Marco Tangheroni, Cristianità n. 80 (1981)
All’alba del 7 ottobre 1571, esattamente quattrocentodieci anni fa, aveva inizio, nelle acque di Lepanto, porto della costa ionica, situato di fronte al Peloponneso e non distante da Corfù, una delle più grandi battaglie navali della storia, frutto glorioso degli sforzi della Cristianità controriformistica. Non pare affatto fuori luogo ricordarne l’anniversario, e ricordarlo nel modo più serio, cioè riassumendone la storia e inquadrando l’evento nella situazione del Mediterraneo negli anni immediatamente precedenti e seguenti, così da comprenderlo meglio e da poterlo valutare nella sua portata e nel suo significato.
La Cristianità e il Mediterraneo intorno alla metà del Cinquecento
Intorno alla metà del secolo XVI la situazione della Cristianità era delle più difficili. Il secolo si era aperto, è vero, all’insegna delle promettenti conquiste di nuove terre in Africa, in Asia, in America (1). Ma, già nel secondo decennio, l’incendio acceso dall’ex monaco Martin Lutero era divampato in tutta Europa, approfittando del fertile terreno costituito e preparato da molte tendenze affermatesi nel secolo precedente: dalla diffusione di un movimento culturale umanistico sostanzialmente acristiano, quando non anticristiano (2); alla decadenza della scolastica, con prevalenza in campo filosofico di un neoplatonismo paganeggiante e magico-esoterico o di un aristotelismo averroista; dalla decadenza delle élite aristocratiche e guerriere alla diffusione, nei vari ceti sociali, di una ricerca del lusso e dei piaceri, dal ricorrere di gravi crisi nella Chiesa, come l’esilio del papato ad Avignone e il successivo lungo scisma, alle difficoltà dei Papi rinascimentali di portare a termine una riforma della Chiesa, a parte qualche intervento pur significativo (3).
Mentre Carlo V tentava, attraverso una serie continua di guerre, di salvare l’unità dell’Impero, la Chiesa avviava, col grande Concilio di Trento, insieme uno sforzo di, rinnovamento e di riaffermazione solenne delle verità dogmatiche minacciate dall’errore protestante. Come spesso è accaduto nella sua bimillenaria storia, essa trovava al suo interno una straordinaria capacità di reazione, documentata dal fiorire di santi e di nuovi ordini religiosi, dei quali il più importante fu certamente la Compagnia di Gesù, fondata da sant’Ignazio di Loyola, destinata a rappresentare l’arma di punta della riconquista cattolica di una parte dell’Europa.
Questa d’altra parte era tormentata dalle contrapposizioni politiche fra Stati cristiani. Così, la Francia — del resto tormentata da decennali e sanguinose guerre di religione — non esitava, talora ad appoggiarsi, nella sua politica antiasburgica, a principati protestanti, e giungeva a vedere con qualche sollievo la forza minacciosa dei turchi nel Mediterraneo.
In questo mare, poi, al pericolo turco si aggiungevano i divergenti interessi, anche comprensibili, degli altri Stati cristiani. Così, mentre Venezia era preoccupata soprattutto delle minacce e degli attacchi che i sultani e le loro forze portavano alle posizioni che essa conservava nello Ionio e nell’Egeo, la Spagna si preoccupava in particolare della presenza musulmana nel bacino occidentale del Mediterraneo, cercando di combatterla nelle sue basi nordafricane (4). Quando la generale situazione europea consentì a Carlo V di tentare di assumere una contro-iniziativa nel Mediterraneo, essa si articolò in due grandi spedizioni contro Tunisi e contro Algeri, delle quali solo una poté considerarsi riuscita (5).
È questo un primo elemento da tenere presente: la vittoria di Lepanto e, prima ancora, la costituzione di una flotta congiunta, non fu il risultato di interessi politici convergenti. Essi, semmai, divergevano, come si vide negli anni precedenti e seguenti la battaglia stessa. Essa fu piuttosto il frutto di scelte coraggiose e responsabili di alcuni principi e uomini politici e militari cristiani, nonché della persistenza, ancora notevole, anche a livello, popolare, dello spirito di crociata (6).
Comunque, dalla fine del Trecento, l’espansione turca si era fatta sempre più minacciosa e, pur avendo conosciuto qualche battuta di arresto — sia per vittorie cristiane che per alcune crisi interne —, nel complesso essa appariva quasi inarrestabile, mentre, negli intervalli tra le vere e proprie guerre, un continuo stillicidio di incursioni, attacchi corsari, saccheggi, catture di schiavi, massacri, manteneva, sui mari e lungo le coste, il terrore nei confronti degli aggressivi infedeli. Ed è questo un secondo elemento da tenere presente per valutare Lepanto: il senso di liberazione provato non solo e non tanto per la scomparsa di un pericolo — che fu, come vedremo, temporaneo —, ma anche per la prova raggiunta che fermare i turchi, volendo, era possibile.
L’assedio di Malta nel 1565
Nella impossibilità di rievocare in questa occasione il lungo elenco di vittorie e sconfitte, di piccoli e grandi episodi, di tentativi di sforzi comuni e di prevalenze di interessi particolari, mi pare utile prendere il 1565 come anno di avvio del racconto degli eventi che culminarono nella giornata di Lepanto. Ciò soprattutto per l’importanza che ebbe il fallimento del tentativo turco di conquistare Malta, tentativo che ebbe luogo proprio in quell’anno. Si può ben dire che esso segnò la fine di un periodo di netta prevalenza turca e l’avvio di un’azione cristiana di controffensiva, ancorché marcata da quei ritmi lenti e da quelle diffidenze reciproche di cui ho sopra fatto cenno (7).
L’importanza di Malta non era legata soltanto alla perdita eventuale di una posizione geograficamente e strategicamente del massimo rilievo, ma anche al fatto che l’isola era la base di quell’ordine militare dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme il quale, adattandosi alle nuove circostanze, non aveva perso il suo antico spirito e il senso della sua tradizione, legati alle Crociate e alla Terrasanta. Le sue non numerose galee agivano con decisione sul mare, impegnate regolarmente in una spesso vittoriosa, sempre fastidiosa contro-guerriglia navale, mentre le sue basi costituivano un punto d’appoggio vitale per tutte le navi cristiane (8).
L’attacco a Malta, con tutte le forze turche disponibili, fu deciso in persona dal vecchio Solimano, detto il Magnifico, per vendicare i danni patiti per opera dei Cavalieri di Malta e per dare prova che, dopo vari anni di regno, era ancora capace di sferrare offensive in grande stile contro il mondo cristiano; ciò benché, tra i suoi consiglieri, ve ne fossero alcuni contrari, timorosi delle grandi capacità militari dei Cavalieri — dimostrate anche durante il lungo assedio turco di Rodi — e favorevoli, semmai, ad attaccare le posizioni spagnole di Tunisi e di La Goletta, magari con una manovra diversiva contro Otranto. Comunque, il sovrano turco non era un avventato e si preoccupò di garantirsi la neutralità della Francia e di Venezia (9).
La flotta turca si mosse con grande velocità e rapidità, mentre in Occidente ci si interrogava sui possibili obiettivi che essa avrebbe potuto perseguire; a Malta, allorché il 18 maggio 1565 la immensa flotta turca si presentò davanti all’isola, non erano stati fatti quei preparativi militari — perfezionamento delle opere difensive già esistenti, ammasso di viveri e munizioni — che sarebbero stati dettati dalla consapevolezza di dovere affrontare un così terribile assedio.
In altra occasione, semmai, racconterò in dettaglio le vicende della resistenza dei Cavalieri e dei molti episodi degni di essere conosciuti (10). Qui basterà dire che essa fu eroica, talora ai limiti dell’incredibile. Uno storico, certo non accusabile di facili entusiasmi o di intenti apologetici, Fernand Braudel, dopo aver esposto come la situazione si presentasse favorevole ai turchi, non esita a scrivere: «Ma il gran maestro, Jean Parisot de la Vallette, e i suoi cavalieri si difesero meravigliosamente. Il loro coraggio salvò tutto» (11).
In effetti, quasi tutta l’isola fu occupata, tranne alcune fortificazioni che resistettero a oltranza, nonostante i violenti bombardamenti e i ripetuti assalti. I difensori del piccolo forte di Sant’Elmo morirono tutti, ma ai turchi fu necessario più di un mese per conquistarlo. Il potente forte di San Michele resistette ancora più a lungo, anche grazie alle coraggiose sortite del gran maestro e di un pugno di cavalieri che gettavano il panico nelle fila del grande esercito turco e alleggerivano la pressione degli assedianti.
Malta ebbe così il necessario respiro. Poterono arrivare i primi rinforzi inviati dal viceré di Napoli, don Garcia de Toledo. I turchi decisero di rinunciare all’impresa, abbandonando l’isola il 12 settembre.
È stato scritto che «la vittoria delle armi cristiane — vittoria piena e decisiva — aveva richiesto dolorosi sacrifici: duecentodieci i cavalieri caduti, sessantanove i serventi d’arme morti e, diciassette i dispersi, cinque capellani caduti, cui devono essere aggiunti i soldati morti in combattimento dei quali settemila maltesi e duemilacinquecento di altre nazioni» (12). Ma Solimano il Magnifico, il conquistatore di Rodi e di Belgrado, di Buda e di Tabriz, era stato sconfitto e il mito della invincibilità delle sue armate era stato scosso.
La Lega Santa
Tuttavia, gli avvenimenti del 1565, pur favorevoli, nelle loro conclusioni, alle armi cristiane, avevano confermato i pericoli che derivavano dalla disunione politica e militare della Cristianità. La vittoriosa resistenza di Malta fu un motivo di incoraggiamento per la riscossa cristiana, ma anche un campanello di allarme. Ma altri fattori resero possibile la grande giornata di Lepanto, fra i quali, a parere di quasi tutti gli storici, anche non cattolici, decisiva fu l’azione di san Pio V, salito al pontificato all’inizio del 1566.
Il nuovo Papa era nato presso Alessandria nel 1504. Entrato giovane nell’ordine domenicano, si era distinto per l’austerità della vita e l’impegno nella difesa del cattolicesimo. Lo notò il cardinale Carafa, il quale, nel 1551, lo fece nominare commissario generale dell’Inquisizione; divenuto questi Papa con il nome di Paolo IV (1555-1559), nominò lo stimato padre Michele prima cardinale e, poi, grande inquisitore. Fu, invece, messo da parte dal successivo Papa, Pio IV, il quale, se pure ebbe il merito di chiudere il Concilio di Trento e di avviarne l’applicazione, seguiva una linea più moderata del suo predecessore. L’elezione del cardinale Ghislieri all’inizio del 1566 costituì, perciò, una sorpresa. Essa, dovuta in buona parte alla influenza in conclave di san Carlo Borromeo, segnò la definitiva affermazione, in seno alla Chiesa cattolica, di quelle forze che perseguivano lucidamente ed energicamente una strategia di contro-riforma basata sul rinnovamento della Chiesa stessa: sulla integrale applicazione delle decisioni di Trento; su un’azione, improntata a severità e decisione, di difesa della Cristianità sia sul piano esterno che sul piano interno, a tutti i livelli, da quello politico a quello culturale (13).
Fedele allo spirito di crociata e perfettamente consapevole della minaccia turca — rinnovata, dopo la morte di Solimano, dal nuovo giovane sultano, Selim, salito al trono nel 1566 —, san Pio V si adoperò in ogni modo per appianare i contrasti tra le potenze cristiane mediterranee e per spingerle a uno sforzo comune. Di lui Fernand Braudel ha giustamente scritto: «Certo, non un papa del Rinascimento: un’età ormai finita» (14). Meno giustamente, mi sembra, aggiunge che egli fu «intransigente e visionario» (15); intransigente certamente, ma visionario è termine equivoco, nella misura in cui sembra alludere non soltanto alla sua santità e alla sua tensione spirituale, ma anche a una astrattezza che la sua azione non ebbe. È spesso, purtroppo, con accuse simili che vengono liquidati i progetti la cui magnanimità spaventa; e si fanno valere le ragioni di una pseudo-prudenza politica, le quali sono, sovente, ben più irreali e astratte, anche se molto più comode.
Intanto, mentre le guerre di religione infuriavano in Francia e nei Paesi Bassi, l’espansione turca riprendeva minacciosa, non solo sul mare, ma anche alle frontiere ungheresi dell’impero. Inoltre, non senza sospetti di manovre turche, una rivolta dei musulmani di Granada, scoppiata nel 1569 si estendeva a gran parte dell’Andalusia, protraendosi a lungo.
Mentre le forze spagnole erano impegnate in questa difficile guerra, alla fine vinta sotto la guida di don Giovanni d’Austria — venticinquenne fratellastro del re di Spagna Filippo II —, Tunisi cadeva in mano musulmana e i turchi si apprestavano ad attaccare Cipro, approfittando delle difficoltà di Venezia, della quale, tra l’altro, era bruciato quasi completamente il famoso Arsenale, per un incendio di cui non si può escludere l’origine dolosa (16). Nel luglio, in effetti, i turchi sbarcavano a Cipro e nel settembre conquistavano la capitale, Nicosia. La resistenza cristiana continuò nella più fortificata Famagosta, sotto la guida dell’eroico Marco Antonio Bragadin, poi destinato a orrendo supplizio quando, nell’anno successivo, la città dovrà cadere, nonostante le promesse e i patti.
San Pio V colse l’occasione dell’attacco a Cipro per superare la politica, ormai insufficiente, dei piccoli e occasionali aiuti. Fin dall’inizio perseguì la costituzione di una vera e propria lega. Le trattative furono lente; bisognava superare interessi divergenti. Alla fine la Sacra Lega fu firmata il 20 maggio 1571, nonostante gli sforzi della Francia, che cercava di dissuadere Venezia; nonostante la riluttanza di Filippo II a impegnarsi nel Mediterraneo orientale; nonostante lo scetticismo dei veneziani, rafforzato da una deludente campagna fiaccamente condotta nell’autunno del 1570; nonostante i contrasti tra il granduca di Toscana Cosimo I e il sovrano spagnolo. Ed essa ebbe anche rapida attuazione, nonostante le obbiettive difficoltà di radunare e concentrare una forza ingente, come previsto dall’accordo e come necessario per la situazione, costruendo e armando navi, arruolando marinai e soldati, provvedendo ai rifornimenti resi tanto più difficili, in quanto il raccolto del 1570 era stato cattivo nei paesi spagnoli.
La battaglia di Lepanto
La flotta cristiana riuscì a concentrarsi a Messina alla fine di agosto del 1571. Presto, se si considerano le difficoltà che dovettero superarsi; troppo tardi, secondo i più prudenti tra i condottieri cristiani: Requesens, inviato personale di Filippo II, e Gian Andrea Doria consigliavano di limitarsi a un atteggiamento difensivo; nello stesso senso scriveva da Pisa don Garcia de Toledo. «Ma don Giovanni prestò ascolto soltanto ai capi veneziani e a quei capitani spagnuoli della sua cerchia che insistevano per l’azione; e, presa la decisione, si dedicò al compito con l’ardore esclusivo del suo temperamento» (17). In effetti, fu la sua energia, sostenuta dal fascino della sua personalità e dalla naturale attitudine al comando, a soffocare sul nascere riaffioranti contrasti tra capitani e tra equipaggi. Fu la sua volontà a perseguire lo scontro, andando a cercare l’armata nemica. Furono, poi, il suo coraggio e il suo valore militare a giocare un ruolo molto importante nella battaglia stessa.
Così, la flotta cristiana andò a cercare quella turca, la quale, dopo essersi spinta fino a metà Adriatico, era rientrata a Lepanto, per imbarcare nuovi equipaggi e nuovi viveri. La flotta cristiana era composta da duecentootto galee, quella turca da duecentotrenta. Centodieci galee avevano comandanti veneziani, anche se, per la scarsezza di uomini, gli equipaggi erano stati rinforzati con truppe provenienti dagli Stati spagnoli, in specie per il settore degli archibugieri. Trentasei provenivano da Napoli e dalla Sicilia; ventidue da Genova, al comando del Doria; ventitrè dagli Stati pontifici e da altri Stati italiani (18); quattordici dalla Spagna in senso stretto e tre da Malta (19).
La superiorità numerica, gli ordini avuti dal sultano e il suo temperamento personale indussero il comandante in capo della flotta turca, Alì, a non sottrarsi al combattimento, pur se nell’ambito dei comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario.
Mentre le flotte si avvicinavano fu inalberato sulla galea del comandante in capo dell’armata cristiana (20) lo stendardo della Lega, offerto da san Pio V, che recava in campo cremisi il Crocifisso con, ai piedi, le armi del Pontefice, di Venezia e della Spagna. Don Giovanni e il comandante pontificio, Marcantonio Colonna, imbarcatisi su due piccoli e veloci legni, percorsero tutto lo schieramento, ricordando la natura divina della causa per cui combattevano e che il Crocifisso era il loro vero comandante. A bordo, i cappellani confessavano e i capitani incitavano; gli equipaggi lanciavano grida di guerra (21).
Un contemporaneo ricorda che nelle galee cristiane «tuttavia si toccavano assiduamente gli tamburi e ogni altra sorte di istrumenti», aggiungendo che esse «vogavano in bellissima ordinanza», cioè stando molto vicine, in modo da impedire la penetrazione di gruppi di navi nemiche (22). Il mare si calmò improvvisamente, e ciò parve miracoloso agli esperti di mare. La battaglia si accese, dopo che dalle imbarcazioni ammiraglie erano partiti i primi colpi di artiglieria.
Mentre Gian Andrea Doria, a capo dell’ala destra dello schieramento cristiano, era costretto ad allargarsi per evitare la manovra di aggiramento tentata dal corno sinistro dello schieramento turco, comandato da Euldj-Ali (23), la battaglia si decise nel centro. Le artiglierie giocarono un ruolo tutto sommato secondario, anche se la superiorità di fuoco delle sei galeazze veneziane, pesantemente armate, rimorchiate in prima fila, ebbe un peso rilevante nel gettare un sanguinoso disordine nel cuore dello schieramento nemico. Decisiva fu la superiorità delle fanterie cristiane nella serie dei combattimenti ravvicinati tra singoli gruppi di galee, guidate da capi che «non mancavano di mostrare animo gagliardo e grande» (24). Intanto, «gran parte degli schiavi cristiani che si trovavano sopra l’armata nemica […] facevano ogni sforzo per procacciare il loro scampo e la vittoria dei nostri» (25).
Molti furono gli episodi di eroismo: l’equipaggio della galera Fiorenza dell’Ordine di Santo Stefano, tutto ucciso salvo il suo comandante Tommaso de’ Medici e quindici uomini. Il generale Giustiniani, dell’Ordine di Malta, e il comandante della galera capitana dell’Ordine, fra’ Rinaldo Naro, furono feriti tre volte; quaranta cavalieri di Malta caddero nel combattimento (26): Morì, tre giorni dopo la battaglia anche il comandante in seconda veneziano, Agostino Barbarigo, il quale, accorgendosi che i suoi ordini non erano uditi bene, si scoprì il viso mentre «i nemici più fieramente saettavano; essendogli detto si coprisse […] rispose che minor offesa egli sentirebbe di essere ferito che di non essere udito», e fu così ferito mortalmente (27). Del valore di don Giovanni si è detto; va anche ricordato il grande apporto di Marcantonio Colonna e del settantacinquenne comandante veneziano Sebastiano Venier.
Le proporzioni della sanguinosa battaglia possono essere riassunte in poche cifre. Se i caduti cristiani furono circa 9 mila, quelli turchi furono 30 mila, e varie altre migliaia quelli catturati. Soltanto trenta navi turche riuscirono a fuggire; delle altre, centodiciassette catturate e divise tra gli Stati membri della Lega e le rimanenti andarono distrutte (28).
Una vittoria senza conseguenze?
E la domanda che si pone Fernand Braudel, ricordando che una serie di storici, e primo — si potrebbe dire: naturalmente — Voltaire, hanno insistito sul fatto che negli anni successivi la vittoria non fu sfruttata a fondo (29).
In effetti riemersero antichi contrasti, mentre molti altri scacchieri impegnavano la Spagna. Nel 1575 Venezia fu fiaccata da una terribile epidemia (30). Nel 1578 don Giovanni d’Austria, che era nei Paesi Bassi a combattere contro i protestanti, morì improvvisamente. Ma si tratta di osservazioni storicamente non corrette, come già ho accennato in qualche osservazione precedente.
In realtà bisognerebbe domandarsi, per capire la portata dell’avvenimento, cosa sarebbe successo se la vittoria non ci fosse stata o, peggio, se ci fosse stata una sconfitta. Non solo tutte le posizioni veneziane nei mari Egeo, Ionio e Adriatico sarebbero cadute, ma la stessa intera Italia, e forse anche la Spagna, sarebbero state alla mercé dei turchi (31).
Allora comprenderemo la gioia dei popoli cristiani (32), l’entusiasmo dei veneziani all’arrivo della notizia, i festeggiamenti fatti un po’ dappertutto. Il Papa, quando ricevette dal nunzio veneziano la notizia della vittoria, proruppe in lacrime e ripeté le parole della Scrittura: «fuit homo missus a Deo cui nomen erat Johannes» (33). Il re Filippo II stava assistendo ai vespri nella cappella del suo palazzo, quando entrò l’ambasciatore veneziano, proprio mentre veniva intonato il Magnificat, gridando Vittoria! Vittoria!.
Ma il re non volle che si interrompesse la sacra funzione. Solo al termine fece leggere il dispaccio e intonare il Te Deum (34). Segno che si manteneva il senso della esatta gerarchia della storia in una buona prospettiva cattolica.
Certamente, la vittoria era stata ottenuta grazie a «la intelligentissima prudentia de i nostri generali, la bravura e destrezza de i capitani in mandare ad effetto, il valore de’ gentiluomini e soldati nell’essequire» (35). Ma, più ancora, a ben altre forze, secondo la bella espressione del senato veneto: «Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit», «non il valore, non le armi, non i condottieri ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori» (36). Del resto, la vittoria di Lepanto era avvenuta nel giorno in cui le confraternite del Rosario facevano tradizionalmente particolari devozioni (37).
Marco Tangheroni
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(1) Di tali conquiste non bisogna dimenticare, accanto alle altre, le motivazioni di carattere religioso; cfr. Pierre Chaunu, La conquista e l’esplorazione dei nuovi mondi (XVI secolo), trad. it., Mursia, Milano 1977.
(2) Non è questa la sede per approfondire il discorso sui limiti e sui caratteri dell’umanesimo cristiano, che certamente esistette, ma, a mio parere, senza possibilità di caratterizzare nella sostanza il periodo e le tendenze e non senza illusioni ed errori di prospettiva.
(3) Plinio Corrêa de Oliveira, in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 71-73, coglie l’importanza di questo periodo nell’avvio del processo rivoluzionario. Per le tendenze — sulle quali insiste giustamente il pensatore cattolico brasiliano — è sempre affascinante e ricca di stimoli la lettura di Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo, trad. it., Sansoni, Firenze 1966. Interessante anche — proprio per l’orientamento marxista e progressista degli autori — Ruggero Romano e Alberto Tenenti, Alle origini del mondo moderno, Feltrinelli, Milano 1967. Per l’aspetto filosofico Rudolf Stadelmann, Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, trad. it., Il Mulino, Bologna 1978 (l’originale edizione tedesca è del 1929).
(4) Fondamentale è Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, n. ed. it., Einaudi, Torino 1976, in particolare pp. 887-1326.
(5) Cfr. Giancarlo Sorgia, La politica nord-africana di Carlo V, Cedam, Padova 1963.
(6) A proposito di questo argomento si può vedere Franco Cardini, Le crociate tra il mito e la storia, Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971, pp. 292-332.
(7) F. Braudel, op. cit., considera il 1565 l’ultimo anno della supremazia turca.
(8) Cfr. Ubaldino Mori Ubaldini, La marina del sovrano militare ordine di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, Regionale Editrice, Roma 1971. Per una visione d’insieme è tuttora fondamentale, sul piano degli avvenimenti militari, Camillo Manfroni, Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto (1453-1571), Roma 1897. Ricordo anche il congresso tenutosi a Venezia in occasione del quarto centenario, Il mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, Olfehki, Firenze 1974; cfr. anche Filipe Ruiz Martin, The battle of Lepanto and the Mediterranean, in The Journal of European Economic History, 1, 1 (1972), pp. 166-169.
(9) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 220.
(10) Cfr. Francesco Balbi da Correggio, Diario dell’assedio di Malta, Palombi, Roma 1965; questo testo mi sembra il più interessante per avvicinarsi in modo diretto agli avvenimenti di quei mesi nell’isola.
(11) F. Braudel, op. cit., p. 1088.
(12) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 243.
(13) Cfr. Ludwig Von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, trad. it., Roma 1944.
(14) F. Braudel, op. cit., p. 1100.
(15) Ibid., p. 1101
(16) Ibid., p. 1137.
(17) Ibid., p. 1176.
(18) A causa della tensione tra Cosimo e Filippo II le dodici galee toscane parteciparono come noleggiate dal Papa, le cui insegne — e non quelle stefaniane o medicee — innalzavano: cfr. Cesare Ciano, I primi Medici e il mare, Pacini, Pisa 1980, pp. 59-66.
(19) Cfr. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, trad. it., 2a ed., Einaudi, Torino 1978, pp. 428-432.
(20) Una ricostruzione della galea reale di don Giovanni d’Austria si può vedere nel Museo Navale di Barcellona, in scala 1/1. Nella cattedrale della stessa città si conserva — ed è oggetto di gran devozione — un bel Crocifisso in legno, che si dice fosse a bordo della nave di don Giovanni.
(21) Cfr. Giovanni Pietro Contarini, Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano ai Venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra i Turchi, Francesco Ramparetto, Venezia 1572, foglio 48 r.
(22) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 274.
(23) Si tratta dell’Uccialì o Uccialli delle fonti cristiane. Il comportamento del Doria fu molto criticato, sia da alcuni contemporanei che da alcuni storici moderni. Ma la storiografia contemporanea tende a riconoscere l’opportunità del suo comportamento.
(24) G. P. Contarini, op. cit., f. 50 v.
(25) Gerolamo Diedo, La battaglia di Lepanto, Daelli, Milano 1863, p. 35. Diedo era un veneziano abitante a Corfù, contemporaneo degli avvenimenti.
(26) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 277.
(27) ci. Diedo, op. cit., pp. 29-30.
(28) Cfr. F. Lane, op. cit., p. 431.
(29) Cfr. F. Braudel, op. cit., p. 1181.
(30) Cfr. Paolo Preto, Peste e società a Venezia nel 1576, Neri Pozza, Vicenza 1978.
(31) Così conclude anche F. Braudel, op. cit., p. 1182 «[…] se, anziché badare soltanto a ciò che seguì a Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità, la fine d’un altrettanto reale supremazia della flotta turca […] Prima di far dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme». Il contemporaneo Contarini (op. cit., f. 34), scrive che prima di Lepanto «già era da tutte le parti il Christianesimo pieno di terrore».
(32) Interessante documentazione in Guido Antonio Quarti, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell’epoca, Milano 1930.
(33) Andrea Dragonetti de Torres, La Lega di Lepanto nel carteggio diplomatico di don Luis de Torres nunzio straordinario di S. Pio V a Filippo II, Bocca, Torino 1931, p. 64. Peraltro, san Pio V aveva già ricevuto la notizia per mezzo di un rivelazione divina: cfr. card. Giorgio Grente, Il pontefice delle grandi battaglie San Pio V, Edizioni Paoline, Roma 1957, pp. 166-168.
(34) Ibid., pp. 62-63
(35) G. P. Contarini, op. cit., f. 54 r.
(36) Citato, non a caso, da Giovanni Cantoni, in conclusione del suo saggio introduttivo a P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 50.
(37) Cfr. Pio Paschini, voce Lepanto, in Enciclopedia Cattolica.