Ignazio Cantoni, Cristianità n. 367 (2013)
1. La vita, l’opera e le opere
Joseph-Marie de Maistre nasce a Chambéry, in Savoia, il 1° aprile 1753, da François-Xavier (1705-1789), magistrato, e dalla nobile Christine Demotz (1722-1774), primogenito di dieci figli. Nel 1778 il padre viene creato conte per i servigi prestati al Regno di Sardegna. Studia giurisprudenza a Torino e conclude gli studi nel 1772, quindi inizia nel proprio luogo natale la professione di magistrato. Nel 1786 sposa la nobile Françoise-Marguerite de Morand, che gli darà tre figli. Entra a far parte, nel 1774, della loggia massonica di rito inglese dei Trois Mortiers e nel 1778 si sposta in quella di rito scozzese rettificato della Parfaite Sincérité. Egli intravede nel ramo di questa massoneria un’élite con grandi potenzialità per la restaurazione cristiana del mondo, concetto che esprime nella Memoria al Duca di Brunswick (1) — del 1782 ma edita nel 1925 —, in polemica con l’ala antireligiosa della medesima (2).
È un attento studioso della letteratura classica, particolarmente del filosofo greco Platone (428/427-347 a.C.) e dello scrittore e filosofo anch’egli greco Plutarco di Cheronea (50 ca.-120 ca.) — “Platone […] si incontra sempre per primo sulla strada di tutte le grandi verità” (3); “non vi è una sola idea sana in morale e in politica che sia sfuggita al buon senso di Plutarco” (4) —, nonché dei Padri e dei Dottori della Chiesa, della letteratura mistica e di quella esoterica, e dei filosofi moderni. Nel 1788 entra a far parte del Senato. Allo scoppio della Rivoluzione francese, nel 1789, intravede in essa la possibilità di riforme positive dell’Ancien Régime; ma dopo la lettura della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789, e delle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia (5), del 1790, dell’uomo politico anglo-irlandese Edmund Burke (1729-1797), il suo atteggiamento sarà di completo rifiuto. Nel 1792, in seguito all’invasione francese della Savoia, è costretto all’esilio in Svizzera, fra ristrettezze economiche. L’anno successivo vedono la luce le Lettere di un realista savoiardo ai suoi compatrioti e nel 1794 inizia la stesura del testo Della sovranità del popolo (6), incompiuto, che uscirà nel 1870. Fra altri pamphlet di questo periodo scrive I meriti della Rivoluzione (7), pubblicato nel 1870, e nel 1796 l’opera che lo farà conoscere maggiormente, le Considerazioni sulla Francia (8). Finalmente, nel 1797, può rientrare in patria ove gli affidano, nel 1799, la direzione della Cancelleria a Cagliari. Nel 1802 il re Vittorio Emanuele I di Savoia (1759-1824) lo invia come plenipotenziario a San Pietroburgo presso lo zar Alessandro I Romanov (1777-1825); a causa della disastrosa situazione delle casse del regno si deve separare dalla propria famiglia, che lo potrà raggiungere solo nel 1814. In Russia, incompreso dai propri superiori, svolge in seno alla corte un’attività culturale molto importante, che lo porterà a fermare riforme illuministiche e a favorire l’azione apostolica dei gesuiti e la conversione di alcuni esponenti della nobiltà russa al cattolicesimo. Proprio un episodio fra questi segna la sua disgrazia presso lo zar, che chiede il suo rientro, avvenuto nel 1817. Del periodo russo sono da ricordare il Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane (9), pubblicato nel 1814 dall’amico francese visconte Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754-1840), con il quale in quegli anni manteneva contatti epistolari; le Lettere sull’Inquisizione spagnola (10), edite nel 1822; e l’Esame della filosofia di Bacone, pubblicato nel 1836. Intanto attende alle Serate di San Pietroburgo o Intrattenimenti sul governo temporale della Provvidenza (11), suo capolavoro di filosofia e teologia della storia, che uscirà postumo nel 1821. A Torino, nel 1818 viene nominato reggente della Grande Cancelleria del Regno; ha modo, inoltre, d’incontrare le Amicizie Cattoliche, guidate dal venerabile Pio Brunone Lanteri (1759-1830). Nel 1819 pubblica il saggio Del Papa (12). Gli ultimi anni sono segnati dall’incomprensione di coloro per i quali aveva prodigato le proprie energie. Chiude la sua esistenza terrena il 26 febbraio 1821 (13).
2. La teologia della storia
Il punto di partenza del pensiero di Maistre è che “tutto ci riconduce all’autore di tutte le cose. […] tutto viene da lui, ad eccezione del male” (14). Pertanto tutto il movimento della storia è guidato dalla mano infallibile della Provvidenza, con la quale gli uomini possono collaborare o alla quale possono opporsi — ultimamente invano. “Siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una flessibile catena che ci trattiene senz’asservirci” (15). Gli uomini, “liberamente schiavi” (16), “[…] operano sia volontariamente che necessariamente: essi fanno realmente ciò che vogliono, ma senza poter impedire i piani generali” (17). Da questi due assiomi derivano due corollari principali: che ogni ambito della realtà umana dev’essere sottoposto alla sovranità di Dio, pena isterilimento e morte per mancanza di fonte e di alimento; e che tutto quanto accade, anche il male, è tollerato e governato dalla Provvidenza per disegni ignoti all’uomo, ai quali egli deve affidarsi nell’umiltà e nella preghiera: “[…] accontentiamoci di sapere che tutto ha la sua ragione, che conosceremo un giorno. Non fatichiamo per sapere il perché, nemmeno quando sarà possibile intravederlo. La natura degli esseri, le operazioni dell’intelligenza e i confini dei possibili ci sono sconosciuti” (18). “Io credo che tutte le cose che vediamo ci conducano al bene attraverso delle strade sconosciute. Questa idea mi consola totalmente; ma quando e come perverremo a questo meglio? Ecco il segreto della Provvidenza” (19).
L’uomo con il peccato originale si è voluto allontanare dal proprio Principio, desiderando di essere, come Dio, creatore di tutto. Il male, così, è penetrato nel mondo e ha deturpato nell’uomo l’immagine di Dio, precipitandolo dalla vetta della civiltà nell’abisso dell’infermità, dell’ignoranza e della colpa.
Con Nostro Signore Gesù Cristo è stata offerta, grazie al Suo sacrificio — la cui premessa universale, riconosciuta da tutti i popoli, è costituita dall’”efficacia meravigliosa del sacrificio volontario dell’innocenza, che si offre spontaneamente alla divinità come una vittima propiziatoria” (20) —, la nuova vita, di cui la Chiesa è il segno visibile, e la cui dottrina è il ricongiungimento, a un livello compiuto, delle verità della Tradizione adamitica, che l’umanità pagana aveva corrotto ma in qualche modo conservato. Tale tema, fondante la prospettiva tradizionalista, trova proprio in Maistre un teorizzatore molto importante: egli scrive infatti che “le tradizioni antiche sono tutte vere; […] l’intero paganesimo non è altro che un sistema di verità corrotte e spostate; e […] è sufficiente, per così dire, ripulirle e sistemarle al loro posto per vederle risplendere di piena luce” (21).
Con la Croce il male diviene pertanto, se accettato, salutare medicina per la nostra correzione: “soffriamo con una rassegnazione consapevole; se noi sapremo unire la nostra ragione alla ragione eterna, al posto di essere solo dei sofferenti, saremo almeno vittime” (22). Sta all’uomo decidere se vuole mettersi alla sequela di Cristo con la propria croce, in cui il male è lo strumento dell’espiazione, oppure allontanarsi ancora di più, chiudendosi in un “autocastigo”, qual è ogni prefigurazione terrestre dell’inferno, inteso in senso pieno come lontananza da Dio.
3. La teologia della politica
La seconda decisione — l’allontanamento da Dio — sta alla base di quanto accaduto negli ultimi secoli all’Europa. Prima è venuto il protestantesimo, che ha eliminato ogni ordine gerarchico e ogni obbedienza nei confronti del Sommo Pontefice, facendo trionfare in ambito religioso la ragione individuale sulla ragione universale tramite la dottrina del libero esame.
Ecco poi l’avvento della conseguenza culturale di tale premessa: “Al principio del secolo scorso [il XVIII], coloro che il protestantesimo aveva abbastanza dirozzato, erano tutti apparecchiati all’empietà. Bayle [Pierre, 1647-1706] aveva alzato la bandiera, e da ogni parte si avvertiva un sordo fermento, una rivolta dell’orgoglio contro tutte le verità tradizionali, e una generale inclinazione a distinguersi per indipendenza e novità di opinioni” (23); fermento a cui aveva portato un contributo significativo il filosofo e scienziato inglese Francis Bacon (1561-1626) con la sua separazione della scienza dalla teologia e dalla filosofia. È l’illuminismo, la cui radice profonda Maistre chiama “teofobia” (24); proprio parlando della preghiera, così egli riassume la cifra illuminista: “la filosofia del secolo scorso — il quale agli occhi della posterità apparirà come una delle più vergognose epoche dello spirito umano — nulla ha tralasciato per distoglierci dalla preghiera attraverso la considerazione delle leggi eterne ed immutabili. Essa aveva per obiettivo preferito, direi quasi unico, quello di staccare l’uomo da Dio: e come poteva raggiungerlo più sicuramente che impedendogli di pregare? Tutta questa filosofia non fu in realtà che un autentico sistema di ateismo pratico; io a questa strana malattia ho dato un nome: teofobia. Osservate bene e la scoprirete in tutte le opere filosofiche del secolo diciottesimo. Esse non dicono apertamente: “Non esiste alcun Dio”, asserzione che avrebbe potuto portare con sé alcuni inconvenienti pratici; dicono invece: “Dio non è qui. Non è nelle vostre idee, le quali vengono dai sensi; non è nei vostri pensieri, i quali non sono che sensazioni rielaborate; non è nei flagelli che vi affliggono, i quali sono fenomeni fisici come gli altri, spiegabili attraverso leggi che conosciamo. Dio non pensa a voi; non ha fatto nulla per voi in particolare; il mondo è fatto per l’insetto come per voi. Dio non si vendica su di voi, perché siete troppo insignificanti, ecc.”. Insomma, non si poteva nominare Dio a questa filosofia senza vederla cadere in convulsioni. Anche alcuni scrittori di quell’epoca, infinitamente al di sopra della massa, e apprezzabili per eccellenti intuizioni parziali, hanno negato senza esitare la creazione. Come parlare di punizioni celesti a costoro senza mandarli in collera? “Nessun avvenimento fisico riguardante l’uomo può avere una causa superiore”: ecco il loro dogma. Non sempre forse oseranno articolarlo in forma generale; ma venite all’applicazione: essi negheranno sempre il particolare, il che è lo stesso” (25).
Infine, la deriva politica anzitutto con la teoria del buon selvaggio, secondo cui non vi è alcun peccato originale, ma sono la società e la civiltà a corrompere l’uomo. Al contrario Maistre ricorda come tutti riconoscono il male nell’uomo: “Su questa corruzione della natura umana tutti gli osservatori concordano, e Ovidio [Publio Nasone (43 a.C.-17 d.C.)] parla come san Paolo:
“Riconosco il bene, lo voglio, ed è il male che mi seduce.
“Mio Dio! Che guerra crudele!
“Sento come due uomini in me.
“Anche Senofonte [430 ca.-355 ca. a.C.] esclamava per bocca di un personaggio della Ciropedia: Ah! Mi conosco ora, e sono i miei sensi a testimoniare che posseggo due diverse anime, una che mi conduce al bene, e l’altra che mi trascina al male.
“Epitteto [50 ca.-138] ammoniva l’uomo che si propone di avanzare verso la perfezione di diffidare di se stesso come di un nemico e di un traditore.
“Ed il più eccellente moralista che abbia mai scritto [l’anonimo autore dell’Imitazione di Cristo] non sbagliava nel dire che lo scopo ultimo di tutti i nostri sforzi deve essere quello di renderci più forti di noi stessi.
“Su questo punto Rousseau [Jean-Jacques (1712-1778)] non può veramente contraddire la coscienza universale. “Gli uomini sono malvagi, dice, “una triste e continua esperienza ci dispensa da ogni prova”” (26).
Sono proprio la società e la civiltà a impedire l’autodistruzione dell’uomo: “Poiché l’uomo è formato da un principio che raccomanda il bene, e da un altro che fa il male, come potrà un essere siffatto vivere con i suoi simili? Hobbes [Thomas (1588-1679)] ha perfettamente ragione, a patto che non venga data troppa estensione ai suoi principî: la società è realmente uno stato di guerra: qui troviamo dunque la necessità del governo, perché nella misura in cui l’uomo è malvagio bisogna che sia governato; bisogna, quando molti vogliono la stessa cosa, che un potere superiore a tutti la aggiudichi e impedisca loro di battersi” (27). E tale impedimento passa anche attraverso il potere sanzionatorio dello Stato, icasticamente rappresentato dal boia: “È sgradevole che la forca sia una componente necessaria dell’amministrazione pubblica: tuttavia non vi è niente di più vero” (28).
La suddetta deriva politica trova poi espressione anche nella teoria del contrattualismo; dell’individualismo negatore dei legami feudali; della ragione singola contro la “ragione nazionale” (29), sinonimo di tradizione; e infine della sovranità popolare, nella quale il re è coerentemente identificato come il Papa del mondo politico. “Nel XVI secolo, le rivolte attribuirono la sovranità alla Chiesa, cioè al popolo. Il XVIII non fece che trasferire questi precetti nella politica; è lo stesso sistema, la stessa teoria, fino alle estreme conseguenze. Che differenza vi è fra la Chiesa di Dio, guidata unicamente dalla sua parola, e la grande repubblica una e indivisibile, governata unicamente dalle leggi e dai deputati del popolo sovrano? Nessuna. È la stessa follia, in un’altra epoca e con un altro nome” (30). Tale identificazione nasce dalla constatazione — molto importante per comprendere il pensiero di Maistre — che “le verità teologiche non sono se non delle verità generali, rese manifeste e divinizzate sul piano religioso, di modo che non sarebbe possibile attaccarne una senza attaccare al tempo stesso una legge mondana” (31). Conseguentemente, possiamo dire che qualsiasi autorità è assoluta nel suo ambito di competenza, nel senso che è l’ultima istanza che deve necessariamente essere ascoltata dai sudditi. Non si può infatti, per esempio, immaginare che un giudicato, di fronte al giudizio della Corte di Cassazione, lo rigetti dicendo “io non lo accetto”. E, si badi bene, non può non accettarlo anche se è errato. Cosa succederebbe a un’autorità che non avesse il rispetto dei suoi sudditi? Sarebbe l’anarchia, che è ben peggiore di un errore giudiziario. Per la Chiesa il ragionamento è analogo, anche se in questo caso l’infallibilità, per quanto riguarda la fede e la morale, è garantita non solo di fatto come per le autorità umane, ma anche nel merito (32). In tal modo, il protestante che attacca l’autorità del Papa, spostando l’ultima istanza del giudizio sul libero esame del singolo, apre per analogia lo spazio a chi nega la sovranità nella prospettiva di decidere da sé il da farsi. S’intende così come la polemica antimonarchica dell’illuminismo nasconda, con il sofisma dell’identificazione monarchia-sovranità, il vero bersaglio dei philosophes: “Sì, ogni sovranità viene da Dio; quale che sia la forma che riveste, non è affatto opera dell’uomo. Essa è una, assoluta, e per sua natura inviolabile. Perché ostinarsi contro la monarchia, come se gli inconvenienti che si prendono a pretesto per combattere questo sistema non fossero gli stessi in ogni forma di governo?” (33). Ciò che il rivoluzionario attacca non è il metodo d’identificazione dell’ultima istanza autoritativa, ma il fatto stesso che esista l’autorità: il rivoluzionario vuole estendere il libero esame a tutto per avere il maggior spazio possibile di arbitrio nel maggior numero possibile di ambiti esistenziali.
Tale delirio di onnipotenza spinge il rivoluzionario a rigettare tutto il mondo pregresso. Per Maistre è concepibile solo come atto superbo il tentativo di costruire le società e le sue costituzioni a tavolino nel pieno disprezzo delle radici religiose — “ogni civiltà comincia dai sacerdoti, dalle cerimonie religiose, dai miracoli, non importa se veri o falsi” (34) — e della storia secolare, se non millenaria, di una nazione. “Fu una ridicola presunzione del secolo scorso il voler giudicare tutto in base a regole astratte, senza tener conto dell’esperienza; presunzione tanto più singolare in quanto questo stesso secolo non smise di urlare contro tutti quei filosofi che sono partiti da princìpi astratti, invece di fondarsi sull’esperienza” (35). E ancora: “la storia è la politica sperimentale, cioè la sola buona; e come nella fisica cento volumi di teorie speculative scompaiono di fronte a una sola esperienza, allo stesso modo nella scienza politica nessun sistema può essere ammesso se non è il corollario più o meno probabile di fatti ben accertati” (36). Infine: “Tutte le forme possibili di governo sono già comparse in questo mondo; e sono tutte legittime dal momento che esistono, non essendo in alcun modo lecito ragionare su ipotesi interamente separate dai fatti” (37).
Dati i princìpi appena enunciati, s’intende bene cosa è successo in Europa con la Rivoluzione. Un passo di Maistre è particolarmente efficace nel sintetizzare il suo giudizio storico su tale evento epocale: “Tuttavia, poiché l’Europa intera era stata civilizzata dal cristianesimo, e poiché i ministri di questa religione avevano ottenuto in tutti i paesi una autorevole esistenza politica, le istituzioni civili e religiose si erano mescolate e come amalgamate in maniera sorprendente, di modo che si poteva dire di tutti gli stati d’Europa ciò che, con maggiore o minore verità, Gibbon [Edward, 1737-1794] ha detto della Francia: che questo regno era stato fatto dai vescovi. Era dunque inevitabile che la filosofia del secolo non tardasse a odiare le istituzioni sociali che non le era possibile separare dal principio religioso. È ciò che avvenne: tutti i governi, tutte le istituzioni d’Europa, le spiacquero, perché erano cristiane; e nella misura in cui erano cristiane, un disagio d’opinione, uno scontento universale si impadronì di tutte le menti. In Francia soprattutto, la rabbia filosofica non conobbe più limite; e ben presto, di tante voci riunite formandosi una sola voce formidabile, la si udì gridare in mezzo alla colpevole Europa.
“”Abbandonaci! Si dovrà dunque tremare eternamente davanti a sacerdoti e riceverne l’insegnamento che piacerà loro impartirci? La verità, in tutta Europa, è nascosta dai fumi del turibolo; è ora che essa esca da questa nube fatale. Non parleremo più di te ai nostri figli; starà a loro, quando saranno uomini, sapere se tu sei e cosa sei, e cosa domandi loro. Tutto ciò che esiste ci spiace perché il tuo nome è scritto su tutto ciò che esiste. Vogliamo distruggere tutto e rifare tutto senza di te. Esci dai nostri consigli, esci dalle nostre accademie, esci dalle nostre case: sapremo bene fare da soli; la ragione ci basta. Abbandonaci!”.
“Come ha punito, Dio, questo esecrabile delirio? L’ha punito come creò la luce, con una sola parola. Ha detto: FATE! E il mondo politico è crollato.
“[…] Da un lato, il principio religioso presiede a tutte le creazioni politiche; dall’altro, tutto scompare non appena esso si ritira” (38).
4. Il Papa
Quanto sopra detto rende ragione del fatto che Maistre, in forza dell’analogia che lega ogni autorità, liquidi qualsiasi posizione che neghi al Papa il primato, ortodossia compresa: se “Dio, che ha fatto la natura e la Chiesa, non ha potuto mettere le leggi della sua Chiesa in contraddizione con quelle della natura” (39), “dov’è dunque la Chiesa una volta privata di un capo comune? “Nella Sacra Scrittura e nella legittima tradizione”. Ecco il protestantesimo. In una parola […] la questione si riduce […] al sapere: 1) se si possa dare un Impero di Russia senza l’Imperatore di Russia; 2) se si sia rivoltato Pougatschef [Emel´Jan Ivanovič Pugačëv (1742 ca.-1775)] contro Caterina II [Alekseevna (1729-1796)], oppure Caterina II contro Pougatschef” (40).
Nella ricostruzione sopra proposta appare come il crollo della civiltà occidentale abbia una propria coerenza interna, che si può far iniziare con l’eliminazione della sua chiave di volta, ovvero il Papa. “La rabbia antireligiosa dell’ultimo secolo contro tutte le verità e le istituzioni cristiane si era rivolta soprattutto contro la Santa Sede. I congiurati sapevano bene e purtroppo molto meglio della moltitudine di uomini bene intenzionati che il cristianesimo poggia totalmente sul Sommo Pontefice. È dunque in questo senso che rivolsero tutti i loro sforzi. Se avessero proposto ai governi cattolici delle misure esplicitamente anticristiane, il timore o il pudore, in mancanza di più nobili motivi, sarebbero bastati per respingerli; essi tesero dunque ai prìncipi una trappola geniale,
“E hanno, ahimè!, perso i più saggi fra i re!
“Presentarono loro la Santa Sede come il nemico naturale dei troni; la ricoprirono di calunnie, di diffidenze d’ogni sorta; cercarono di metterla in urto con la ragion di stato; non dimenticarono niente per collegare l’idea di dignità a quella di indipendenza. A forza di usurpazioni, di violenze, di cavilli, di prevaricazioni di ogni genere, essi resero la politica romana lenta, diffidente, cauta; l’accusarono in seguito dei difetti che loro stessi le avevano attribuito. Alla fine sono riusciti così bene che vi è da tremarne” (41).
Tale congiura è smascherata con sagacia, non disgiunta da una certa ironia: “Si sono mai visti dei protestanti divertirsi a scrivere dei libri contro la Chiesa greca, nestoriana, siriaca, ecc., che professano dei dogmi aborriti dal protestantesimo? Se ne guardano bene. Al contrario, essi proteggono queste chiese; le adulano e si mostrano pronti a unirsi ad esse, considerando sempre veri alleati i nemici della Santa Sede.
“L’incredulo, dal canto suo, se la ride dei dissidenti, e si serve di tutti, perfettamente sicuro che tutti, più o meno, e ognuno a modo suo, fanno avanzare la sua grande opera, cioè la distruzione del cristianesimo” (42).
Il Papa, che è il baluardo remoto del potere politico, è anche l’unico limite alla sua possibile deriva arbitraria. Come si è visto, infatti, ogni autorità è necessariamente assoluta, avendo l’ultima parola nell’ambito di propria competenza. Ma essa può abusare di questa sua necessaria caratteristica, perché la sua “infallibilità” fattuale non garantisce l’infallibilità sostanziale: il potere politico è necessario, ma può essere arbitrario. “Il grande problema non sarà dunque quello di impedire al sovrano di volere invincibilmente, cosa che implica contraddizione; ma quello di impedirgli di volere ingiustamente” (43). Come comportarsi di fronte a un potere che deve avere l’ultima parola, ma questa può essere ingiusta? Con parole anacronistiche, come comportarsi con il potere che diviene totalitario, cioè immorale? Chi può dispensare da una legge ingiusta? Scrive Maistre: “Non è in potere dell’uomo creare una legge che non abbia bisogno di nessuna eccezione. Questa incapacità risulta egualmente dalla debolezza umana che non potrebbe prevedere tutto, e dalla natura stessa delle cose che ora variano talmente da uscire, per il loro stesso movimento, dai limiti della legge, e ora, disposte per gradazioni insensibili sotto generi comuni, non possono venire comprese da un nome complessivo che non risulti falso nelle sfumature.
“Di qui risulta, in tutte le legislazioni, la necessità di un potere dispensatore. Perché, dove non vi è dispensa, vi è violazione.
“Ma ogni violazione della legge è pericolosa o mortale per la legge stessa, mentre ogni dispensa la fortifica: perché non si può chiedere di esserne dispensati senza renderle omaggio e riconoscere che individualmente non si può nulla contro di essa.
“La legge che prescrive obbedienza verso i sovrani è una legge generale come tutte le altre; è buona, giusta e necessaria in generale. Ma se Nerone [Claudio Cesare (37-68)] è sul trono, essa può sembrare imperfetta.
“E allora perché in questi casi non ci dovrebbe essere dispensa dalla legge generale, giustificata da circostanze del tutto impreviste? Non è meglio agire con cognizione di causa e in nome dell’autorità, invece di precipitarsi sul tiranno con un impeto cieco che ha tutte le apparenze del crimine?
“Ma a chi rivolgersi per questa dispensa? Essendo per noi la sovranità una cosa sacra, un’emanazione del potere divino, che le nazioni di tutti i tempi hanno sempre messo sotto la custodia della religione, ma che il cristianesimo soprattutto ha preso sotto la sua particolare protezione, prescrivendoci di vedere nel sovrano un rappresentante e un’immagine di Dio stesso, non era assurdo pensare che, per venire sciolti dal giuramento di fedeltà, non c’era autorità competente all’infuori di quell’alto potere spirituale, unico sulla terra, le cui sublimi prerogative costituiscono una parte della rivelazione.
“Tra il giuramento di fedeltà senza restrizione che espone gli uomini a tutti gli orrori della tirannia, e la resistenza senza regola che li espone a tutti quelli dell’anarchia, la dispensa da questo giuramento, pronunciata dalla sovranità spirituale, poteva benissimo presentarsi alla mente umana come l’unico mezzo per contenere l’autorità temporale, senza cancellarne gli attributi.
“Sarebbe comunque un errore credere che la dispensa dal giuramento venisse a trovarsi, in questa ipotesi, in contraddizione con l’origine divina della sovranità. Al contrario, supposto il potere dispensatore come eminentemente divino, niente impedirebbe che, in certi casi e in circostanze straordinarie, gli fosse subordinato un altro potere” (44).
5. Vera e falsa restaurazione
La Restaurazione iniziata con il Congresso di Vienna (1814-1815) è stata tale solo di facciata: “Il problema agitato da ogni parte è questo: Trovare i mezzi per ristabilire l’ordine colpendo il meno possibile i rivoluzionari e i loro atti, mentre il problema, al contrario, dovrebbe essere questo: Trovare i mezzi per schiacciare i rivoluzionari e i loro atti, per quanto possibile, senza mettere a repentaglio le legittime autorità” (45).
“Rovesciata alla fine da un uragano soprannaturale, abbiamo visto questa dinastia [francese] così preziosa per l’Europa risollevarsi per un miracolo che ne promette degli altri, e che deve infondere a tutti i francesi un religioso coraggio; ma il colmo della sventura, per loro, sarebbe credere che la rivoluzione sia finita, che la colonna sia stata rimessa in funzione, solo perché è stata restaurata. Bisogna credere, invece, che lo spirito rivoluzionario sia senza confronto più forte e più pericoloso di pochi anni fa. Il potente usurpatore se ne serviva soltanto per sé. Sapeva comprimerlo nella sua mano di ferro, e ridurlo a una specie di monopolio, a profitto della sua corona. Ma da quando la giustizia e la pace si sono abbracciate, il genio malefico ha smesso di avere paura; e invece di sollevare un solo focolaio, ha prodotto di nuovo un fermento generale su un’immensa superficie” (46). “Io non finirò senza far osservare a Vostra Eccellenza che ci s’ingannerebbe infinitamente se si credesse che Luigi XVIII [1755-1824] si è seduto nuovamente sul trono dei suoi antenati. Egli è solamente risalito sul trono di Bonaparte [Napoleone (1769-1821)]” (47).
Poco prima di morire, egli ebbe a scrivere: “Io muoio con l’Europa” (48) — en passant: affermando immediatamente dopo, con il solito umorismo, di essere quindi “in buona compagnia” (49).
Maistre invoca una Restaurazione che tratti la Rivoluzione come se non fosse mai avvenuta? No: “Secondo il mio modo di pensare, il progetto d’imbottigliare il lago di Ginevra è molto meno pazzo di quello di ristabilire le cose esattamente dov’erano prima della rivoluzione” (50). E ancora: “Questa Rivoluzione non può finire con un ritorno all’antico stato di cose, che sembra impossibile, ma con la rettifica dello stato in cui siamo caduti” (51).
Che fare allora? Anzitutto è necessario tenere presente cosa si è detto della crisi dell’Occidente e identificarne la profondità metafisica: “[…] la rivoluzione non assomiglia a niente di quanto si è visto in passato. Essa è satanica nella sua essenza. Non sarà mai spenta totalmente se non dal principio contrario” (52), “[…] che bisogna soltanto liberare (è tutto ciò che l’uomo può fare); poi esso agirà da solo” (53).
Se la Rivoluzione è satanica, essa non è un errore di logica, un fraintendimento: è la declinazione umana e storica del “non serviam” (Ger. 2, 20). Il diavolo sa bene a chi ha detto “no”, eppure l’ha fatto: “[…] è stato scritto: “Se anche vedessero i miracoli, non crederebbero”; non vi è nulla di più vero. La chiarezza dell’intelligenza non ha nulla in comune con la rettitudine della volontà” (54). Così, il “principio contrario” sopra invocato non può essere che la conversione dei singoli: “La ragione eterna ha parlato, e i suoi oracoli infallibili ci hanno indicato l’orgoglio come l’inizio di tutti i crimini; questo terribile principio si è scatenato sopra l’Europa, da quando questi filosofi vi hanno spogliati della fede dei vostri padri. L’odio verso l’autorità è il flagello dei nostri giorni: l’unico rimedio a questo male è nelle massime sacre che siete stati costretti a dimenticare. Archimede [di Siracusa (287-212 a.C.)] sapeva bene che per sollevare il mondo occorreva un punto d’appoggio fuori del mondo.
“Sono l’ateismo e l’immoralità ad instillare la rivolta e l’insurrezione. Guardate cosa succede sotto i vostri occhi: al primo segnale di rivoluzione, la virtù si nasconde, e solo il crimine agisce. Che cos’è dunque questa libertà che ha come fondatori, come istigatori e come apostoli soltanto degli scellerati? Ah! voi avete un mezzo sicuro per realizzare grandi e salutari rivoluzioni. Invece di ascoltare i predicatori della rivolta, lavorate su voi stessi: poiché siete voi che fate i governi, e questi non possono essere cattivi se voi siete buoni” (55). Altrove: “Si dice: “Non vi è più modo di ristabilire il vecchio ordine di cose; anche gli elementi non esistono più”.
“Ma gli elementi di tutte le Costituzioni sono gli uomini; non vi sarebbero per caso più uomini in Francia?” (56).
È la conversione del singolo il punto di partenza del risanamento delle comunità: “San Paolo ha creato la parola “edificare” che è stata adottata poi da tutte le lingue cristiane e che a prima vista lascia meravigliati: infatti quale affinità può esistere fra la costruzione di un edificio e il buon esempio da dare al prossimo?
“Ma è facile scoprire la radice di questa espressione. Il vizio divide gli uomini quanto la virtù li unisce. Non esiste un atto contro l’ordine che non dia origine a un interesse particolare contrario all’ordine generale; non esiste un atto puro che non sacrifichi un interesse particolare all’interesse generale, che non tenda cioè a creare una volontà unica e regolare per sostituire le infinite miriadi di volontà divergenti e colpevoli” (57).
“I veri miracoli sono le buone azioni compiute nonostante il nostro carattere e le nostre passioni. Il giovane che di fronte alla bellezza femminile sa dominare i propri sguardi e i propri desideri è un taumaturgo più grande di Mosè” (58).
Maistre non propone anzitutto, per contrastare la Rivoluzione, nuove suddivisioni di Stati, né nuove famiglie regnanti, né leggi, pur essendo questi mezzi da lui tutt’altro che disprezzati; avendo identificato con chiarezza fuori dal comune la Rivoluzione come una rivolta non principalmente politica bensì metafisica, quindi con radici antropologiche e spirituali, non muove né divisioni né corone sulla carta europea: invita i singoli alla conversione, alla preghiera e all’espiazione.
Si diceva che non si può fermare il tempo o addirittura tornare indietro: ci vuole sempre discernimento, cioè prudenza, nel dipanare la matassa di tutti i giorni e isolare il male valorizzando in ogni cosa ciò che vi è di buono. Per esempio: “Sicuramente, le assemblee popolari non mi piacciono più di quanto non piacciano ad altri; le follie francesi non devono però disgustarci della verità e della saggezza che si trovano nel giusto mezzo. Se esiste una massima incontestabile è che, in tutte le sedizioni, in tutte le insurrezioni, in tutte le rivoluzioni, il popolo comincia sempre coll’aver ragione, e finisce sempre per aver torto. È falso dire che ogni popolo deve avere la sua assemblea nazionale nel senso francese; è falso pensare che ogni individuo possa essere eleggibile al consiglio nazionale; è falso anche pensare che ogni individuo possa essere elettore senza distinzione di rango o di censo; è falso pensare che tale consiglio debba essere co-legislatore; è falso infine pensare che debba essere composto allo stesso modo nei diversi paesi. Dal momento che tutte queste proposizioni esagerate sono false, si deve forse dire che nessuno ha il diritto di parlare per il bene comune a nome della comunità, e che non possiamo più essere ragionevoli perché i Francesi hanno compiuto un’azione di grande follia?” (59).
E ancora: “[…] il mescolarsi dei fanciulli e degli uomini è precisamente l’aspetto più bello del governo aristocratico; tutti i ruoli sono distribuiti con saggezza nell’universo: quello della gioventù è di fare il bene e quello della vecchiaia è di impedire il male; l’impetuosità dei giovani, che esige azione e creazione, è molto utile allo Stato; ma poiché essi sono troppo spinti a innovare, a demolire, farebbero troppo male se non ci fosse la vecchiaia pronta a fermarli: questa a sua volta si oppone anche alle riforme utili; è troppo rigida, non è capace di adattarsi alle circostanze e talvolta un senatore di vent’anni può essere posto molto opportunamente vicino a uno di ottanta” (60).
E infine, con riferimento alla dottrina e alle tradizioni ecclesiastiche, è notevole il passo seguente: “Quanto all’invariabilità dei dogmi scritti, delle formule nazionali, delle vesti, delle mitre, dei pastorali, delle genuflessioni, degli inchini, dei segni di croce, ecc., aggiungerò una sola parola a quanto ho detto sopra. Cesare [Gaio Giulio (102/100-44 a.C.)] e Cicerone [Marco Tullio, 106-43 a.C.], se avessero potuto vivere fino ai nostri giorni, sarebbero vestiti come noi: le loro statue porteranno eternamente la toga e il laticlavio” (61).
5. La fecondità del pensiero
Maistre è stato vittima di una demonizzazione da parte della cultura rivoluzionaria, che in lui ha visto poco più di un “apologista del boia”. Indubbiamente il suo stile paradossale ha prestato il fianco a chi lo ha bollato così, ma ciò è avvenuto solo grazie all’omissione di elementi sostanziali del suo pensiero. Non vi è comunque da stupirsi per tale infamia: “[…] la restaurazione dell’ordine, che viene chiamata contro-rivoluzione, non sarà affatto una rivoluzione contraria, bensì il contrario della rivoluzione” (62); egli confligge in modo inconciliabile non con una singola teoria o corrente rivoluzionaria, ma con il paradigma stesso della Rivoluzione, cioè della modernità secolarizzata, conflitto così bene rappresentato dallo stimato amico Bonald: “[…] la rivoluzione ha avuto inizio con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, e […] essa non finirà che con la dichiarazione dei diritti di Dio” (63). Una comprensione del suo pensiero può avvenire solo con chi si ponga sul suo stesso livello di riflessione, sia disposto a mettere in discussione il dogma della modernità secolarizzata — seguendo la lettera dell’illuminismo stesso — e lo affronti in una disputa ideale sui fondamenti ultimi di quella. Dopo due secoli di bagni di sangue, dai crimini perpetrati in Vandea (64) al cannibalismo rituale nella Cina comunista (65), passando per Lager e GULag; bagni di sangue pianificati, gestiti e portati a termine con una metodicità demoniaca, ai quali la storia non è in grado di porre a fianco nulla di lontanamente paragonabile; perpetrati nell’intento di creare l’”uomo nuovo” in nome di suoi presunti diritti promulgati senza Dio e contro Dio (66); un tale atteggiamento di ascolto mi pare non solo ragionevole ma doveroso da parte di chi ha a cuore gli autentici diritti dell’uomo. Questi non conculcano con cieca superbia quelli di Dio, ma tutt’al contrario in essi affondano le loro radici (67), divenendo solo così simili alla casa fondata “sulla roccia” (Mt. 7, 24).
La profondità del suo pensiero, la sua potenza evocativa (68), i suoi grandi affreschi storici e teoretici hanno costituito feconda ispirazione in uomini quali il sacerdote roveretano beato Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) — per il quale Maistre è un “pensatore sublime” (69) dotato di “spirito indipendente dai pregiudizî del suo secolo” (70) — e il pensatore e uomo d’azione brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), che al conte savoiardo esplicitamente si rifà (71).
Ignazio Cantoni
Note:
(1) Cfr. Joseph de Maistre, Lettera del Conte G. de Maistre al duca di Brunswick (1782), in Vincenzo Francia, La Massoneria nel pensiero di un filosofo cristiano della fine del Settecento. Lettera del conte G. de Maistre al duca di Brunswick, trad. it., Edizioni del Centro Studi Sociali, Napoli 1945, pp. 29-88.
(2) Cfr. Massimo Introvigne, La contro-rivoluzione di Joseph de Maistre, consultabile sul sito Internet <www.cesnur.org/2011/mi-mai.html>, visitato il 30-3-2013.
(3) J. de Maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, trad. it., con una Nota dell’editore, Il Cerchio, Rimini 2012, p. 39.
(4) Idem, Considerazioni sulla Francia, trad. it., con una Prefazione di Guido Vignelli, Editoriale Il Giglio, Napoli 2010, p. 74, n. 73.
(5) Cfr. Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia e sulle relative deliberazioni di alcune società di Londra in una lettera indirizzata a un gentiluomo di Parigi dall’Onorevole Edmund Burke. 1790, a cura e con Prefazione di Marco Respinti, trad. it., Ideazione, Roma 1998; cfr. pure Idem, Riflessioni sulla Rivoluzione francese, con Prefazione di Domenico Fisichella, trad. it., Ciarrapico, Roma 1984; e la recensione di Paolo Mazzeranghi, in Cristianità, anno XIV, n. 132, aprile 1986, pp. 11-12.
(6) Cfr. J. De Maistre, Della sovranità del popolo, trad. it., a cura di Riccardo Albani, Editoriale Scientifica, Napoli 1999. Sebbene esista una traduzione più recente, Studio sulla Sovranità, in Idem, Scritti politici. Saggio su il principio generatore delle Costituzioni politiche. Studio sulla sovranità, trad. it., con una Presentazione di don Luigi Negri e una Introduzione di Franco Cardini, Cantagalli, Siena 2000, pp. 109-334, mi servo della traduzione di Albani.
(7) Cfr. Idem, I meriti della Rivoluzione, a cura di Claudio Galderisi ed Enrico Rufi, in Emmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836), Maximilien-François-Isidore de Robespierre (1758-1794) e J. de Maistre, Pro e contro la Rivoluzione, trad. it., a cura di Anna Maria Rao, C. Galderisi ed E. Rufi, con una Introduzione di Giuseppe Galasso, Salerno Editrice, Roma 1989, pp. 277-372.
(8) Cfr. Idem, Considerazioni sulla Francia, cit.
(9) Cfr. Idem, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, cit.
(10) Cfr. Idem, Elogio dell’Inquisizione di Spagna, trad. it., con una Prefazione di Rino Cammilleri, Il Cerchio, Rimini 1998.
(11) Cfr. Idem, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, edizione italiana a cura di Alfredo Cattabiani (1937-2003), con in appendice il trattato di Plutarco Perché la giustizia divina punisce tardi nella versione e con il commento di J. de Maistre, Rusconi, Milano 1971.
(12) Cfr. Idem, Il Papa, con Introduzione di Carlo Bo (1911-2001), note a cura di Jacques Lovie (1908-1987) e Joannès Chetail (1909-2002), trad. it., Rizzoli, Milano 1995.
(13) Per la vita, cfr. Henri de Maistre, Joseph de Maistre, Perrin, Parigi 1990; per le opere di e su Maistre, cfr. Alain de Benoist, Bibliographie générale des droites françaises, vol. 4, Joseph de Maistre, Ernest Renan, Jules Soury, Charles Péguy, Alphonse de Châteaubriant, Jacques Benoist-Méchin, Gustave Thibon, Saint-Loup (Marc Augier), Louis Pauwels, Éditions Dualpha, Coulommiers 2005, pp. 11-131; due pregevoli introduzioni sono costituite da Marco Ravera, Introduzione a il tradizionalismo francese, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 10-54, e D. Fisichella, Joseph de Maistre pensatore europeo, Laterza, Roma-Bari 2005.
(14) J. de Maistre, Della sovranità del popolo, cit., p. 189.
(15) Idem, Considerazioni sulla Francia, cit., p. 31.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Idem, Discours a M.me la Marquise de Costa sur la vie et la mort de son fils Alexis-Louis-Eugène de Costa, in Idem, Oeuvres Complètes, édition ne varietur contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. VII, Le Caractère extérieur du Magistrat. — Lettres d’un Royaliste savoisien. — Discours à M.me la Marquise de Costa. — Cinq Paradoxes. — Adresse du Maire de Montagnole. — Discours du citoyen Cherchemot. — Bienfaits de la Révolution française. — Son Em. le cardinal Maury. — Examen d’un écrit de J.-J. Rousseau, 2e tirage, Imprimerie Vitte, Lyon 1898, pp. 234-278 (p. 274).
(19) Idem, lettera a Aimé Louis Vignet barone des Étoles, del 2-5-1794, in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. IX, Correspondance I. 20 février 1786-30 décembre 1805, Imprimerie Vitte & Perrussel, Lyon 1884, pp. 60-61 (p. 60).
(20) Idem, Chiarimento sui sacrifici, trad. it., con una Introduzione di Jean Louis Schefer, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1993, p. 35.
(21) Idem, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, cit., p. 592.
(22) Idem, Discours a M.me la Marquise de Costa sur la vie et la mort de son fils Alexis-Louis-Eugène de Costa, cit., p. 274.
(23) Idem, Cinque paradossi, trad. it., con Introduzione di Armando Torno, Morcelliana, Brescia 2009, p. 73.
(24) Idem, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, cit., p. 269.
(25) Ibid., pp. 269-270.
(26) Idem, Stato di natura. Contro Jean-Jacques Rousseau, trad. it., a cura di Francesco Boccolari, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 61-62.
(27) Ibid., p. 65.
(28) Idem, Napoleone, la Russia, l’Europa. Dispacci da Pietroburgo (1811-1813), trad. it., Introduzione e cura di Ernesto Galli della Loggia, Donzelli, Roma 1994, p. 38.
(29) Idem, Della sovranità del popolo, cit., p. 53.
(30) Idem, Il Papa, cit., p. 35.
(31) Ibid., p. 33.
(32) Cfr. Idem, A une dame russe sur la nature et les effets du chisme et sur l’unité catholique, in Idem, Oeuvres Complètes, édition ne varietur contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. VIII, Observations critiques sur une édition des lettres de Mme de Sévigné. — Reflexions sur le Protestantisme. — Lettres sur la Chronologie biblique. — Lettres a une Dame protestante et à une Dame Russe. — Opuscules sur la Russie. — Lettres sur la Fête séculaire des protestants, et sur l’Etat du Christianisme en Europe, Imprimerie Vitte, Lyon 1893, pp. 139-157 (p. 145).
(33) Idem, Della sovranità del popolo, cit., pp. 92-93.
(34) Idem, Il Papa, cit., p. 349.
(35) Ibid., p. 282.
(36) Idem, Della sovranità del popolo, cit., p. 94.
(37) Idem, Il Papa, cit., p. 221.
(38) Idem, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, cit., pp. 83-85.
(39) Idem, Il Papa, cit., p. 46.
(40) Idem, Lettera a M.me Anne-Sophie Soymonoff Swetchine (1782-1857), del 31-7-1815, in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. XIII, Correspondance V. 1815-1816, Imprimerie Vitte & Perrussel, Lyon 1886, pp. 119-125 (p. 125).
(41) Idem, Il Papa, cit., p. 29.
(42) Ibid., pp. 29-30.
(43) Idem, Della sovranità del popolo, cit., p. 90.
(44) Idem, Il Papa, cit., pp. 162-163.
(45) Idem, Corrispondenza del 27-7-1815, in Idem, Correspondance diplomatique (1811-1817), recuieille et publiée par Albert Blanc (1835-1904), t. 2, Michel Lévy Frères, Parigi 1860, pp. 89-98 (p. 93).
(46) Idem, Il Papa, cit., p. 27.
(47) Idem, Corrispondenza del 6-7-1814, in Idem, Correspondance diplomatique (1811-1817), cit., t. 1, Michel Lévy Frères, Parigi 1860, pp. 378-384 (p. 379).
(48) Idem, Lettera a Marie-Louis-Auguste Demartin du Tyrac, conte de Marcellus (1776-1841), del 9-8-1819, in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. XIV, Correspondance VI. 1817-1821, Imprimerie Vitte & Perrussel, Lyon 1886, pp. 182-184 (p. 183).
(49) Ibidem.
(50) Idem, Lettera a Vignet barone des Étoles, del 9-12-1793, in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. IX, cit., pp. 57-59 (p. 58).
(51) Idem, Memoria s.d., in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. XI, Correspondance III. 1808-1810, Imprimerie Vitte & Perrussel, Lyon 1885, pp. 352-354 (p. 352).
(52) Idem, Il Papa, cit., p. 27.
(53) Idem, Lettera a S.E. mons. Antonio Gabriele Severoli (1757-1824), del 1°-12-1815, in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. XIII, cit., pp. 184-193 (p. 188).
(54) Idem, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, cit., p. 605.
(55) Idem, Della sovranità del popolo, cit., p. 168.
(56) Idem, Lettera al visconte de Bonald, del 29-5-1819, in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, vol. XIV, cit., pp. 166-170 (pp. 168-169).
(57) Idem, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, cit., p. 534.
(58) Ibid., p. 605.
(59) Idem, Della sovranità del popolo, cit., pp. 111-112.
(60) Ibid., p. 117.
(61) Idem, Il Papa, cit., p. 382.
(62) Idem, Considerazioni sulla Francia, cit., p. 125.
(63) Louis-Gabriel-Ambroise visconte de Bonald, Discours préliminaire, in Idem, Législation primitive, considérée dans les derniere temps par le seules lumières de la raison, suivie de divers traités et discours politiques, troisième édition, revue et corrigée, t. I, in Idem, Oeuvres, vol. II, Librairie d’Adrien Le Clere et Cie, Parigi 1829, p. 250.
(64) Cfr. per esempio Reynald Secher, Il genocidio vandeano, trad. it., con una Prefazione di Jean Meyer e una Presentazione di Pierre Chaunu (1923-2009), Effedieffe, Milano 1989.
(65) Cfr. M. Introvigne, I “banchetti di carne umana” nella Cina di Mao, in il Timone. Mensile di informazione e formazione apologetica, n. 58, anno VIII, Milano dicembre 2006, pp. 22-24.
(66) Cfr. per esempio le suggestioni contenute in Stanisław Grygiel, Le radici dell’Europa, in Cristianità, anno XXXIII, n. 327, gennaio-febbraio 2005, pp. 3-7, specialmente pp. 5-6.
(67) Cfr. Alberto Caturelli, I diritti dell’uomo e il futuro dell’umanità, in Cristianità, anno XXIX, n. 307, settembre-ottobre 2001, pp. 11-18; cfr. pure Victorino Rodríguez y Rodríguez O.P. (1926-1997), La “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” di fronte alla morale cattolica, ibid., anno XXVI, n. 283-284, novembre-dicembre 1998, pp. 15-27.
(68) Cfr. M. Introvigne, La Rivoluzione francese: verso una interpretazione teologica?, in Quaderni di “Cristianità”, anno I, n. 2, Piacenza estate 1985, pp. 3-25.
(69) Antonio Rosmini Serbati, Filosofia della politica, a cura di Mario d’Addio, vol. 33 di Idem, Opere edite ed inedite, edizione nazionale promossa da Enrico Castelli (1900-1977), edizione critica promossa da Michele Federico Sciacca (1908-1975), a cura dell’Istituto di Studi Filosofici di Roma e del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, Città Nuova, Roma 1997, p. 117.
(70) Idem, Logica. Libri tre, a cura di Vincenzo Sala, vol. 8 di Idem, Opere edite ed inedite, cit., Città Nuova, Roma 1984, p. 34, n. 22.
(71) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della “fabbrica” del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009, p. 85.