Ivo Musajo Somma di Galesano, Cristianità n. 259 (1996)
Ex libris
Jacques Heers, La città nel Medioevo in Occidente. Paesaggi, poteri e conflitti, trad. it., a cura di Marco Tangheroni, Jaca Book, Milano 1995, pp. XV+564, £. 64.000
La città nel Medioevo in Occidente. Paesaggi, poteri e conflitti si apre con una Prefazione (pp. I-XV) di Marco Tangheroni, nella quale il docente di Storia Medievale all’Università di Pisa rileva come, nello scrivere l’opera, lo scopo di Jacques Heers fosse duplice: stendere un bilancio dei risultati finora raggiunti in questo ambito di studi e stimolare nuove e più approfondite ricerche; inoltre, enunciando un sintetico giudizio, nota che «[…] il libro è, indubbiamente, costruito su una base solida, grazie all’ampia informazione dell’autore: nessuno potrebbe legittimamente chiedergli, su un tema così vasto geograficamente e cronologicamente, l’assoluta completezza; muovano pure le loro critiche gli specialisti di periodi o aree ristrette: esse saranno certamente utili su questo o quel punto, per questa o per quella città, per questa o per quella regione, ma nulla toglieranno a sintesi così largamente informate ed aggiornate come quella di Heers, uno dei non molti medievisti oggi in grado di assumersi il rischio della sintesi senza incorrere in eccessivi perioli» (p. I).
Dopo aver precisato che l’attenzione di Jacques Heers è rivolta soprattutto ai secoli del pieno Medioevo, fra il X e il XIII, nonostante che anche il XIV e XV, toccati quasi solo nell’ultimo capitolo, gli siano ben noti, Marco Tangheroni fa una brevissima sintesi, per cenni salienti, del contenuto dell’opera, alla fine della quale rileva l’avversità di Jacques Heers per certe discussioni teoriche quali quelle relative al rapporto città di pietra-città vivente o alla definizione astratta della città, nonché per posizioni «dogmatiche», che ritiene compromesse da pregiudizi ideologici. Infine, dopo una breve presentazione della produzione scientifica di Jacques Heers, definito uno storico «orgogliosamente indipendente» (p. XIV), lontano dalle mode storiografiche e «decisamente ostile alla storiografia marxista o marxisteggiante» (p. XIV), rileva la chiusura mostrata dalla cultura italiana verso questo studioso, chiusura non casuale ma prettamente ideologica, contro la quale auspica il successo dell’edizione italiana dell’opera.
Jacques Heers nasce nel 1924 a Parigi. Inizia le sue ricerche di storico in Italia: giunge alla libera docenza appunto con una tesi su Genova nel secolo XV. Dedica i suoi studi successivi ai problemi sociali ed economici dell’Occidente europeo nel Medioevo e nel Rinascimento. Ha insegnato nelle facoltà di Lettere e Scienze Umane dell’Università di Caen e di Aix-en-Provence, quindi alla Sorbona di Parigi.
Delle sue numerose opere, una parte cospicua è tradotta in italiano: L’Occidente nel XIV e nel XV secolo: aspetti economici e sociali (trad. it., Mursia, Milano 1978; 1a ed. francese 1963), Il lavoro nel Medioevo (trad. it., D’Anna, Messina-Firenze 1973; 1a ed. francese 1965), Genova nel ’400. Civiltà mediterranea, grande capitalismo e capitalismo popolare (trad. it., Jaca Book, Milano 1984; 1a ed. francese 1971), Il clan familiare nel Medioevo. Studi sulle strutture politiche e sociali degli ambienti urbani (trad. it., Liguori, Napoli 1976; 1a ed. francese 1974), Cristoforo Colombo (trad. it., Rusconi, Milano 1983; 1a ed. francese 1981), Partiti e vita politica nell’Occidente medioevale (trad. it., Mondadori, Milano 1983; 1a ed. francese 1981), Le feste dei folli (trad. it., Guida, Napoli 1990; 1a ed. francese 1983), La vita quotidiana nella Roma pontificia ai tempi dei Borgia e dei Medici: 1400-1520 (trad. it., Rizzoli, Milano 1988; 1a ed. francese 1986), La scoperta dell’America: echi e dibattiti nella vecchia Europa (trad. it., ECIG, Genova 1993; 1a ed. francese 1991) e Storia della transizione al mondo moderno (trad. it., Jaca Book, Milano 1992; 1a ed. francese 1992).
L’ultima fatica dell’autore è un intervento nell’annosa polemica sul Medioevo: Le Moyen Âge, une imposture (Perrin, Parigi 1992).
Dell’attenzione di Jacques Heers nei confronti della città e della problematica sociale urbana è rilevante testimonianza La città nel Medioevo in Occidente. Paesaggi, poteri e conflitti. Nell’Introduzione (pp. 7-13) l’autore mette in chiaro il fine e i limiti dell’opera, che «[…] non pretende affatto di avviare uno studio esaustivo del paesaggio urbano in tutti i suoi aspetti, ma solo di porre l’accento, da un lato, sui legami tra la formazione, la permanenza o il degrado dei tessuti urbani o dell’urbanesimo in genere, e dall’ altro sulle strutture sociali o politiche del tempo. Definire tali relazioni, stabilire una concordanza fra evoluzioni diverse, analizzarle, sottolinearne in linea di massima le conseguenze sul paesaggio dell’antico nucleo urbano: questi gli obiettivi» (p. 8); di seguito il taglio dello studio viene ulteriormente specificato sottolineando che «troppe sono le opere che […] hanno a lungo privilegiato i fenomeni di natura strettamente economica. Senza per questo negarne l’importanza, dobbiamo tuttavia considerare che ci sono altri fattori che vanno attentamente esaminati» (p. 8), in particolare l’inserimento delle realtà prese in esame nel loro contesto sociopolitico si rivela indispensabile per una corretta analisi.
Il primo capitolo — Dopo Roma continuità o cancellazione? (pp. 15-74) — è dedicato al problema straordinariamente complesso e articolato della sopravvivenza delle città nel periodo compreso tra la tarda Antichità e l’alto Medioevo. Il logorarsi del tessuto urbano avrebbe cominciato a verificarsi già prima delle migrazioni germaniche, insieme a una minore densità della popolazione, tuttavia, tale «decadenza precoce» (p. 16) non si manifesta ovunque. Allo stesso modo l’incidenza delle incursioni dei barbari assume un rilievo molto differente a seconda delle località; sarà soprattutto la seconda ondata delle invasioni — quella degli ungari, dei vichinghi e dei saraceni — a provocare le conseguenze più gravi, «[…] a far scappare le popolazioni dei monasteri e di intere città verso i rifugi, a far regnare la paura e l’incertezza» (p. 18). Con la fine delle invasioni — seconda metà del secolo X per l’Europa continentale — ci si trova dinanzi a una realtà molto variegata: alcune città si avviano a una decadenza inesorabile, altre sono riuscite a sopravvivere e alcune di esse si apprestano a rivestire un ruolo politico ed economico rilevante. Jacques Heers continua esaminando il fenomeno delle città rifugio e la situazione delle città al tempo dei barbari, vista come un rinnovamento urbano; in ultima analisi, «l’immagine peraltro così familiare, di un mondo occidentale esclusivamente rurale o quasi, in cui le città impoverite, smantellate, presentavano soltanto paesaggi anarchici e in rovina, si va inesorabilmente sfumando. Immagine astratta, […] è solo un lontanissimo riflesso della realtà […].
«Si deve quindi tener conto del carattere nonostante tutto circoscritto delle distruzioni e, soprattutto, degli sforzi fruttuosi per ricostruire il più rapidamente possibile e anche, in molte regioni, per creare di sana pianta delle nuove città. Comunque, la civiltà urbana si è perpetuata» (p. 53).
Il secondo capitolo — Conquiste e riconquiste, resti e ricostruzioni (pp. 75- 101) — studia in maniera assai approfondita il legame esistente fra la riconquista e l’urbanizzazione nella penisola iberica: «All’inizio la riconquista, partita dai ridotti montani delle Asturie, si è appoggiata a una rete, invero a maglie un po’ troppo larghe, di città-fortezze, città di frontiera che i musulmani avevano più o meno abbandonato da qualche tempo, e, per altri versi, su una più fitta griglia di castillos. È ad essi che deve il suo nome uno dei regni cristiani, la Castiglia. Una volta ottenute le prime vittorie, si doveva ancora prender possesso popolare o addirittura costruire delle città fortificate» (p. 76). Il ripopolamento si rivela particolarmente difficile per quelle regioni prive di considerevoli riserve demografiche e richiede contingenti di coloni stranieri.
In questo contesto, soprattutto con il secolo XII, il ruolo del cammino di Santiago è di primo piano: centri vecchi e nuovi posti lungo la via verso il santuario compostellano acquistano importanza, attirando anche gruppi provenienti dalle terre al di là dei Pirenei, soprattutto grazie a fueros — privilegi e garanzie — particolarmente vantaggiosi. «Fu l’ospitalità data ai pellegrini, forma originale di una nuova presa di possesso del suolo, a imporre e organizzare lo sviluppo urbano. Le antiche città riprendevano vita, si popolavano di albergatori e artigiani; nuove comunità monastiche costruivano altre chiese» (p. 81).
Di seguito si indica la modalità di occupazione delle città tramite i repartimientos e l’influenza sulle strutture urbane della presenza di comunità ebraiche e musulmane a fianco dei cristiani. Le ultime pagine del capitolo sono dedicate alle modalità d’insediamento dei normanni a Palermo, dopo la conquista della città nel 1071.
Le città nuove è il titolo del terzo capitolo (pp. 103-155), che inquadra le nuove formazioni urbane nell’ ambito dello sviluppo economico e demografico conosciuto dall’Occidente medievale a cominciare dal secolo X. Le fondazioni di città — e di numerosi villaggi — erano strettamente necessarie alla conquista e alla bonifica del suolo e venivano attuate grazie all’intervento di signori, di monasteri e anche di ordini monastico-cavallereschi, quali gli ospitalieri, i templari e i teutonici; talvolta è evidente l’intervento statale come in Inghilterra, nei paesi germanici e nella Francia del Sud-Ovest. In Italia tale fenomeno si è verificato soprattutto nelle regioni centro-settentrionali. Jacques Heers prosegue analizzando le forme e le strutture dei nuovi insediamenti.
Il quarto capitolo — Espansione urbana e urbanizzazione (pp. 157-217) — inizia con una severa critica della teoria che vuole mostrare i nuovi borghi come realtà nate spontaneamente e in sistematico contrasto con l’autorità sia spirituale che temporale; in realtà, «questi borghi e sobborghi non si formavano a caso, al di fuori da ogni spinta politica e spirituale. La loro ubicazione fu sempre determinata dalla presenza di uno o più edifici insigni, sedi di autorità che fossero in grado di organizzare lo spazio e far sorgere delle costruzioni nelle vicinanze. Poteva essere il castello comitale o signorile, una semplice dimora fortificata, un’abbazia, una collegiata, una chiesa parrocchiale, un ospedale» (p. 158). In quest’ottica i primi centri di popolamento assumono una grande importanza, in particolare il complesso della cattedrale, insieme ad abbazie, a conventi e a ospedali; i commerci e le vie di pellegrinaggio furono due notevoli elementi di rafforzamento di tali centri. Nelle pagine successive l’autore spiega le modalità di formazione dei borghi facendo l’esempio delle città francesi del Mezzogiorno e mostrando come tali borghi potessero sorgere talvolta attorno non a uno, ma a due o più centri ben individuati; la fine del capitolo è dedicata ai nuovi centri che non ebbero fortuna e decaddero, alla lottizzazione dei nuovi centri e all’influenza dei nuovi tessuti urbani sul paesaggio.
Il quinto capitolo è dedicato a Conflitti e particolarismi (pp. 219-320) e mette in luce, con grande chiarezza e abbondanza d’esempi, quello che viene a delinearsi come un feudalesimo cittadino, contro quegli studiosi che immaginano città a regime «repubblicano, se non addirittura democratico» (p. 219), dedite a liberi e pacifici commerci e che «[…] parlano spesso di città mercantili popolate di borghesi, di comunità di uomini indipendenti […] in lotta contro i signori feudali della campagna» (p. 219). Al di là di quest’immagine che ha ben poco di reale — spiega Jacques Heers — «[…] la città viveva in perfetta conformità con le sue campagne: società urbane e società rurali sono strettamente legate e presentano a lungo le stesse strutture, dominate dagli stessi padroni. Ai feudi della campagna si aggiungevano quelli del nucleo urbano; alle motte feudali e alle rocche corrispondevano i masti che sovrastavano le vie e le piazze cittadine, anch’essi rifugi per una numerosa clientela di dipendenti» (p. 220). Più avanti si precisa che, come sempre, tale situazione fu molto diversificata a seconda dei contesti locali: in Normandia e in Inghilterra, in Francia, in Spagna e nella Germania orientale, preponderante è l’ influenza dei re e dei vescovi, mentre le strutture feudali si affermarono nelle regioni di civiltà urbana più antica e vigorosa, in particolare «la Renania, le Fiandre, soprattutto l’Italia» (p. 222); in modo speciale le città dell’Italia centro-settentrionale possono essere proposte come tipiche città feudali, in cui «[…] il gruppo sociopolitico, in genere plurifamiliare, dominato da nobili guerrieri, aristocratici, uomini d’arme e d’affari al tempo stesso, in parecchi casi uomini di Chiesa, non solo trovava diritto di cittadinanza, ma controllava realmente il nucleo urbano» (p. 222). Tutto il capitolo è dedicato all’ incarnarsi di queste strutture nella città, terreno d’ elezione del feudalesimo e alla loro influenza concreta sul paesaggio urbano, anche tramite la moltiplicazione e la differenziazione dei luoghi d’incontro e di vita sociale, spirituale, politica. Si parla infine della città in armi e delle frequenti lotte che si svolgevano nei centri urbani.
Il bene comune: sollecitudine o pretesto? è il titolo del sesto capitolo (pp. 321- 415) in cui viene delineato il tentativo, arduo e destinato a proseguire per generazioni, delle autorità comunali e dei principi, di razionalizzare il tessuto urbano e la stessa vita cittadina, intaccando le isole feudali delle città sia da un punto di vista fisico-architettonico, sia politico, con il fine cioè di indebolire il potere dei gruppi familiari e la loro autorità sulle comunità a loro legate; sovente quindi «[…] le sistemazioni urbanistiche presentate come assolutamente indispensabili al bene pubblico servivano solo come pretesto, se non come paravento, all’azione politica propriamente detta, all’instaurarsi o al rafforzarsi dell’autorità» (p. 322). Vengono esemplificati programmi e fallimenti in relazione al fiorire di statuti e di regolamenti, soprattutto a partire dal Duecento, relativamente ai problemi della manutenzione delle strade e al deposito dei rifiuti, alla costruzione e alla decorazione delle fontane; viene poi mostrata la funzione politico-ideologica, oltre che militare, di fossati e di cortine murarie attraverso la funzione simbolica delle porte e dei loro emblemi, l’organizzazione della guardia alle mura, la costruzione di nuove cinte murarie con le conseguenti ristrutturazioni del tessuto urbano. Successivamente l’ autore delinea i tentativi delle autorità di imporre il rispetto dello spazio pubblico in opposizione alle molteplici aree d’influenza dei clan familiari, ma «ciò significava andar contro situazioni consolidate, significava anche sconvolgere i modi di concepire la vita sociale e le società politiche; si dovevano rompere abitudini, legami di vicinato, modificare gli itinerari quotidiani di uomini e donne, padroni e domestici, per indurli a incontrarsi in luoghi diversi dalle corti o dalle piazzette delle grandi famiglie» (pp. 379-380); si trattava di impedire l’occupazione del suolo pubblico, di abbattere — quando era possibile — le torri private e di ristrutturare la rete viaria. Si misero in atto anche progetti e iniziative al fine di dare regole alla distribuzione delle attività sul territorio, in particolare di determinati mestieri e mercati.
Il capitolo settimo, intitolato Un nuovo urbanesimo comunale? Le lezioni di un fallimento (pp. 417-484) è dedicato allo studio dei luoghi d’incontro cittadini e al cammino lentissimo verso piazze comunali vere e proprie. Inizialmente sede privilegiata delle assemblee furono i luoghi santi: le cattedrali e le chiese parrocchiali, ma anche i cimiteri prossimi alle chiese, luoghi di preghiera e di predicazione nonché veri e propri spazi d’incontro con tanto di botteghe. Molta importanza avrebbero avuto le grandi chiese, con relativi sagrati, degli ordini mendicanti. La costruzione di palazzi comunali rappresentava un autentico successo delle autorità, ma il cammino verso uno spazio sociopolitico fu assai difficile: «La costruzione laboriosa, difficile e costosa di un palazzo comunale monumentale e quindi di una bella piazza tracciata in modo armonioso esigeva un raro concorso di circostanze che, in definitiva, si è verificato solo in pochi paesi» (p. 432). Anche nell’Italia dei comuni si giunse ad avere piazze e palazzi pubblici non senza difficoltà e lentezze, alcune città come Bologna, Siena e Firenze «[…] hanno tuttavia concepito e condotto felicemente a termine il progetto di una vera e propria piazza civica esclusivamente riservata alle riunioni e alle assemblee» (p. 470). Nelle Conclusioni (pp. 483- 484) a questo capitolo Jacques Heers ribadisce che «non sembra che la costruzione di un bel palazzo comunale eretto su una grande piazza pubblica sia stato, nell’Europa occidentale, uno dei maggiori successi delle autorità municipali» (p. 483).
L’ottavo e ultimo capitolo, Le città dei principi (pp. 485-583), incomincia ribadendo l’importanza dell’intervento di principi e di re «[…] per imporre norme igieniche e sanitarie; per fare e rifare la pavimentazione delle strade; per portare l’acqua alle fontane pubbliche; per riparare le grandi logge e anche, in svariati luoghi, per costruire le case comunali» (p. 485), specificando però che, per quanto riguarda l’urbanistica propriamente detta, cioè «sistemazione del tessuto cittadino, modifiche in profondità del paesaggio, costruzione di vasti complessi architettonici e di piazze prestigiose» (p. 485), è necessario operare un distinguo; infatti, si ritiene che certi prìncipi abbiano voluto fondare vere e proprie città principesche, città nuove, e che altri invece si siano limitati a cercare di ottenere un controllo reale della propria città con una serie di provvedimenti: «[…] costruzione di castelli-palazzi fortificati, controllo dei luoghi pubblici e delle piazze destinate alle assemblee, apertura di ampie strade in cui far avanzare le truppe» (p. 486), nonché tramite la costruzione di dimore per i numerosi uomini di corte. Viene portato l’esempio dell’Avignone dei Papi, di Parigi, di Londra e della Toscana; in seguito si descrive il caso di città conquistate a viva forza e che male accettano il nuovo padrone, o dotate di un reticolo viario antico e difficile da padroneggiare e da ridisegnare; in questi casi gli interventi dei principi sono stati più radicali e spettacolari e hanno portato a un paesaggio rimodellato: tale situazione viene esemplificata dalla Napoli angioina, dalle città dei signori dell’Italia centro-settentrionale fra i secoli XIV e XV e dalla Roma dei Papi quattrocenteschi.
Nella Conclusione generale (pp. 529- 533) l’autore ribadisce la propria ostilità verso le «[…] teorie ispirate unicamente al materialismo storico, teorie esclusive e intransigenti: tutto si poteva e si doveva spiegare con l’economia, con lo sviluppo dei traffici, con l’ascesa di uomini nuovi contrapposti per preoccupazioni, genere di vita, e anche per concezione dei rapporti sociali, ad altri uomini già da tempo sulla scena» (p. 530) e riafferma la necessità di un approccio più articolato, che in particolare sappia valutare adeguatamente l’importanza dell’ambito sociopolitico, perché «[…] la sistemazione del paesaggio, dal momento in cui acquista una certa ampiezza, è l’inevitabile risultato dell’affermazione di un potere» (p. 533).
Ivo Musajo Somma di Galesano