979 come ad un esempio cui tendere, ma non tutti condividono l’asservimento alle direttive religiose e politiche di Qom, rivendicando l’autonomia di Najaf. Qom e Najaf sono, infatti, le città simbolo dell’islam sciita. Qom, in Iran, è stata la città di Khomeini, luogo da lui scelto per risiedere e da lì guidare la nazione: è ancora oggi considerata la seconda città santa dell’Iran (dopo Mashhad ‘Alì, la città di sepoltura dell’ottavo imam dello sciismo duodecimano ‘Alì al Rida o Reza), meta di migliaia di pellegrini ogni anno e sede di prestigiose scuole coraniche.
Najaf, in Iraq, è città santa perché luogo di sepoltura di ‘Alì, cugino e genero del Profeta, ultimo dei quattro califfi “ben guidati” secondo i sunniti e primo imam per gli sciiti. Terza città santa di tutto l’islam, è meta di milioni di pellegrini e sede delle più prestigiose scuole coraniche del mondo sciita. A Najaf risiede la massima autorità,il grande ayatollah ‘Alì al-Sistani, le cui sentenze sono considerate inoppugnabili. Costui è salito al potere dopo l’assassinio nel 1999 di Muhammad Sadiq al-Sadr e di due suoi figli. Muhammad Sadiq al-Sadr aveva fondato il movimento politico-religioso sadrista, che alla sua morte si divise in due, uno fedele a Moqtaba al-Sadr, figlio del fondatore e sostenuto dal gruppo armato Esercito del Madhi, l’altro con Muhammad Ya’tubi, fedele seguace del grande ayatollah iraniano Kadhim al-Haeri, successivamente confluito nel partito Fadila (virtù).
Moqtaba al-Sadr è nato a Najaf, ma in una famiglia di origini libanesi: figlio di Mohammed Sadeq al-Sadr, è sempre stato molto vicino al cugino, l’imam Musa al-Sadr, fondatore del movimento spirituale libanese “Lega dei diseredati”, da cui ebbe origine il partito politico libanese al-Amal (La Speranza). Oppositore dei gruppi tradizionalisti filo iraniani, feroce avversario della presenza occidentale sul suolo iracheno, ha sempre invocato la legge islamica e fatto appello all’orgoglio nazionale, ponendosi in contrasto con il grande ayatollah Ali Al-Sistani, la maggiore autorità sciita presente in Iraq, salita in auge proprio alla morte del padre di al-Sadr. Sadr ha anche reclutato una milizia di circa 10.000 uomini, il citato Esercito del Madhi, e le sue posizioni hanno avuto ampia risonanza e popolarità nel quartiere sciita di Baghdad, rinominato “Sadr City”.
Sempre in area sciita agivano anche il Movimento Nazionale della Saggezza di Ammar al-Hakim, il partito filo occidentale Al-Wataniya di Iyad Allawi, e il partito Supremo Consiglio Islamico Iracheno già denominato “Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq” (SCIRI), ritenuto vicino all’Iran. Questo partito è guidato da Adil Abd al-Mahdi, dopo l’uccisione di Muhammad Baqr al-Hakim in un attentato a Najaf nell’agosto 2003.
Conclusa la tormentata vicenda Isis, nel 2018 gli USA esercitarono notevoli pressioni perché si formasse un Governo di coalizione, cosa che avvenne in ottobre sotto la Presidenza di Adil Abd al-Mahdi. A fronte della difficile situazione economica e della pesante corruzione, nel mese di ottobre 2019 iniziano a Bassora delle proteste di piazza che chiedono migliori condizioni di vita e il ritiro delle milizie iraniane dal Paese. Il governo reagisce con la repressione, causando centinaia di morti e migliaia di feriti e lo stesso Muqtada al-Sadr, leader del primo dei partiti della coalizione di governo e capo delle Brigate della pace, chiede elezioni anticipate. Dopo due vani tentativi di formare un nuovo governo e su pressioni USA, il Presidente iracheno Salih designa primo ministro Mustafa Al-Kadhimi, già capo dei servizi segreti, che subito stabilisce di anticipare le elezioni, previste nel 2022, al giugno 2021.
Effettivamente effettuate nell’ottobre 2021, le elezioni danno luogo ad un panorama politico molto articolato. Lo straordinario numero di partiti in gara crea la dispersione del 40% dei voti. Tra i partiti con maggiore consenso emerge il movimento sadrista di Moqtaba al-Sadr, con 73 eletti; seguono il Partito del Progresso (sunnita) con 37, la Coalizione Stato di Diritto (ex Da’wa, fondato nel 1950 e quindi il più antico partito iracheno, sciita) con 37, il Partito Democratico del Kurdistan con 32, l’Unione Patriottica del Kurdistan con 15 e l’Alleanza Fatah (sciita filo-iraniana) con 14. Il Partito di al-Sadr, pur di maggioranza relativa, non ha numeri sufficienti per governare e così inizia una situazione di stallo ancora oggi irrisolta.
La decisione di al-Sadr di comunicare il suo ritiro dalla scena politica (sarà vero? lo ha fatto altre volte) ha immediatamente scatenato una serie di rivolte. Miliziani suoi sostenitori hanno cercato di occupare la “zona verde” di Baghdad, il quartiere in cui hanno sede i palazzi istituzionali e diverse ambasciate estere, ostacolati dalle forze dell’ordine. Dopo qualche giorno, lo stesso al-Sadr ha richiamato all’ordine i suoi fedeli imponendo la fine dei tafferugli di piazza.
Il problema non è solo interno e solo religioso. Dal punto di vista geopolitico il gioco vede scontrarsi in Iraq due ingombranti vicini: la Turchia e l’Iran, entrambi con aspirazioni di potenza regionale, rinvigorite dal periodo di grande debolezza che sta attraversando l’Arabia Saudita. La Turchia vede nell’Iraq, soprattutto nelle province kurde del nord, un argine all’espansione della sua ambita sfera di influenza verso l’Asia centrale. L’Iran vorrebbe invece annetterlo al progetto della cosiddetta “mezzaluna sciita”, che gli darebbe continuità geopolitica dal Karakorum al Mediterraneo unendo la mainland iraniana con il Libano di Hezbollah attraverso l’Iraq e la Siria. Senza dimenticare la difficile politica degli USA, che mentre trattano accordi sul nucleare con l’Iran difendono le proprie postazioni irachene, rischiando lo scoppio di un nuovo conflitto.
Fattori interni ed esterni, sociali e politici, economici e religiosi, ingigantiti dal fuoco delle grandi crisi globali come la pandemia e lo scontro per un nuovo ordine gerarchico fra le superpotenze rischiano di fare dell’Iraq, ancora una volta, un casus belli. Stupisce ancora una volta l’assenza pressoché totale dell’Europa da un’area nella quale, invece, potrebbero risiedere alcune soluzioni quantomeno per i problemi economico-gestionali che la stanno affliggendo.
Venerdì, 2 settembre 2022