Bruto Maria Bruti, Cristianità 321 (2004)
Joseph Nicolosi, dottore in filosofia, è cofondatore e direttore della NARTH, l’Associazione Nazionale per la Ricerca e la Terapia dell’Omosessualità , membro dell’APA, l’Associazione Psicologica Americana, conferenziere di fama mondiale, autore di studi e di diversi articoli scientifici. Esercita la professione di psicoterapeuta a Encino, in California.
L’opera di Nicolosi, Omosessualità maschile: un nuovo approccio, nasce dall’esperienza, scientificamente fondata, di uno psicoterapeuta internazionalmente riconosciuto, che applica con successo la terapia “ricostitutiva”. L’edizione italiana è aperta da una Presentazione di Chiara Atzori, medico infettivologo (pp. 5-6) e chiusa da una Postfazione del padre scolopio Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria (pp. 159-160). Avendo fatto stato dell’esperienza, della casistica affrontata in anni di lavoro, in Case stories of reparative therapy (Jason Aronson, North Vale, New Jersey-Londra 1993), nel saggio in esame l’autore percorre un itinerario dottrinale, sostenuto dalla vasta Bibliografia che chiude il volume (pp. 161-176). Dopo Ringraziamenti (pp. 7-8) e un’Introduzione (pp. 9-11), nella parte I — costituita dai capitoli dall’1 al 6 — Nicolosi descrive la tensione Alla ricerca della propria identità sessuale (pp. 13-47); quindi, nella parte II — dal capitolo 7 al 13 —, affronta Problematiche connesse (pp. 49-110), per, finalmente, nella parte III — dal capitolo 14 al 17 — esporre le linee di una Psicoterapia (pp. 111-158).
Nel capitolo 1 — Omosessuali non-gay: chi sono? (pp. 15-17) — Nicolosi distingue gli omosessuali gay — il termine gay descrive un’identità socio-politica — da quelli non gay: l’omosessuale non gay sente che il suo progresso personale è intralciato dall’attrazione che prova per gl’individui del suo stesso sesso. Il mondo normale lo evita, il mondo gay lo considera estraneo, la professione psichiatrica, nello sforzo di sostenere la liberazione gay, lo ha abbandonato.
Grazie ai nuovi studi e alle nuove ricerche sull’omosessualità, oggi gli uomini possono decidere se condurre uno stile di vita gay o se intraprendere un cammino di crescita oltre l’omosessualità.
Nel capitolo 2 — La politica della diagnosi (pp. 18-22) —, l’autore ricorda che i tre pionieri della psichiatria, l’austriaco Sigmund Freud (1856-1939), lo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961) e l’austriaco Alfred Adler (1870-1937), consideravano l’omosessualità una patologia. Oggi, invece, la voce “omosessualità” è scomparsa dai manuali di psichiatria. Questo cambiamento non è nato da nessun tipo di ricerca psicologica, che potesse spiegarlo e giustificarlo. Nel 1952 il DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico delle Malattie Mentali dell’APA, includeva l’omosessualità nella lista dei disturbi della personalità. Nel 1968 il DSM cancellava l’omosessualità da questa lista, inserendola sotto la voce “deviazioni sessuali”, e la considerava un problema solo se l’individuo non si sentiva a suo agio con il proprio comportamento omosessuale. L’autore sostiene che questa è una falsa distinzione perché, se l’omosessualità può essere compatibile con una parte dell’io cosciente — abitudini e opinioni errate acquisite, che costituiscono il falso io —, non sarà mai compatibile con i livelli più profondi dell’io, il “vero io”: l’omosessualità, infatti, è il sintomo di un fallimento nel processo d’integrazione della propria identità. I sintomi ne indicheranno sempre l’incompatibilità con il vero io. Il problema non sta nell’atteggiamento della persona nei confronti della propria omosessualità, ma nell’omosessualità stessa. Nel 1973 l’omosessualità scompare dal DSM. La psichiatria ha cancellato l’omosessualità dai suoi manuali sotto la spinta intimidatoria di due fattori politici: l’ideologia della Rivoluzione Sessuale e i movimenti per i diritti delle minoranze. Oltre alle pressioni politiche, la psichiatria ha cancellato l’omosessualità dai suoi manuali per altri due motivi: per eliminare fattori di discriminazione sociale nei confronti delle persone omosessuali e perché gli psicologi non sono riusciti a identificare un tipo di terapia efficace in tutti i casi. Ma non si può cancellare la diagnosi di un disturbo per la mancanza di una terapia adatta per tutti. Questa situazione ha creato una discriminazione inversa nei confronti degli omosessuali non gay, che vengono scoraggiati dagli stessi specialisti ai quali si rivolgono per aiuto. Se l’omosessuale gay è libero di vivere la sua identità socio-politica, l’omosessuale non gay ha il diritto di essere aiutato a intraprendere un cammino di crescita oltre l’omosessualità e gli psicologi hanno il diritto e il dovere di continuare a studiare le cause, la natura e le terapie per la cura dell’omosessualità.
Nel capitolo 3 — Il fallimento della professione psichiatrica (pp. 23-28) —, Nicolosi sostiene che gli psicologi sono condizionati dall’opinione comune secondo cui l’omosessualità è una realtà ineluttabile, non passibile di cambiamento. Per questo non forniscono una terapia a quanti scelgono di lottare per superare le problematiche omosessuali, ma li incoraggiano ad accettare la propria condizione e considerano efficace il trattamento solo quando riescono a liberarli dai sensi di colpa. Negli anni 1960-1970 è nata una corrente psicologica cosiddetta umanistica, per la quale ciò che conta sono soltanto le sensazioni soggettive: il mito dei sentimenti contrapposti alla ragione. Ma, in realtà, la vera crescita psicologica è sempre il prodotto dell’intelligenza, il risultato della conoscenza razionale di sé stessi, del proprio vissuto familiare e della realtà oggettiva. La crescita psicologica autentica nasce dall’integrazione dei sentimenti con la volontà, della volontà con la ragione e della ragione con la verità.
Nicolosi descrive la storia dei metodi di cura dell’omosessualità. Soltanto con il contributo di Elizabeth R. Moberly con la sua “teoria del distacco difensivo” (p. 26) sono state poste le premesse di una nuova concezione terapeutica. La psicologa evidenzia anche come l’assenza del coinvolgimento personale del terapeuta sia un “ostacolo” (p. 25) verso la guarigione. Il terapeuta emotivamente distaccato riattiva nel paziente il ricordo delle prime frustrazioni derivategli da una figura paterna fredda e ipercritica. Il terapeuta, inoltre, dev’essere dello stesso sesso del paziente e il coinvolgimento terapeuta-paziente è il fattore determinante della “terapia ricostitutiva” (p. 26), attraverso la quale viene completato il mancato processo d’identificazione sessuale. Anche i rapporti non erotici con altri maschi, basati sulla reciprocità e sulla fiducia, favoriscono il processo terapeutico.
Nel capitolo 4 — L’importanza del rapporto padre-figlio (pp. 29-35) —, viene spiegato lo sviluppo dell’identità sessuale del bambino, l’identificazione primaria con la madre — fonte di cure e di nutrimento —, la rinuncia del maschio alla sfera femminile, l’influenza del padre nel processo di separazione dalla madre e l’identificazione con il padre.
L’omosessualità è un problema dello sviluppo, quasi sempre il risultato di rapporti familiari problematici, in particolare fra padre e figlio. La capacità del padre di suscitare nel figlio l’identificazione maschile dipende da due fattori: la sua autorevole influenza all’interno dell’ambiente domestico e un atteggiamento affettuoso e disponibile in grado d’incoraggiare l’autonomia del figlio. Autorità e amore costituiscono propriamente ciò che viene chiamato “il carisma” (p. 34) del padre.
Nicolosi illustra la Formazione del legame padre-figlio nel capitolo 5 (pp. 36-39). Per la formazione del legame è fondamentale capire che i maschi percepiscono il loro corpo in termini di forza e d’azione, non come oggetto statico. Per le donne è sufficiente relazionarsi in modo statico: per esempio chiacchierando sedute. Nelle vecchie generazioni la condivisione di un’attività fisica, fra padre e figlio, avveniva attraverso la condivisione del lavoro quotidiano: la lotta con la terra, gli attrezzi del lavoro, e così via. Oggi il lavoro del padre è lontano dal bambino e bisogna inventare attività che padre e figlio possano svolgere insieme. Nella storia dell’uomo il passaggio del maschio dall’infanzia all’età adulta era caratterizzato dalla sfida di un rito d’iniziazione. Ogni rito era incentrato su tre concetti chiave: identificarsi troppo a lungo con la madre rappresentava una minaccia per la mascolinità del ragazzo, la mascolinità è una conquista, non un dato di fatto, la mascolinità è il risultato di una vera lotta e di un riconoscimento-accettazione da parte dei maschi adulti. L’omosessualità, ricorda Nicolosi, è il sintomo di un fallimento del proprio processo d’iniziazione. Il capitolo 6 è dedicato al Fallimento del rapporto padre-figlio (pp. 40-47) quale causa dello sviluppo dell’omosessualità. Anche se molti eterosessuali hanno avuto un rapporto non favorevole con il proprio padre, gli omosessuali dimostrano un rifiuto del padre come modello. La casistica dimostra che l’omosessuale si aggrappa alla decisione di non voler assomigliare al proprio padre, ma, paradossalmente, “chi sia il padre” (p. 43) rimane un mistero. I padri degli omosessuali mancano del “carisma” della paternità, che consiste nell’autorevolezza e nell’amore. Alcuni padri sono “inadeguati” (p. 45) per motivi contingenti quali la lontananza, il divorzio, il peso economico della nuova famiglia, il rapporto conflittuale con la madre del figlio. Altri padri presentano disturbi evidenti della personalità come narcisismo, egocentrismo, ipercriticismo e freddezza.
Nel capitolo 7, Nicolosi descrive i Problemi insorti nell’infanzia (pp. 51-64) dell’omosessuale. In qualche momento del suo rapporto con il padre, il bambino pre-omosessuale è ferito o deluso. Il bambino reagisce, in una prima fase, con tentativi d’approccio, ma se continua a sentirsi frustrato nel suo bisogno di approvazione, per proteggersi da future delusioni mette in moto il “distacco difensivo” dal padre. È come se dicesse: “Io rifiuto te e tutto quello che tu rappresenti: vale a dire la tua mascolinità” (ibidem). Il “distacco difensivo” diventa evidente nella fase di latenza, fra i 5 e i 12 anni, dando luogo a timore per i coetanei e alla tendenza a rifugiarsi presso la madre o presso un’altra figura femminile: nonna, zia, sorella maggiore. Il soggetto diventa il cosiddetto “bambino alla finestra” (p. 52), che osserva i giochi dei coetanei maschi che gli paiono aggressivi e pericolosi. Il mondo femminile rappresenta la sicurezza, quello maschile il mistero: si sente attratto e nello stesso tempo spaventato dagli altri bambini. Quando si manifestano le prime esigenze sessuali si sente attratto dal “mistero” del maschio perché l’essere umano “sessualizza” (ibidem) sempre ciò che non conosce, cioè viene sessualmente attirato dal “diverso da sé” (ibidem). L’orientamento pre-omosessuale può essere “intercettato” dalla preferenza che il ragazzo ha per la compagnia delle bambine. Al contrario, il ragazzo pre-eterosessuale esprime “disprezzo” (p. 54) per le bambine, perché sente il bisogno di differenziarsi nettamente nella sua mascolinità, al fine di rafforzare la propria immagine. La maggior parte degli omosessuali ricorda di aver avuto difficoltà relazionali con i coetanei perché l’esperienza del rifiuto da parte del padre risale a un’età troppo precoce per essere ricordata. Nel bambino pre-omosessuale, siccome il padre non ha riconosciuto e apprezzato la mascolinità del figlio, il corpo diventa un oggetto seducente a causa della “sconnessione fra l’io psichico e l’io fisico” (p. 59): egli esibisce il corpo per attirare l’attenzione degli altri uomini o, al contrario, mostra eccessivo pudore se non è soddisfatto del suo aspetto. Fra i 13 e i 15 anni il ragazzo pre-omosessuale sperimenta desideri — fase erotica transitoria — verso i ragazzi che incarnano le qualità che egli più ammira. L’omosessualità è un tentativo sbagliato di riparare la ferita originaria, un “impulso riparatore” (p. 60): l’individuo, invece di sviluppare gli elementi repressi e indifferenziati della mascolinità nel profondo della psiche, cerca di appropriarsi di quanto gli manca a livello biologico-sessuale nel contatto con altri uomini. L’omosessualità non è il desiderio di unione con l’altro, ma piuttosto il desiderio di appropriarsi di quelle qualità dell’altro di cui si sente carente: anche i ricercatori gay David P. McWhirter e Andrew M. Mattison riconoscono nel desiderio omosessuale l’esigenza di rimediare a deficit del processo di formazione dell’identità.
Il capitolo 8 tratta degli Altri fattori: la madre e i rapporti familiari (pp. 65-70). Il “sistema triangolare” (p. 65) madre-padre-figlio nel suo complesso genera lo sviluppo omosessuale. Lo schema di base è una madre amorevole e dominatrice con un padre assente e debole: vengono esaminate numerose variazioni all’interno del sistema. Esiste, inoltre, un collegamento tra qualità di vita familiare insoddisfacente e insorgenza dell’omosessualità: famiglie atipiche, disgregate, fragili, caratterizzate dal desiderio di prevaricazione di entrambi i coniugi. Quando la coppia, per esempio, è particolarmente litigiosa, il figlio maschio tende a simpatizzare con la madre e a identificarsi con la sua sofferenza.
Nel capitolo 9 vengono esaminati i Fattori fisiogenetici (pp. 71-74). La ricerca scientifica sull’uomo ha provato che non esistono fattori genetici e ormonali che possono predeterminare lo sviluppo dell’omosessualità: la ricerca negli animali, poi, dimostra che nei mammiferi non esiste una vera omosessualità. Nicolosi afferma che, anche ammettendo l’esistenza di fattori predisponenti, si può suggerire un’analogia con l’alcolismo: se è vero che alcuni individui nascono con una predisposizione all’alcolismo, è anche certo che nessuno è predestinato a diventare alcolista. La carenza di ormoni maschili, per esempio, può diminuire la reattività sessuale, ma non cambia l’orientamento sessuale.
Nel capitolo 10 vengono descritte le Caratteristiche della personalità omosessuale (pp. 75-85). Le carenze dell’identità sessuale non si rendono evidenti in espliciti tratti femminili, ma si riferiscono a un senso di inadeguatezza interiore. Gli omosessuali presentano vari tipi di difficoltà di autoaffermazione e di competizione con altri uomini e sessualizzano il bisogno di potere personale o di dipendenza. Le fantasie sessuali aumentano quando gl’individui omosessuali si sentono deboli e depressi. Al contrario, quando vedono aumentare il loro potere personale il desidero sessuale diminuisce. Il “distacco difensivo” porta l’omosessuale a erotizzare le sue relazioni con gli altri uomini ma, contemporaneamente, egli prova nei loro confronti ostilità e sfiducia. Questo atteggiamento ambivalente procura frustrazione e spiega l’elevato numero di partner tipico degli omosessuali.
Nel capitolo 11 — Il rapporto d’amore omosessuale — (pp. 86-94), Nicolosi spiega che il rapporto d’amore omosessuale è doppiamente gravato dall’atteggiamento del “distacco difensivo” e dal tentativo di compensare un deficit personale: per questo assume la forma di un’irrealistica idealizzazione dell’altro. Questo conduce inevitabilmente alla delusione e alla continua ricerca di un nuovo partner. Due uomini non possono mai essere complementari per una naturale inadeguatezza anatomica, ma anche per un’inadeguatezza psicologica: l’omosessualità è l’incontro fra due individui con lo stesso tipo di deficit. La mascolinità rimane l’ideale degli omosessuali che cercano nel partner la parte d’identità maschile mancante. Gli uomini effeminati sono tenuti in minor considerazione rispetto agli omosessuali dall’aspetto virile. Molti sono convinti che il semplice contatto fisico con un “uomo forte” (p. 90) possa trasformarli negli uomini forti che vorrebbero essere. Quando l’individuo omosessuale inizia a conoscere un uomo più intimamente il suo interesse sessuale diminuisce.
La sessualità gay viene esaminata nel capitolo 12 (pp. 95-99). Nella norma, gli omosessuali hanno una media di dodici partner all’anno. Il rapporto sessuale, specialmente quello occasionale, dà un momentaneo senso di onnipotenza a cui subentra delusione e senso di colpa e il ciclo si ripete all’infinito. L’atto sessuale è tipicamente isolato e narcisistico: si tratta di un godimento personale e non di un’esperienza condivisa. La sessualità è enfatizzata e l’invecchiamento è una realtà molto negativa nella cultura omosessuale, dove si dà il massimo valore alla giovinezza e all’aspetto fisico.
Nel capitolo 13 — Il rifiuto a riconoscere elementi patologici — (pp. 100-110), vengono esaminate le argomentazioni del movimento di liberazione gay. L’approccio degli studiosi gay è tipicamente sociologico: l’omosessualità è considerata un fatto a priori che non necessita di essere analizzato, come non è necessario indagare le cause dell’eterosessualità. Non tengono conto degli studi sugli squilibri familiari presenti nel vissuto degli omosessuali, perché non esiste alcuna prova scientifica in grado di confutare settantacinque anni di ricerche cliniche ed empiriche sull’omosessualità.
Come prova di normalità presentano la percentuale di tendenza omosessuale che si riscontra nella popolazione: il 4%.
Ma questa pretesa è illogica: è come dire che, siccome una percentuale di persone si rompe una gamba sciando d’inverno, avere una gamba rotta è una condizione naturale che non è necessario evitare. Gli studiosi gay fanno riferimento ad altre culture dimenticando che il rituale omosessuale presso alcune popolazioni selvagge o la pederastia pedagogica nell’antica Grecia — la “relazione mentore-discepolo” (p. 103) — fanno parte solo del “processo d’identificazione maschile” (p. 104), mentre l’omosessualità fra adulti e nella vita di tutti i giorni non è approvata.
Gli esponenti gay, invece di ammettere l’esistenza di problematiche insite nella condizione omosessuale, attribuiscono ogni problema e sofferenza dell’omosessuale alla “omofobia” (ibidem) sociale o all’omofobia interiorizzata. Il termine “omofobia” è oggi riferito a qualsiasi teoria che considera l’eterosessualità naturale rispetto all’omosessualità. Ma se consideriamo questa definizione, qualsiasi cultura o tradizione religiosa della storia del mondo può essere considerata omofobica. Se chiedessimo a tutti i genitori del mondo se avrebbero voluto un figlio omosessuale, scopriremmo di essere quasi tutti omofobici.
Negli ultimi anni è stata imposta la GAT, la Terapia di Affermazione Gay, che si propone di facilitare il processo d’accettazione della propria tendenza da parte degli omosessuali. I sostenitori della terapia affermativa riferiscono che i loro pazienti riacquistano autostima e attribuiscono questa crescita alla risoluzione dell’omofobia interiorizzata. Come spiegano, allora, il fatto che si ottengono gli stessi risultati con la terapia ricostitutiva? In realtà, la terapia di affermazione gay si fonda su motivazioni errate e, se alcuni pazienti ne traggono beneficio momentaneo, ciò è dovuto ai legami omosessuali che nascono casualmente in corso di terapia. La letteratura gay considera essenziale per la felicità dell’omosessuale la ricostruzione di una nuova identità e di una nuova cultura. La conseguenza di ciò è l’alienazione dalla cultura dominante, dalla famiglia d’origine, dagli amici e dalle persone amate, con le quali l’omosessuale si era identificato in precedenza. La “riacculturazione” (p. 109) gay rafforza l’originario atteggiamento infantile di “distacco difensivo”, con il quale il bambino pre-omosessuale decideva di separare la propria identità da un padre distante, e lo proietta verso la società: si tratta di una forma di distacco difensivo su scala sociale. La riacculturazione porta a una sub-cultura costruita sulla base di un processo d’identificazione sessuale incompleto.
Nei capitoli 14, 15, 16 e 17 — La cura (pp. 113-125), Il rapporto terapeauta-paziente (pp. 126-135), Argomentazioni terapeutiche (pp. 136-149) e Psicoterapia di gruppo (pp. 150-158) — vengono esaminate le dinamiche della psicoterapia ricostitutiva per la “crescita” (p. 115) della persona omosessuale. È fondamentale far sviluppare il processo sessuale d’identificazione, che è incompleto e bloccato, e favorire il cambiamento. Infatti un uomo può “consciamente” credere d’aver accettato i suoi desideri omosessuali, ma nei livelli più profondi dell’inconscio sarà sempre in conflitto: non sarà mai profondamente in pace con sé stesso. Nicolosi analizza l’inizio della psicoterapia ricostitutiva, le problematiche del transfert, il concetto di mascolinità e l’importanza dell’autoaccettazione. Al contrario di quanto dicono gli oppositori della terapia ricostitutiva, se è vero che i sensi di colpa possono costituire una forte motivazione iniziale, il senso di colpa non è mai la chiave del successo terapeutico. Infatti, dopo alcuni mesi di terapia i pazienti sono meno tormentati dai sensi di colpa — specialmente da quelli patologici che rafforzano l’autocommiserazione — ma accettano la propria situazione e contemporaneamente sono motivati a completare la propria crescita personale.
Un punto fondamentale del processo di crescita è la riappacificazione con il padre. Il paziente deve capire che il danno più grave non è stato arrecato tanto dal padre, ma da lui stesso con il suo atteggiamento di “distacco difensivo”. Perdonare veramente il padre significa accettarlo per quello che è, compresa la sua incapacità di dare amore. Perdonare veramente è come un’esperienza di morte: significa far morire la fantasia di ricevere amore dal proprio padre, significa, paradossalmente, fare da padre al proprio padre, dargli quanto avremmo voluto ricevere. La compassione è l’ultimo stadio del perdono e nasce spesso quando si capisce che dietro a un padre inadeguato vi è l’ombra di un nonno inadeguato — cioè di un padre-ombra — che si ripete per generazioni. Fra i fattori che favoriscono la prognosi vi sono la motivazione, i valori tradizionali, la mancanza di autocommiserazione, la pazienza e l’accettazione della natura continuativa della lotta intrapresa. L’età più favorevole per la terapia è quella fra i venti e i trent’anni: prima dei venti la terapia è più difficile perché nell’adolescenza l’istinto sessuale è troppo intenso. Nella terapia ricostitutiva dell’omosessuale maschio è importante il ruolo dello psicologo maschio per il completamento del processo d’identificazione: la sua autorevolezza e il suo sincero amore per il paziente rappresentano il “carisma” del padre non avuto.
L’appropriazione della mascolinità ha bisogno anche della sfida di amicizie maschili non sessuali, caratterizzate da intimità e da cameratismo. L’eventuale terapeuta donna deve fare da ponte per l’accettazione del terapeuta uomo. Vengono quindi affrontate varie argomentazioni terapeutiche. Per esempio, al contrario di quello che tutti credono, non sono affatto i rapporti eterosessuali che permettono la crescita dell’omosessuale, anzi, essi producono soltanto un forte senso di fallimento e rinsaldano la convinzione che le relazioni omosessuali siano più significative, più intense e soddisfacenti. Il primo passo verso la liberazione consiste nel diventare consapevoli delle proprie reali motivazioni. La cosa più importante, in realtà, consiste nel reinterpretare la propria storia personale, nel comprendere gli eventi della prima infanzia, le dinamiche dei rapporti con i genitori: questo richiede tempo, pazienza, umiltà e l’aiuto di amicizie vere e disinteressate.
L’ultimo capitolo è dedicato alla psicoterapia di gruppo. Nicolosi conclude il suo studio dicendo che a ogni uomo bisogna offrire la consapevolezza di una nuova vita che lo attende al di là della solitudine, della frustrazione e del dolore.
L’opera di Nicolosi — a integrazione della quale rimando al mio Domande e risposte sul problema dell’omosessualità (in Cristianità, anno , n. 314, novembre-dicembre 2002, pp. 7-24) — ha il non piccolo merito di aver sintetizzato settantacinque anni di ricerche cliniche ed empiriche sul problema dell’omosessualità maschile, quindi di aver “tradotto” in formulazioni di pratica terapeutica la fondamentale “teoria del distacco difensivo” della Moberly, per fronteggiare un problema di tutt’altro che trascurabile spessore umano, individuale e socio-politico.
Bruto Maria Bruti