Josyf Slipyj, Memorie, trad. it., a cura di Iwan Dacko, Alberto di Chio e Luciana Mirri, Edizioni dell’Università Cattolica Ucraina, Leopoli-Roma 2018, pp. 558, euro 25
I cultori della storia religiosa del mondo slavo saluteranno con vivo apprezzamento l’uscita dell’edizione italiana delle Memorie del cardinale Josyf Slipyj (1892-1984), arcivescovo maggiore di Kyiv e degli ucraini, metropolita di Halyč e vescovo di Kamjanec’-Podil’s’kyj, presentata il 21 novembre 2018 a Roma, presso il Centro Il messaggio dell’icona. L’opera è curata dagli studiosi Alberto Di Chio e Luciana Mirri, nonché da mons. Iwan Dacko, a lungo strettissimo collaboratore di Sua Beatitudine Slipyj.
Questo solido e ben annotato studio — che è stato pubblicato in ucraino nel 2014 e in quella lingua ha già avuto tre edizioni — colma le lacune finora esistenti sulla vita di Josyf Slipyj, nota al pubblico grazie ai tre brevi lavori del vescovo Ivan Choma (1923-2006), per lunghi anni segretario del metropolita (Josyf Slipyj. Padre confessore della Chiesa Ucraina martire, Aiuto alla Chiesa che Soffre, Roma 1990; Josyf Slipyj. Vinctus Christi et defensor unitatis, Universitas Catholica Ucrainorum S. Clementis Papae, Roma 1997; e Josyf Slipyj, La Casa di Matriona, Roma 2001).
L’edizione italiana, aperta da una breve introduzione di Alberto Di Chio (Il filo della Provvidenza, pp. 5-7), dalla presentazione (p. 9) di Sua Beatitudine Sviatoslav Ševčuk, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyč, e dalla prefazione (p. 11) del card. Lubomyr Husar (1933-2017), arcivescovo maggiore di Lviv — con giurisdizione su tutti i fedeli della Chiesa greco-cattolica ucraina che, con i suoi sette milioni di fedeli, è la maggiore delle Chiese sui iuris —, è introdotta da mons. Dacko (Memorie: genesi di un progetto editoriale [pp. 13-29]), e da Luciana Mirri (Liberazione del Metropolita, pp. 31-43). Lo stesso Iwan Dacko racconta anche Il periodo romano della vita di Josyf Slipyj e il suo ritorno postumo in Ucraina (pp. 353-418), a Leopoli, dove il metropolita è sepolto. Nell’Appendice (pp. 419-455) sono raccolti documenti sulla liberazione di Slipyj, i suoi Memoranda (pp. 457-487) a Giovanni XXIII (1958-1963) e a Paolo VI (1963-1978), un suo rapporto del 1980 «sulla Chiesa Cattolica Ucraina dopo 35 anni di persecuzione» (pp. 489-498) e il testamento spirituale, Seduto sulla slitta (pp. 499-525), già tradotto e apparso sui Quaderni di «Cristianità» (anno I, n. 2, estate 1985, pp. 26-44).
Grazie alle numerose e puntuali annotazioni a piè di pagina e alla ricca documentazione fotografica, al lettore viene presentata una galleria di personaggi del mondo ecclesiastico e dell’ambiente concentrazionario che gli permette di farsi un’idea precisa sulle condizioni di vita del clero e dei credenti greco-cattolici in epoca sovietica e sulla sopravvivenza della fede religiosa, grazie all’eroica testimonianza di numerosi confessori della fede e nonostante il cedimento di alcuni che, distrutti dalla fame, dall’isolamento e dal crollo fisico e mentale, non sono riusciti a resistere alla disumane pressioni esercitate nei loro confronti.
L’edizione italiana è patrocinata dall’Istituto per gli Studi ecumenici e da quello di San Clemente Papa dell’Università Cattolica Ucraina di Roma, istituzione voluta da Sua Beatitudine Slipyj e realizzata nei primi anni del suo arrivo in Italia. Si deve ricordare in proposito che egli è stato un insigne studioso di Storia ecclesiastica e di teologia dogmatica — ha fondato nel 1923 la rivista trimestrale Bohoslovia, «Teologia») — e autore di numerose e autorevoli pubblicazioni.
Josyf Slipyj nasce il 17 febbraio 1892 a Zazdrist, un villaggio della Galizia nei pressi di Tenopil. Dopo gli anni della scuola primaria e gli studi nel seminario, completa la propria formazione presso le Università di Leopoli, Innsbruck e Roma (allo studio domenicano dell’Angelicum, all’Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Orientale), iniziando ben presto l’attività di docente e diventando negli anni 1929-1944 presidente della Società scientifica teologica. Figlio spirituale, stretto collaboratore e successore del metropolita Andrej Šeptyc’kyj (1865-1944), per decisione di Papa Pio XII (1939-1958) viene elevato alla dignità episcopale il 22 dicembre 1939, durante la prima occupazione sovietica dell’Ucraina.
L’aperta persecuzione della Chiesa greco-cattolica viene avviata pochi mesi dopo la seconda occupazione sovietica dell’Ucraina: tutti i vescovi e numerosi sacerdoti vengono arrestati e nel marzo del 1946 le autorità sovietiche organizzano lo pseudo-concilio di Leopoli che, in violazione delle più elementari norme canoniche, proclama l’aggregazione all’ortodossia della Chiesa greco-cattolica.
In seguito a un processo-farsa organizzato a Kyiv, nel 1946 il metropolita Slipyj viene condannato a otto anni di GULag per collaborazionismo con i tedeschi e attività antisovietica e inizia un lungo pellegrinaggio presso i «santuari» del mondo concentrazionario sovietico, nei campi della Mordovia, di Vorkuta e di Pot’ma durato ben diciotto anni. Liberato dopo avere scontato la condanna, viene relegato in domicilio coatto in una casa per invalidi a Maklakovo, nel territorio siberiano di Krasnojarsk, in condizioni climatiche terribili e di insopportabile disagio fisico e psicologico. Dopo quattro anni di esilio, il 19 luglio 1958, viene arrestato per la seconda volta e trasferito a Kyiv, dove nel 1959, all’età di 77 anni, è condannato a sette anni al termine di un processo lampo tenuto a metà giugno, nel quale i difensori d’ufficio si associano alle tesi dell’accusa (p. 324).
Il vero motivo della condanna consiste nel rifiuto del metropolita di rinnegare il legame della sua Chiesa con Roma e nell’aver respinto una dopo l’altra le proposte collaborazioniste di essere elevato alla guida della metropolia di Kyiv (p. 333), di diventare socio dell’Accademia delle Scienze (ibidem) e, infine — quella di maggior prestigio per un ecclesiastico ambizioso — di essere il primo gerarca ortodosso dopo il patriarca di Mosca (p. 306). Il ricatto, alternato alle minacce e alle privazioni, fa parte della vita di ogni giorno e della tecnica distruttiva esercitata dagli aguzzini. Il metropolita sconta la condanna inizialmente a Kyiv e poi a Novosibirsk, Pot’ma e nell’inospitale Kamčatka, che raggiunge dopo tre mesi di viaggio in condizioni terribili; viene poi inviato a Dubrovlag, un complesso di strutture concentrazionarie costruite attorno al villaggio di Javas, in Mordovia, dove viene associato al Campo dei credenti (p. 330), un settore del lager così chiamato per l’alto numero di detenuti appartenenti al clero, e poi trasferito a Sosnovka, dove l’indomito metropolita dà vita a un seminario clandestino.
Il 23 gennaio 1963, al tramonto dell’epoca del leader comunista Nikita Sergeevič Chruščëv (1894-1971), grazie all’intervento della Santa Sede, e non, come ritenuto comunemente, di quello del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy (1917-1963), Slipyj viene liberato, dopo aver consacrato clandestinamente il vescovo Vasyl Velyčkovs’kyj (1903-1973), che sarà arrestato nel 1969 ed espulso dopo tre anni di carcere. Un profondo dolore viene arrecato al metropolita dal rifiuto della sua richiesta di poter sostare brevemente, sulla via del viaggio verso Vienna e Roma, nell’amata sede di Leopoli.
Nel dicembre 1963 viene confermato arcivescovo maggiore e nel febbraio 1965 riceve la porpora cardinalizia, ma la sua aspirazione a ottenere il riconoscimento del Patriarcato ucraino non viene accolta da Papa Paolo VI, il quale ritiene che ciò sia un ostacolo alla Ostpolitik, in quanto inaccettabile da parte del Patriarcato di Mosca. Superando questa amarezza e le incomprensioni sorte con alcuni alti esponenti della Curia romana menzionati nelle Memorie, Slipyj dedica tutte le proprie forze al rafforzamento della cultura religiosa ucraina, realizzando l’Università Cattolica, edificando la basilica di Santa Sofia, ravvivando la tradizione monastica con la realizzazione di un monastero studita, denominato Studion, nei pressi di Roma, portando avanti i suoi studi, mai interrotti anche negli anni dell’esilio, e tenendo saldi i contatti con le comunità ucraine sparse nei cinque continenti, che visiterà negli anni 1968, 1973 e 1976.
Sua Beatitudine ha sempre voluto tener distinta la sfera religiosa da quella politica per evitare ogni possibile sorta di strumentalizzazione della propria vicenda umana. Perciò non è stato facile convincerlo quel mattino di fine novembre 1977 a intervenire alle sessioni del Tribunale Sacharov sulle violazioni dei diritti umani in URSS, a Roma. Dopo un’esitazione iniziale ha tuttavia accettato di essere presente per denunciare la repressione religiosa in atto nel suo Paese, pronunciando parole assai chiare che meritano di essere ricordate: «Sono presente qui per due ragioni. La prima è che oggi si testimonia qui sulla persecuzione religiosa in Unione Sovietica e nella mia patria, l’Ucraina. Vittima di questa persecuzione è anche la mia Chiesa, di cui sono il Capo e il Padre, e dove si parla della mia Chiesa ci devo essere anche io per difenderla, per tutelarla. La seconda ragione è che sono un ex galeotto, sono un testimone di questo ben noto Arcipelago, come l’ha chiamato un altro galeotto, Aleksandr Solženicyn [1918-2008]. E porto le cicatrici di questo terrore sul mio corpo. Nella mia patria, l’Ucraina, da quasi sessanta anni il popolo soffre una dura repressione religiosa e nazionale. Rinnovata nell’anno 1920, la Chiesa autocefala ortodossa ucraina è stata liquidata dal governo sovietico negli anni 1920-1930. Mentre negli anni 1946-1949 la stessa sorte ha toccato la Chiesa cattolica ucraina, distrutta dal governo sovietico, che si servì del terrore poliziesco, delle torture, dell’esilio e delle prigioni. Tutti i nostri vescovi sono morti o in prigione o in esilio, eccetto chi Vi sta davanti e Vi parla. Il numero dei nostri sacerdoti morti e fucilati non è noto, in genere si accetta la cifra di un migliaio e mezzo, centinaia di migliaia di fedeli ucraini sono stati deportati nei lager, dove molti di loro si trovano ancora senza il diritto di tornare in patria. Nell’Unione Sovietica (sui territori occupati durante la seconda guerra mondiale) c’erano 3.040 nostre parrocchie con 4.595 tra chiese e cappelle. Oggi non esiste nemmeno una parrocchia cattolica ucraina, né un monastero, né una casa ecclesiastica, né una scuola cattolica, né un seminario, e ogni cura pastorale è vietata. Tutti gli edifici ecclesiastici sono confiscati, chiusi, distrutti o parzialmente consegnati alla Chiesa ortodossa russa».
Arrivando quel mattino alla sede delle Udienze ho presentato a Sua Beatitudine un mio conoscente incontrato sul piazzale antistante, il giornalista della Tass Vladimir Malyšev (1910-1976), il quale per la professione svolta era costretto ad avere legami con il KGB. Ricordo il tono affabile con cui il metropolita, assai spesso burbero e severo, si è rivolto a lui per informarsi del suo lavoro in Italia e per augurare a lui e alla sua famiglia ogni bene, senza fare un minimo cenno alle angherie inflitte a una moltitudine di esseri umani dal sistema sovietico e alla catastrofe antropologica generata dal regime comunista, al cui servizio era costretto a operare il rappresentante dell’agenzia di stampa del Cremlino.
Dalle pagine delle Memorie non traspare acrimonia o rancore nei confronti della Chiesa ortodossa, costretta dal regime sovietico a collaborare per l’eliminazione della Chiesa greco-cattolica, come appare senza ombra di dubbio dai documenti di archivio resi oggi disponibili agli studiosi.
Quest’opera costituisce uno strumento indispensabile per la conoscenza non solo della vicenda umana di Slipyj, ma anche per la ricostruzione della storia di questa stessa Chiesa, rinata grazie all’esempio dato a tutti da questo colosso della fede e da altri coraggiosi testimoni menzionati nelle Memorie, come i sacerdoti Illia Blavatsky, Mykola Revt’, Stepan Javors’ky, Volodymir Ternopils’ky e tanti altri.
In appendice al volume i curatori hanno opportunamente inserito anche il suo lungo Testamento spirituale, steso negli anni 1970-1981, indirizzato «Ai vescovi, ai sacerdoti, ai monaci, alle monache e a tutti i fedeli della Chiesa cattolica ucraina», a calce del quale appone la firma «umile Josyf, Patriarca e Cardinale».
Giovanni Codevilla